Linfen, l’inferno è in Cina

di Alessandra Profilio - 08/01/2010 Fonte: Terranauta [scheda fonte]

Cielo nero, aria velenosa, tumori, neonati deformati, minatori mutilati e morti premature: questa l’agghiacciante realtà della città più inquinata del mondo. Linfen, che ospita circa 4 milioni di abitanti e tantissime miniere di carbone, rappresenta l’altra inquietante faccia della crescita economica della Cina: la distruzione dell’ambiente, nonché della salute umana.

abitante linfen “Se odi qualcuno e vuoi punirlo, mandalo a vivere a Linfen”
“Se odi qualcuno e vuoi punirlo, mandalo a vivere a Linfen”, dicono i media cinesi.

Nelle mattine d’inverno lo smog è talmente fitto che un visitatore è in grado di vedere appena 100 metri più avanti. Gli edifici scompaiono nella nebbia. Nei templi antichi, i Buddha sono anneriti dalla polvere di carbone. Il sole è appena visibile nel cielo scuro.

Linfen è una città fantasma, abitata da persone che si profilano nello smog come presenze spettrali.

Soprannominata negli anni ’80 “la moderna città della frutta e dei fiori” e rievocata da un’antica leggenda come la capitale di un remoto regno esistente fino a 4000 anni fa (lo Yan), oggi Linfen è tristemente conosciuta come la città più inquinata del mondo.

Situata sul fiume Fen, nello Shanxi meridionale, Linfen ospita circa 4 milioni di abitanti e grandi miniere di carbone, legali e non, da cui annualmente vengono estratte 650 milioni di tonnellate di carbone (pari a due terzi del fabbisogno nazionale). Nei dintorni delle miniere sono sorti edifici e fabbriche di ogni genere: stabilimenti siderurgici, raffinerie, fonderie e anche industrie alimentari, che consumano 50 milioni di tonnellate di carbone all'anno.

La città è popolata da gente modesta: minatori, operai ed ex-contadini che vivono in misere abitazioni. Al contrario, i proprietari delle miniere stanno ben attenti a tenere le dovute distanze da questa tetra realtà: vi si avvicinano soltanto un paio di volte alla settimana, per conteggiare i succulenti profitti. I benestanti boss del carbone, infatti, hanno acquistato lussuose ville nelle località marittime, distanti circa 12 ore di auto da Linfen, dove l’aria è fresca e pulita.

I ricchi padroni possono permettersi di scappare dallo smog, tutti gli altri sono troppo poveri per poter fuggire.

linfen Ceneri, monossido di carbonio, azoto, arsenico, piombo: nell’aria e nell’acqua sono disperse oltre 200 sostanze tossiche
Linfen costituisce il vivido esempio del grande potere dell’industria cinese di carbone. Il carbone è tutto qui. L’altra faccia della crescita economica è, però, la distruzione dell’ambiente, nonché della salute umana.

Il 52 per cento delle falde acquifere è compromesso in modo irreversibile.

L’acqua, impiegata in grandi quantità nelle industrie e nelle miniere, scarseggia nelle abitazioni comuni. Ceneri, monossido di carbonio, azoto, arsenico, piombo: nell’aria e nell’acqua sono disperse oltre 200 sostanze tossiche.

Gli anziani di Linfen trascorrono le giornate chiusi in casa, per la paura di respirare l’aria nelle strade. I ragazzi sono cresciuti senza aver mai visto le stelle di notte a causa della foschia.

Gli automobilisti sono costretti ad accendere i fari anche di giorno. La gente per le strade indossa sempre abiti scuri, i vestiti chiari diventano inevitabilmente neri, così come si anneriscono le mascherine bianche che tutti indossano. Il veleno oltrepassa gli indumenti e logora, inevitabilmente, i corpi degli sventurati cittadini.

“Quando tossisco il prodotto dei miei polmoni è catarro nero”, dice un abitante di Linfen.

