LA TRAPPOLA: AFGHANISTAN 1979-2009

16 dicembre 2009

L'obiettivo è che gli Stati Uniti possano contare su una base militare da cui attaccare la Russia e la Cina di Tiberio Graziani Il presidente Obama ha appena scelto la scalata militare in Afghanistan, dove la NATO affronta l’insurrezione dei pashtunes, che la propaganda sta associando con l’oscurantismo religioso. Scommettendo per la scalata militare, Washington si mette in un nuovo pantano. L’analista italiano, Tiberio Graziani osserva in questo articolo la trappola afgana, montata dagli Stati Uniti nel 1979 contro i sovietici, si chiude oggi sulle truppe del Pentagono.  Ribelli afgani sui resti di un elicottero sovietico. A quell’epoca, i muyahidenes erano considerati, da Washington, come “combattenti per la libertà”, oggi, distruggono gli elicotteri della NATO e sono qualificati come “terroristi talebani”. 1979, l’anno della destabilizzazione. Tra i diversi avvenimenti della politica internazionale del 1979, ce ne sono due particolarmente importanti per aver contribuito all’alterazione del quadro geopolitico globale, basato allora sulla contrapposizione tra gli USA e l' URSS. Ci riferiamo alla rivoluzione islamica dell’Iran e l’avventura sovietica in Afghanistan. La presa del potere da parte dell’ayatollah Khomeini, come si sa, ha eliminato uno dei pilastri fondamentali sul quale si sostentava l’architettura geopolitica occidentale guidata dagli USA. L’Iran di Reza Pahlavi costituiva nelle relazioni di forza tra gli USA e l' URSS un pezzo importante, la cui sparizione indusse il Pentagono e Washington ad una profonda riconsiderazione del ruolo geostrategico americano. Un Iran autonomo e fuori dal controllo introduceva nella scacchiera geopolitica regionale una variabile che potenzialmente metteva in crisi tutto il sistema bipolare. Inoltre, il nuovo Iran, come potenza regionale antistatunitense e antisraeliana, possedeva le caratteristiche (in modo particolare, l’estensione e la centralità geopolitica e l' omogeneità polita- religiosa) per competere per l’egemonia di almeno una parte dell’aerea meridionale, in aperto contrasto con gli interessi simili di Ankara e Tel Aviv, i due fedeli alleati di Washington e di Islamabad. Per queste considerazioni, gli strateghi di Washington, coerenti alla loro bicentenaria “geopolitica del caos”, in poco tempo hanno indotto, l’Iraq di Saddam Hussein a scatenare una guerra contro l’Iran. Lo squilibrio di tutta la zona permetteva a Washington e all’Occidente di guadagnare tempo per progettare una strategia di lunga durata e, tranquillamente, consumare l’orso sovietico. Come ha evidenziato dodici anni fa Zbigniew Brzezinski [1] consigliere della sicurezza nazionale del presidente Jimmy Carter, durante un’intervista concessa al settimanale francese Le Nouvel Observateur (15-21 gennaio 1998, pag 76), la CIA era entrata in Afghanistan con lo scopo di destabilizzare il governo di Kabul, già a luglio del 1979, cinque mesi prima dell’intervento sovietico. La prima direttiva con la quale Carter autorizzava l’azione segreta per aiutare segretamente gli oppositori del governo filosovietico risale, infatti, al 3 luglio. Quello stesso giorno lo stratega statunitense di origine polacca, scrisse una nota al presidente Carter nella quale spiegava che la sua azione avrebbe portato Mosca ad intervenire militarmente. Ciò che puntualmente avvenne alla fine di dicembre di quello stesso anno. Sempre Brzezinski, durante la stessa intervista, ricorda che, quando i sovietici entrarono in Afghanistan, scrisse a Carter un’altra nota nella quale espresse la sua opinione sul fatto che gli USA finalmente avevano l’opportunità di dare all’Unione Sovietica la loro guerra del Vietnam. Il conflitto, insostenibile per Mosca, avrebbe condotto, secondo Brzezinski, al collasso dell’impero sovietico. Il lungo impegno militare sovietico a favore del governo comunista di Kabul, di fatto, ha contribuito ulteriormente a debilitare l' URSS, già in avanzato stato di crisi interna, sia nella parte politica-burocratica che in quella socio- economica. Come sappiamo oggi, il ritiro dell’esercito da parte di Mosca dal teatro afgano lasciò tutta la zona in una situazione di estrema fragilità politica, economica e, soprattutto, geostrategica. In pratica, neanche dieci anni dopo la rivoluzione di Teheran, tutta la regione era stata completamente destabilizzata a beneficio esclusivo del sistema occidentale. Il contemporaneo inarrestabile declino dell' Unione Sovietica, accelerato dall’avventura afgana e, successivamente, lo smembramento della Federazione Iugoslava (una specie di Stato tappo tra i blocchi occidentali e sovietici) degli anni '90 aprivano le porte all’espansione USA, l' hyperpuissance, come definito dal ministro francese Hubert Védrine, nello spazio eurasiatico. Dopo il sistema bipolare, si apriva una nuova fase geopolitica: quella del “momento unipolare”. Il nuovo sistema unipolare, però, avrebbe avuto vita breve, e sarebbe finito –all’alba del XXI secolo- con la riaffermazione della Russia come attore globale e con il sorgere contemporaneo delle potenze asiatiche, Cina ed India. I cicli geopolitici dell’Afghanistan L’Afghanistan per le sue proprie caratteristiche, relative principalmente alla sua posizione nello spazio sovietico (confini con le repubbliche, in quell’epoca sovietiche, del Turkmenistan, Uzbekistan e Tayikistan), alle caratteristiche fisiche, e, inoltre, alla mancanza di omogeneità etnica, culturale e confessionale, rappresentava, agli occhi di Washington, una porzione fondamentale del chiamato “arco di crisi”, cioè, la striscia di territorio che si estende dai confini meridionali dell' URSS fino all’Oceano Indiano. L’elezione come trappola per l' URSS cadde sull’Afghanistan, quindi, per evidenti motivi geopolitici e geostrategici. Dal punto di vista dell’analisi geopolitica, infatti, l’Afghanistan costituisce un chiaro esempio di un’aerea critica, dove le tensioni tra le grandi potenze si scaricano da tempi memorabili. L’area nella quale si trova attualmente la Repubblica Islamica dell’Afghanistan, dove il potere politico sempre si è strutturato sulla dominazione delle tribù pashtunes sulle altre etnie (tayikos, hazaras, uzbecos, turcomani, baluchi) si forma precisamente nella frontiera dei tre grandi dispositivi geopolitici: l’impero mongolo, il Khanato uzbeko e l'impero persiano. Le dispute tra le tre identità geopolitiche limitrofe determineranno la loro storia futura. Nel XVIII e XIX secolo, quando l’apparato statale si sarebbe consolidato come regno afgano, l’area sarebbe stata oggetto delle contese tra le due grandi entità geopoliche: l’Impero Russo e la Gran Bretagna. Nell’ambito del così detto “Grande Gioco”, la Russia, potenza di terra, nel suo impeto verso i mari caldi (Oceano Indiano), l’India e la Cina, si scontrano con una potenza marittima britannica che, a sua volta, cerca di chiudere e di penetrare la massa eurasiatica in Oriente verso la Birmania, la Cina, il Tibet e la conca del Yangtse, girando sull’India, ed in Occidente in direzione degli attuali Pakistan, Afghanistan e Iran, verso il Caucaso, il Mar Nero, la Mesopotamia e il Golfo Persico. Nel sistema bipolare della fine del ventesimo secolo, come sopra descritto, l'Afghanistan sarà un campo in cui vengono misurate di nuovo una potenza del mare, gli Stati Uniti, e da terra, l'URSS . Oggi, dopo l’invasione statunitense del 2001, che presuntuosamente Brzezinski definiva come la trappola afgana per i sovietici è diventata la palude e l’incubo degli Stati Uniti. [1] «La monstruosa estrategia para destruir Rusia», por Arthur Lepic, Red Voltaire, 12 de diciembre 2004. Fonte:http://www.voltairenet.org/article163239.html Traduzione per Voci Dalla Strada a cura di Vanesa Video correlati: L'UOMO DIETRO BARAK OBAMA (1/2) L'UOMO DIETRO BARAK OBAMA (2/2)

LA TRAPPOLA: AFGHANISTAN 1979-2009

16 dicembre 2009

L'obiettivo è che gli Stati Uniti possano contare su una base militare da cui attaccare la Russia e la Cina di Tiberio Graziani Il presidente Obama ha appena scelto la scalata militare in Afghanistan, dove la NATO affronta l’insurrezione dei pashtunes, che la propaganda sta associando con l’oscurantismo religioso. Scommettendo per la scalata militare, Washington si mette in un nuovo pantano. L’analista italiano, Tiberio Graziani osserva in questo articolo la trappola afgana, montata dagli Stati Uniti nel 1979 contro i sovietici, si chiude oggi sulle truppe del Pentagono.  Ribelli afgani sui resti di un elicottero sovietico. A quell’epoca, i muyahidenes erano considerati, da Washington, come “combattenti per la libertà”, oggi, distruggono gli elicotteri della NATO e sono qualificati come “terroristi talebani”. 1979, l’anno della destabilizzazione. Tra i diversi avvenimenti della politica internazionale del 1979, ce ne sono due particolarmente importanti per aver contribuito all’alterazione del quadro geopolitico globale, basato allora sulla contrapposizione tra gli USA e l' URSS. Ci riferiamo alla rivoluzione islamica dell’Iran e l’avventura sovietica in Afghanistan. La presa del potere da parte dell’ayatollah Khomeini, come si sa, ha eliminato uno dei pilastri fondamentali sul quale si sostentava l’architettura geopolitica occidentale guidata dagli USA. L’Iran di Reza Pahlavi costituiva nelle relazioni di forza tra gli USA e l' URSS un pezzo importante, la cui sparizione indusse il Pentagono e Washington ad una profonda riconsiderazione del ruolo geostrategico americano. Un Iran autonomo e fuori dal controllo introduceva nella scacchiera geopolitica regionale una variabile che potenzialmente metteva in crisi tutto il sistema bipolare. Inoltre, il nuovo Iran, come potenza regionale antistatunitense e antisraeliana, possedeva le caratteristiche (in modo particolare, l’estensione e la centralità geopolitica e l' omogeneità polita- religiosa) per competere per l’egemonia di almeno una parte dell’aerea meridionale, in aperto contrasto con gli interessi simili di Ankara e Tel Aviv, i due fedeli alleati di Washington e di Islamabad. Per queste considerazioni, gli strateghi di Washington, coerenti alla loro bicentenaria “geopolitica del caos”, in poco tempo hanno indotto, l’Iraq di Saddam Hussein a scatenare una guerra contro l’Iran. Lo squilibrio di tutta la zona permetteva a Washington e all’Occidente di guadagnare tempo per progettare una strategia di lunga durata e, tranquillamente, consumare l’orso sovietico. Come ha evidenziato dodici anni fa Zbigniew Brzezinski [1] consigliere della sicurezza nazionale del presidente Jimmy Carter, durante un’intervista concessa al settimanale francese Le Nouvel Observateur (15-21 gennaio 1998, pag 76), la CIA era entrata in Afghanistan con lo scopo di destabilizzare il governo di Kabul, già a luglio del 1979, cinque mesi prima dell’intervento sovietico. La prima direttiva con la quale Carter autorizzava l’azione segreta per aiutare segretamente gli oppositori del governo filosovietico risale, infatti, al 3 luglio. Quello stesso giorno lo stratega statunitense di origine polacca, scrisse una nota al presidente Carter nella quale spiegava che la sua azione avrebbe portato Mosca ad intervenire militarmente. Ciò che puntualmente avvenne alla fine di dicembre di quello stesso anno. Sempre Brzezinski, durante la stessa intervista, ricorda che, quando i sovietici entrarono in Afghanistan, scrisse a Carter un’altra nota nella quale espresse la sua opinione sul fatto che gli USA finalmente avevano l’opportunità di dare all’Unione Sovietica la loro guerra del Vietnam. Il conflitto, insostenibile per Mosca, avrebbe condotto, secondo Brzezinski, al collasso dell’impero sovietico. Il lungo impegno militare sovietico a favore del governo comunista di Kabul, di fatto, ha