Gli ospedali sono affollati da pazienti che soffrono di bronchite, polmonite e altri problemi respiratori. Moltissime persone hanno la tosse perenne. Tre milioni di individui risultano contaminati. L’avvelenamento da piombo è una delle malattie più diffuse tra i bambini. Il tasso di neonati malformati è il più alto del Pianeta, per non parlare dell’incidenza del cancro ai polmoni.

Ogni anno tantissima gente muore prematuramente per problemi respiratori causati dall’inquinamento. Chi non viene ucciso dal veleno, perde la vita nelle miniere. Negli ultimi tre anni sono morte 470 persone in 49 disastri.

linfen Linfen è una città fantasma, abitata da persone che si profilano nello smog come presenze spettrali
“Nessuno si preoccupa di noi, nessuno viene qui ad indagare”, ha dichiarato tempo fa una donna di Linfen.

Negli ultimi mesi, tuttavia, qualcuno ha deciso di portare alla luce questa infernale realtà.

Il fotografo Lu Guang ha ritratto quell’aria nera, le miniere ed i campi inceneriti. Soprattutto, però, Guang ha fotografato la gente. Le immagini di bambini ed adulti devastati dalle malattie o mutilati nei crolli hanno scioccato una miriade di persone che, nel giro di poche ore, hanno espresso online la loro rabbia ed il proprio dispiacere. Così svelata, questa drammatica realtà è apparsa come un prezzo troppo alto da pagare per la crescita economica. Anche le autorità di Pechino si sono allarmate.

Un mese fa, quindi, il governatore dello Shanxi ha annunciato che entro breve tempo le società minerarie della regione saranno ridotte da 2.200 a 100, le miniere passeranno da 2.600 a 1000 e verranno adottate misure elementari contro gli infortuni e regole anti-corruzione.

Se gli interessi economici verranno messi da parte, forse a Linfen tornerà a spendere il sole. Nel frattempo, in questa buia città, la luce è soltanto un miraggio.

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La terra dei liberi

Trattando degli Stati Uniti, vi è a parere di chi scrive un dato molto significativo che non viene mai tenuto nella giusta considerazione, ovvero la percentuale della popolazione detenuta nelle carceri nazionali. Più di un cittadino adulto su 100 dell’unione vive infatti dietro le sbarre, una percentuale di per sé elevatissima, che sale ulteriormente se si prendono in considerazione le persone di colore: circa un nero su 15 infatti negli Stati Uniti si ritrova in carcere (più del 6 %). Per fare un paragone, in Italia il numero dei carcerati nel Settembre del 2009 era di 64.000 persone, ovvero circa lo 0.15% della popolazione adulta. Tralasciando tutte le considerazioni sui sistemi giudiziari differenti, risulta chiaro che l’origine di tale disparità vada ricercata in cause più profonde. Il 25 % dei carcerati di tutto il mondo si trova negli Stati Uniti, mentre la popolazione totale degli states rappresenta solamente il 5 % del totale della popolazione mondiale. Un sistema di governo che priva delle libertà più basilari più di un cittadino su 100 è chiaramente un sistema che di quella libertà di cui si dice portatore non conserva nemmeno le apparenze.
(cliccare qui per una risoluzione maggiore)