contribuito ulteriormente a debilitare l' URSS, già in avanzato stato di crisi interna, sia nella parte politica-burocratica che in quella socio- economica. Come sappiamo oggi, il ritiro dell’esercito da parte di Mosca dal teatro afgano lasciò tutta la zona in una situazione di estrema fragilità politica, economica e, soprattutto, geostrategica. In pratica, neanche dieci anni dopo la rivoluzione di Teheran, tutta la regione era stata completamente destabilizzata a beneficio esclusivo del sistema occidentale. Il contemporaneo inarrestabile declino dell' Unione Sovietica, accelerato dall’avventura afgana e, successivamente, lo smembramento della Federazione Iugoslava (una specie di Stato tappo tra i blocchi occidentali e sovietici) degli anni '90 aprivano le porte all’espansione USA, l' hyperpuissance, come definito dal ministro francese Hubert Védrine, nello spazio eurasiatico. Dopo il sistema bipolare, si apriva una nuova fase geopolitica: quella del “momento unipolare”. Il nuovo sistema unipolare, però, avrebbe avuto vita breve, e sarebbe finito –all’alba del XXI secolo- con la riaffermazione della Russia come attore globale e con il sorgere contemporaneo delle potenze asiatiche, Cina ed India. I cicli geopolitici dell’Afghanistan L’Afghanistan per le sue proprie caratteristiche, relative principalmente alla sua posizione nello spazio sovietico (confini con le repubbliche, in quell’epoca sovietiche, del Turkmenistan, Uzbekistan e Tayikistan), alle caratteristiche fisiche, e, inoltre, alla mancanza di omogeneità etnica, culturale e confessionale, rappresentava, agli occhi di Washington, una porzione fondamentale del chiamato “arco di crisi”, cioè, la striscia di territorio che si estende dai confini meridionali dell' URSS fino all’Oceano Indiano. L’elezione come trappola per l' URSS cadde sull’Afghanistan, quindi, per evidenti motivi geopolitici e geostrategici. Dal punto di vista dell’analisi geopolitica, infatti, l’Afghanistan costituisce un chiaro esempio di un’aerea critica, dove le tensioni tra le grandi potenze si scaricano da tempi memorabili. L’area nella quale si trova attualmente la Repubblica Islamica dell’Afghanistan, dove il potere politico sempre si è strutturato sulla dominazione delle tribù pashtunes sulle altre etnie (tayikos, hazaras, uzbecos, turcomani, baluchi) si forma precisamente nella frontiera dei tre grandi dispositivi geopolitici: l’impero mongolo, il Khanato uzbeko e l'impero persiano. Le dispute tra le tre identità geopolitiche limitrofe determineranno la loro storia futura. Nel XVIII e XIX secolo, quando l’apparato statale si sarebbe consolidato come regno afgano, l’area sarebbe stata oggetto delle contese tra le due grandi entità geopoliche: l’Impero Russo e la Gran Bretagna. Nell’ambito del così detto “Grande Gioco”, la Russia, potenza di terra, nel suo impeto verso i mari caldi (Oceano Indiano), l’India e la Cina, si scontrano con una potenza marittima britannica che, a sua volta, cerca di chiudere e di penetrare la massa eurasiatica in Oriente verso la Birmania, la Cina, il Tibet e la conca del Yangtse, girando sull’India, ed in Occidente in direzione degli attuali Pakistan, Afghanistan e Iran, verso il Caucaso, il Mar Nero, la Mesopotamia e il Golfo Persico. Nel sistema bipolare della fine del ventesimo secolo, come sopra descritto, l'Afghanistan sarà un campo in cui vengono misurate di nuovo una potenza del mare, gli Stati Uniti, e da terra, l'URSS . Oggi, dopo l’invasione statunitense del 2001, che presuntuosamente Brzezinski definiva come la trappola afgana per i sovietici è diventata la palude e l’incubo degli Stati Uniti. [1] «La monstruosa estrategia para destruir Rusia», por Arthur Lepic, Red Voltaire, 12 de diciembre 2004. Fonte:http://www.voltairenet.org/article163239.html Traduzione per Voci Dalla Strada a cura di Vanesa Video correlati: L'UOMO DIETRO BARAK OBAMA (1/2) L'UOMO DIETRO BARAK OBAMA (2/2)

In Cina si festeggia una nuove festa esotica il Natale

mercoledì 16 dicembre 2009

http://cache.daylife.com/imageserve/0245fSM0JeeWD/610x.jpg Quando parte un ordine dall'alto, in Cina, si vede. L'ultimo è questo: "Compagni, festeggiate". Problema: nessuno sa perché. Il 25 dicembre, o la notte di San Silvestro, qui non significano nulla. La gente si alza e va a lavorare. I cristiani sono una minoranza, dispersa tra atei e buddhisti. L'anno nuovo, per il calendario cinese, inizierà ai primi di febbraio. Il prossimo sarà quello della tigre: eterna felicità. Ma il 2009, nelle metropoli dell'Impero di Mezzo, sarà ricordato come l'anno record delle spese per il Natale e il Capodanno all'occidentale. Mao? Meglio Santa Claus. Il messaggio, questa volta, parte del cuore del potere comunista. La nuova potenza del mondo celebra così il compimento del suo successo economico globale e i rivoluzionari, 60 anni dopo, si risvegliano per lo shopping. Doppie feste, doppi regali, doppi consumi. Sono gli unici, nei flutti mondiali della crisi. Fino ad oggi, il Natale capitalista si erano limitati a produrlo da operai e ad esportarlo: addobbi, giocattoli, elettronica, vestiti, a prezzi da fiera. Ma ora tutto è cambiato. Per la prima volta, quest'anno, le spese natalizie interne, in Cina, saranno superiori all'export. Una febbre nazionale. Tale che i giornali, invasi dalla pubblicità di orologi, gioielli e alta moda, osano chiedere discretamente: "Compagni, ma cosa festeggiamo in dicembre?". Un sondaggio ha stabilito che lo sa il 4% della popolazione. Di questo, il 96% ha meno di 24 anni e il 100% naviga in Internet. Il dibattito su "vergognosa imitazione dell'Occidente" e "nuovo consumismo asiatico disperato" l'hanno chiuso le autorità. In Cina, Natale e Capodanno, d'ora in poi, si chiameranno ufficialmente "Festival del regalo". E si vede. Nell'ultimo week-end, a Pechino, i negozi sono stati presi d'assalto da 9 milioni di persone. Nelle strade sono comparsi 15 mila, giganteschi, abeti elettrici. Dietro il mausoleo di Mao, nelle nuove vie del lusso, davanti ai centri commerciali dei quartieri del business, si aggirano migliaia di confuciani Babbi Natale: distribuiscono doni a bambini stupefatti e vecchi spaventati. Megafoni diffondono "Happy Christmas" anche nel Tempio dei Lama. Le municipalità di Pechino, Shanghai e Shenzen hanno steso 170 chilometri di luminarie. Non ci sono, è chiaro, presepi: ma per il resto, in Cina ormai è più Natale che a Berlino, Roma, o New York. "Siamo il mercato della ricchezza più esplosivo del mondo - esulta Frankie Leung, direttore del Shanghai Consulting Group e le festività occidentali sono l'occasione migliore per dimostrarlo".
Un'indagine statale ha scoperto che 12.900 ristoranti cinesi offriranno quest'anno pranzi natalizi e cenoni con menù "all'europea", con prezzi da 60 a 900 dollari a testa. A impressionare, però, sono gli acquisti. Tra novembre e dicembre, grazie alle "offerte natalizie", in Cina si venderanno oltre 2 milioni di nuove auto. Il cinese medio, colpito da quella che è stata ribattezzata "sindrome del satellite", la notte del 31 dicembre spenderà poco meno del doppio del suo stipendio mensile. I ricercatori di mercato, a Hangzhou, hanno chiesto perché a mille clienti di un grande magazzino. Sette su dieci erano convinti fosse Halloween.Alcuni casi stanno facendo discutere. Il magnate Stanley Ho, per la cena di Natale, ha speso 250 mila dollari per un tartufo. A Shanghai un'imprenditrice ha preteso di entrare il 31 dicembre nel nuovo loft da dieci milioni di dollari. A Hong Kong, domenica scorsa, l'asta natalizia dei grandi vini ha fatturato 11 milioni di euro. Un'industriale, a Pechino, regalerà alla figlia di sette anni un cane, un Tibetan terrier, da 400 mila euro. Alla selezione per 40 posti al veglione su uno yacht, con i più ricchi di Canton, si sono presentate 1.500 ragazze. È la punta di un iceberg popolare che, soprattutto nei villaggi, resta sommerso nella povertà. Su 1,3 miliardi di cinesi, i miliardari sono 79, i milionari 450 mila; le quattrocento persone più ricche posseggono un patrimonio complessivo di 314 miliardi. Ma la Cina che imita follemente lo schema del Natale europeo, conferma che la sua anima, dopo i suoi consumatori comunisti, è cambiata. Mao soppiantato da Babbo Natale per ordine di partito, può farci sorridere: però è meglio pensarci. di Giampaolo Visetti Fonte: laRepubblica.it http://nuovediscussioni.blogspot.com/2009/12/in-cina-si-festeggia-una-nuove-festa.html

In Cina si festeggia una nuove festa esotica il Natale

mercoledì 16 dicembre 2009

http://cache.daylife.com/imageserve/0245fSM0JeeWD/610x.jpg Quando parte un ordine dall'alto, in Cina, si vede. L'ultimo è questo: "Compagni, festeggiate". Problema: nessuno sa perché. Il 25 dicembre, o la notte di San Silvestro, qui non significano nulla. La gente si alza e va a lavorare. I cristiani sono una minoranza, dispersa tra atei e buddhisti. L'anno nuovo, per il calendario cinese, inizierà ai primi di febbraio. Il prossimo sarà quello della tigre: eterna felicità. Ma il 2009, nelle metropoli dell'Impero di Mezzo, sarà ricordato come l'anno record delle spese per il Natale e il Capodanno all'occidentale. Mao? Meglio Santa Claus. Il messaggio, questa volta, parte del cuore del potere comunista. La nuova potenza del mondo celebra così il compimento del suo successo economico globale e i rivoluzionari, 60 anni dopo, si risvegliano per lo shopping. Doppie feste, doppi regali, doppi consumi. Sono gli unici, nei flutti mondiali della crisi. Fino ad oggi, il Natale capitalista si erano limitati a produrlo da operai e ad esportarlo: addobbi, giocattoli, elettronica, vestiti, a prezzi da fiera. Ma ora tutto è cambiato. Per la prima volta, quest'anno, le spese natalizie interne, in Cina, saranno superiori all'export. Una febbre nazionale. Tale che i giornali, invasi dalla pubblicità di orologi, gioielli e alta moda, osano chiedere discretamente: "Compagni, ma cosa festeggiamo in dicembre?". Un sondaggio ha stabilito che lo sa il 4% della popolazione. Di questo, il 96% ha meno di 24 anni e il 100% naviga in Internet. Il dibattito su "vergognosa imitazione dell'Occidente" e "nuovo consumismo asiatico disperato" l'hanno chiuso le autorità. In Cina, Natale e Capodanno, d'ora in poi, si chiameranno ufficialmente "Festival del regalo". E si vede. Nell'ultimo week-end, a Pechino, i negozi sono stati presi d'assalto da 9 milioni di persone. Nelle strade sono comparsi 15 mila, giganteschi, abeti elettrici. Dietro il mausoleo di Mao, nelle nuove vie del lusso, davanti ai centri commerciali dei quartieri del business, si aggirano migliaia di confuciani Babbi Natale: distribuiscono doni a bambini stupefatti e vecchi spaventati. Megafoni diffondono "Happy Christmas" anche nel Tempio dei Lama. Le municipalità di Pechino, Shanghai e Shenzen hanno steso 170 chilometri di luminarie. Non ci sono, è chiaro, presepi: ma per il resto, in Cina ormai è più Natale che a Berlino, Roma, o New York. "Siamo il mercato della ricchezza più esplosivo del mondo - esulta Frankie Leung, direttore del Shanghai Consulting Group e le festività occidentali sono l'occasione migliore per dimostrarlo".
Un'indagine statale ha scoperto che 12.900 ristoranti cinesi offriranno quest'anno pranzi natalizi e cenoni con menù "all'europea", con prezzi da 60 a 900 dollari a testa. A impressionare, però, sono gli acquisti. Tra novembre e dicembre, grazie alle "offerte natalizie", in Cina si venderanno oltre 2 milioni di nuove auto. Il cinese medio, colpito da quella che è stata ribattezzata "sindrome del satellite", la notte del 31 dicembre spenderà poco meno del doppio del suo stipendio mensile. I ricercatori di mercato, a Hangzhou, hanno chiesto perché a mille clienti di un grande magazzino. Sette su dieci erano convinti fosse Halloween.Alcuni casi stanno facendo discutere. Il magnate Stanley Ho, per la cena di Natale, ha speso 250 mila dollari per un tartufo. A Shanghai un'imprenditrice ha preteso di entrare il 31 dicembre nel nuovo loft da dieci milioni di dollari. A Hong Kong, domenica scorsa, l'asta natalizia dei grandi vini ha fatturato 11 milioni di euro. Un'industriale, a Pechino, regalerà alla figlia di sette anni un cane, un Tibetan terrier, da 400 mila euro. Alla selezione per 40 posti al veglione su uno yacht, con i più ricchi di Canton, si sono presentate 1.500 ragazze. È la punta di un iceberg popolare che, soprattutto nei villaggi, resta sommerso nella povertà. Su 1,3 miliardi di cinesi, i miliardari sono 79, i milionari 450 mila; le quattrocento persone più ricche posseggono un patrimonio complessivo di 314 miliardi. Ma la Cina che imita follemente lo schema del Natale europeo, conferma che la sua anima, dopo i suoi consumatori comunisti, è cambiata. Mao soppiantato da Babbo Natale per ordine di partito, può farci sorridere: però è meglio pensarci. di Giampaolo Visetti Fonte: laRepubblica.it http://nuovediscussioni.blogspot.com/2009/12/in-cina-si-festeggia-una-nuove-festa.html

Dove finiscono i nostri vecchi computer? Nei bambini.

Dic 0916

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Pubblicato da Debora Billi alle 13:11 in Risorse

africakids.jpg

Diciamo sempre che i nostri rifiuti dovrebbero diventare una risorsa, ricchi come sono di materie prime perfettamente riciclabili. In Africa ci hanno preso in parola, e infatti recuperano religiosamente ogni materiale nascosto nei vecchi computer.

Purtroppo, questo lodevole lavoro non viene effettuato con tutti i crismi. Riporta lo Spiegel che in Ghana esiste un'enorme discarica a cielo aperto che sta avvelenando tutto il Paese. Nessuno si avvicina, perché i fumi pestilenziali di plastiche, fili e schede madri sono pesantemente tossichi. Si tratta infatti del luogo dove vanno a finire tutti i computer europei che vengono gettati via (pensavamo francamente che sparissero nel nulla), e solo i bambini si azzardano ad avvicinarsi per cercare di guadagnare qualcosa.

Bambini che non hanno mai visto un computer sano in vita loro -né tantomeno hanno avuto la possibilità di usarlo- ma che ogni giorno smontano, rompono e bruciano i nostri rifiuti alla ricerca di preziosi fili di rame, pezzetti di alluminio, viti in acciaio.

Questi bambini vivono tra i rifiuti dell'era Internet, e molti di loro ci muoiono. Fanno a pezzi i computer, infrangono gli schermi con le pietre, e gettano l'elettronica tra le fiamme. I computer contengono grandi quantità di metalli pesanti, e quando bruciano i bambini inalano fumi altamente cancerogeni. I computer dei ricchi avvelenano i poveri del mondo.

C'è qualcosa di molto significativo in questo scontro finale tra le pietre e i computer.

http://petrolio.blogosfere.it/2009/12/dove-finiscono-i-nostri-vecchi-computer-nei-bambini.html

Dove finiscono i nostri vecchi computer? Nei bambini.

Dic 0916

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Diciamo sempre che i nostri rifiuti dovrebbero diventare una risorsa, ricchi come sono di materie prime perfettamente riciclabili. In Africa ci hanno preso in parola, e infatti recuperano religiosamente ogni materiale nascosto nei vecchi computer.

Purtroppo, questo lodevole lavoro non viene effettuato con tutti i crismi. Riporta lo Spiegel che in Ghana esiste un'enorme discarica a cielo aperto che sta avvelenando tutto il Paese. Nessuno si avvicina, perché i fumi pestilenziali di plastiche, fili e schede madri sono pesantemente tossichi. Si tratta infatti del luogo dove vanno a finire tutti i computer europei che vengono gettati via (pensavamo francamente che sparissero nel nulla), e solo i bambini si azzardano ad avvicinarsi per cercare di guadagnare qualcosa.

Bambini che non hanno mai visto un computer sano in vita loro -né tantomeno hanno avuto la possibilità di usarlo- ma che ogni giorno smontano, rompono e bruciano i nostri rifiuti alla ricerca di preziosi fili di rame, pezzetti di alluminio, viti in acciaio.

Questi bambini vivono tra i rifiuti dell'era Internet, e molti di loro ci muoiono. Fanno a pezzi i computer, infrangono gli schermi con le pietre, e gettano l'elettronica tra le fiamme. I computer contengono grandi quantità di metalli pesanti, e quando bruciano i bambini inalano fumi altamente cancerogeni. I computer dei ricchi avvelenano i poveri del mondo.

C'è qualcosa di molto significativo in questo scontro finale tra le pietre e i computer.

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La vergogna dell’auto in Italia: 38 bn di acquisti, 65 bn di tasse

Oggi farò un’eccezione allo status deontologico del giornalista, che deve mantenersi indipendente dalle diverse lobbies in campo in ogni segmento della produzione, al fine di salvaguardare la propria indipendenza di giudizio verso qualunque punto di vista “costituito” secondo interessi dichiaratamente di parte. Interverrò alla conferenza stampa di fine anno dell’Unrae, l’associazione dei produttori esteri di autoveicoli che operano sul mercato italiano. Non sposerò la loro richiesta di incentivi pubblici all’acquisto di veicoli a minori emissioni anche per il 2010. Ma testimonierò contro quello che considero un vero scandalo antieconomico: che senso ha dare incentivi al settore a spese dei contribuenti, quando su 38 miliardi di euro spesi in acquisti di auto dalle famiglie italiane nel 2009, lo Stato ricava la bellezza di 65 miliardi di euro in tasse? Quel che serve è ribaltare il punto di vista. Non aiuti discrezionali pubblici alla vendita, ma meno rapina di Stato sull’acquisto e la proprietà. Avrebbe effetti sicuramente maggiori e migliori, meno distorsivi.

La stima del mercato è di 2,1 mio di unità vendute a fine 2009, grazie agli incentivi assunti da fine febbraio in avanti che hanno potentemente – come in tre quarti della UE – sostenuto il mercato, con 795 mila nuovi veicoli incentivati entro fine ottobre, e saranno un milione o più entro fine anno. Per i produttori – quelli esteri sul mercato italiano pesano per il 69% del venduto, e hanno diminuito la quota di meno dell’1% nel 2009 malgrado i più che poporzionali incentivi riservati dal governo alla sola propulsione a metano, che è esclusivamente FIAT - occorre naturalmente estendere e ampliare l’incentivo anche nel 2010, comprendendovi tutta la classe Euro2 se vogliamo che anche nel 2010 si vendano in Italia almeno 2,1 milioni di unità, stante la perdurante crisi dei veicoli commerciali e industriali che non sono stati compresi nella Tremonti ter.

Per noi liberisti, secondo me, vale invece la pena sottolineare tre fatti, assai difficilmente giustificabili. La quota detraibile per le aziende delle auto acquistate resta al 40% del valore totale e del 40% per l’IVA relativa, mentre in tutti gli altri grandi Paesi europei è oggi del 100%, e oltretutto da noi entro un tetto massimo di 18mila euro che è ormai fermo da 12 anni. Il che significa incentivare le famiglie all’acquisto, ma scoraggiare invece le aziende, e deprimere la componente delle flotte societarie: guarda caso, nel segmento relativo, soprattutto quello D non a caso sceso dal 16,5% del mercato italiano nel 2000 a poco più del 12% nel 2009, la FIAt non ha oggi modelli.

Secondo aspetto. Sull’acquisto e la proprietà di auto, in Italia continuano a gravare oggi ben 30 – trenta! – diversi adempimenti amministrativi cartacei - tra fase del preacquisto, acquisto, immatricolazione, iscrizione al PRA, e documenti connessi a proprietà e circolazione – e ben 18 – diciotto! – forme diverse di prelievo tra tasse, imposte e contributi – tra IVA all’acquisto, IPT diversificata per maggiorazione da Provincia a Provincia, imposta sull’assicurazione RCA, contributo al SSN sul premio assicurativo, tassa di proprietà, imposte di bollo su certificato di conformità, richiesta immatricolazione, iscrizione al PRA, accise sulla benzina per la crisi di Suez del 1956, per il disastro del Vajont, per l’inondazione dell’Arno, il terremoto del Belice e via continuando, imposta sugli olii lubrificanti nei veicoli e nei ricambi, tassa sugli olii usati, contributo obbligatorio per la raccolta delle batterie e pneumatici usati, imposte e tasse sui trasferimenti di proprietà, quelle sulle radiazioni dal PRA, sul trasferimento di residenza e su Diosachecosancora…

Terzo aspetto, conseguente: sui 38 miliardi di euro in acquisti di auto stimati nel 2009, il totale del gettito pubblico in imposte e tasse gravanti sul trasporto su strada sfiorerà o supererà i 65 miliardi di euro. E’ un controsenso assoluto, di fronte a queste cifre, incentivare l’acquisto di auto coi soldi del contribuente. Basta che lo Stato abbatta le sue richieste e i suoi incassi, lasciando liberi i consumatori di scegliere che cosa vogliono e se vogliono, invece di decidere dall’alto e discrezionalmente quali motorizzazioni premiare, di chi e perché.

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DIBATTITO/ Pelanda: così le regole dell’Ue ci stanno impoverendo tutti

mercoledì 16 dicembre 2009

Il fantasma di un default della Grecia, dopo le rassicurazioni di Angela Merkel, sembra definitivamente allontanato. Prova ne è che di Atene, del suo rating declassato, della sua difficoltà ad onorare il debito e del suo bisogno di elaborare subito un programma credibile di sviluppo non si parla quasi più. E il caso-Grecia è pian piano scivolato fuori dalle cronache. Dunque capitolo chiuso? Niente affatto: perché ora è la politica monetaria europea che apre una serie di interrogativi ai quali bisognerebbe dare una risposta. Ne va della tenuta dell’euro e delle istituzioni dell’Europa unita. Da quasi 15 anni Carlo Pelanda è una delle voci che in Italia si sforzano di gettar luce sui problemi di solidità dell’architettura euromonetaria.

Lei è favorevole alla stabilità finanziaria globale ottenuta attraverso la creazione di aree monetarie integrate, alla fine convergenti in un’unica moneta mondiale, ma pochi come lei hanno “sparato” contro l’euro, che è uno di questi passi integrativi da lei auspicati. Perché?

Ho sparato contro le modalità con cui l’euro è stato fatto e non certo contro l’idea di moneta unica europea. Le mie prime perplessità nacquero nel 1993 quando, nel luogo di osservazione privilegiato di consigliere del ministro degli Esteri Andreatta (durante il governo Ciampi, ndr) osservavo che la Francia stava cercando disperatamente di bloccare il riemergere della Germania come potere unico europeo ed aveva scelto la soluzione di toglierle il marco come strumento di potenza. L’agenda di realizzazione era ancora sfumata, ma subito espressi dei dubbi. Due in particolare.

Quali?

Il primo, il tentativo di europeizzare la Germania per ingabbiarla avrebbe comportato la germanizzazione dell’Europa; il secondo, l’unione monetaria implicava, prima, un cambio di modello economico per gli Stati europei, per dare loro più capacità di crescita - oltre che di disciplina -, altrimenti avrebbero subito un impoverimento. In altri termini: la Germania avrebbe rinunciato al marco solo se l’euro sarebbe stato come il marco stesso, inapplicabile agli altri. Quando nel 1996 vidi che Francia e Germania decisero di realizzare l’unione monetaria mi venne un colpo. Questi sono matti, dissi e scrissi.

Proprio lei scrisse che «un’unione monetaria fatta costruendo prima il tetto e poi i muri non avrebbe funzionato o avrebbe costretto ad impoverimenti delle nazioni per reggerla». Esattamente cosa è stato fatto male?

Nel modello dell’euro - che chiamo l’“automa di Amsterdam” perché lì fu concepito nel 1997 - le nazioni cedono sovranità economica (bilancio e cambio) ad un agente europeo senza riceverne indietro abbastanza per gestire con la giusta flessibilità i propri problemi, strutturali e contingenti specifici. Questa è la causa esterna dell’impoverimento per molte euronazioni.

Un esempio?

La regola europea corrente impedisce ad una nazione di andare in deficit oltre una data soglia per ogni anno. Ciò impedisce detassazioni stimolative che richiedono deficit temporanei anche rilevanti per tre o cinque anni prima del riequilibrio di bilancio, cioè prima che la maggior crescita dia più gettito pur a tasse diminuite. La stabilità della moneta è ottenuta a scapito della crescita. Matti, appunto.

Qualche anno fa sul Foglio lei riferì di una conversazione con Karl Otto Pohl, ex banchiere centrale tedesco, che temeva proprio in questi anni l’uscita di Italia, Spagna, Grecia, Portogallo ed altri paesi dall’euro, per la combinazione di indisciplina nazionale e regime troppo rigido degli europarametri…

Era un timore che grazie al cielo non si realizzerà a breve, ma che senza cambiamenti diventerà un rischio crescente.

Soluzioni?

Non solo bilanciamento per dare più flessibilità alle nazioni, ma anche vera europeizzazione. Un esempio. L’Italia ha mantenuto la sovranità sul debito, ma l’ha ceduta sui mezzi per ripagarlo. Così moriremo noi e l’euro. Se, invece, il debito delle nazioni fosse impacchettato in un unico contenitore garantito dalla Ue, il suo costo di servizio - cioè gli interessi - e di rifinanziamento sarebbe unico e più basso per le nazioni inguaiate, così aiutandole.

Invece adesso?

Debiti nella stessa moneta, ma con rating diverso. Non ha senso, anche perché se un solo debito nazionale va in insolvenza si dissolve l’euro. Per evitarlo, poi, le nazioni interverranno a sostegno di quella nei guai. Tanto vale consolidare il debito complessivo europeo trasferendolo tutto in un solo contenitore, consolidandolo.

Ci sono soluzioni, dunque?

Certo, bisogna andare avanti. Ci riusciremo applicando all’eurosistema un nuovo modello, in generale, per l’architettura, quello del bilanciamento delle sovranità economiche elaborato da Paolo Savona e da me. Quando nel 2001 uscì il libro che lo invocava (Sovranità & ricchezza, ndr) ci guardarono come marziani. Ora molti lo stanno recuperando dagli archivi. Ma chieda a Savona che lo sta aggiornando.

http://www.ilsussidiario.net/News/Economia-e-Finanza/2009/12/16/DIBATTITO-Pelanda-cos-le-regole-dell-Ue-ci-stanno-impoverendo-tutti/55951/