La nuova frontiera - Le pillole rosse del weekend

January 8th, 2010 “America alla deriva tra Atlantico e Pacifico”, Il Sole 24 ore. La Cina - trascinata da un boom economico che sembra non avere fine - avanza. E conquista spazio - finalmente, verrebbe da dire - anche sui giornali italiani. Giorni fa, chi scrive si era lamentato. Dicendo in sostanza che la Cina sembrava uscita da vincitrice dall’anno di crisi 2009. Che questo stava cambiando gli equilibri economici e di potere del mondo. E che nessuno - in Italia - sembrava prestare attenzione a un cambiamento potenzialmente epocale. Bene. Qualcosa - nell’ultima settimana - si è mosso. Carlo Bastasin - sulla prima pagina de “il Sole 24 ore” - ha ricostruito tappa per tappa gli ultimi 18 mesi di ascesa dell’ex celeste impero. Conclusione: dal G20 di Pitsburgh al vertice sul clima di Copenaghen, Pechino ha messo in fila un successo diplomatico dopo l’altro. Per cui, scrive Bastasin, certo “il 2009 è stato un anno troppo denso di eventi - dalla crisi globale alle nuove presidenze in America ed Europa - per poterne già leggere la dinamica. Ma se c’è stato un filo conduttore, dal G20 a Copenaghen, è stato lo spostamento di potere da Ovest a Est e il nuovo ruolo della Cina“. Qualcuno - anche sulla nostrana stampa titolata - lo dice. Era ora. Sinai: “La Cina prima in dieci anni”, La Stampa. Sempre questa settimana, il giornalista de “La Stampa”, Glauco Maggi ha intervistato Allen Sinai, presidente di Decision Economics ed analista di economia internazionale. Argomento: di nuovo Pechino. Anzi e per la precisione: l’economia cinese. Che anche quest’anno è cresciuta a ritmi tra il 7 e l’8%. E si avvia a superare - per dimensioni di Pil - anche il Giappone. Diventando così la seconda economia - sempre per dimensioni di Pil - al mondo. Un sorpasso storico che Sinai invita ad osservare da due punti di vista. Da una parte, ha detto l’economista, non bisogna enfatizzare troppo questo dato, perchè “se si divide il Pil per gli abitanti, la Cina (che, secondo Wikipedia, ha circa 1,3 miliardi di abitanti, NdA) è ancora indietro nelle classifiche. Per Pil reale, ossia per crescita pro capite, la strada verso il vertice è ancora lunga”. Ma dall’altra: “La dimensione assoluta è comunque un fattore importante, perché è un simbolo di potere economico che conferisce potere politico”, ha osservato Sinai. Non solo. Presto la classifica dei Paesi più ricchi del mondo potrebbe riservare qualche altra sorpresa. Ovvero? Ovvero, ha spiegato Sinai, la Cina potrebbe superare anche gli Stati Uniti e diventare la prima economia al mondo. Quando? “Entro un decennio - ha detto l’economista - attorno al 2020. Il loro ritmo è e resterà più rapido a lungo, e ciò non deve essere considerato un esito negativo”. “Emerging markets, next frontier of the crisis”, Cnbc. Dunque: siamo davvero di fronte a un sorpasso storico dell’Est sull’Ovest e a un passaggio di consegne epocale? Non secondo Simon Johnson, ex capo economista del Fondo monetario internazionale e ora voce molto fuori dal coro, nel consesso degli esperti di economia a stelle e strisce. Per Johnson, infatti non solo la crisi non è finita. Ma presto potrebbe investire una nuova frontiera. Quella delle economie emergenti. Cina, in testa. Motivo: nulla si è fatto per obbligare le banche - vero motore della crisi - a investire il loro danaro in maniera più prudente. Danaro che ora si sta rovesciando a ritmi vertiginosi proprio su quei Paesi, come la Cina, che stanno continuando a tirare. Risultato: nuove bolle pronte a esplodere. Magari proprio a Pechino. Possibile? Possibile eccome, ha detto Simon Johnson. Che - intervistato da Cncb - ha osservato: “Tutti nel 1989 erano convinti che il Giappone sarebbe diventato il numero uno e poi c’è stato un crac massiccio”. E la stessa cosa potrebbe succedere in Cina. Cosa che per l’economia mondiale - secondo Johnson - potrebbe essere “un’enorme catastrofe”. Insomma: Cina boom o Cina sboom? Difficile dire. Anche perchè un’informazione libera - anche soprattutto in campo economica - a Pechino non esiste. Ed è difficile giudicare. Ma una cosa è certa. Per capire cosa accadrà - nel bene e nel male - all’economia mondiale nei prossimi anni, sempre lì bisognerà guardare: ad Est. http://bamboccioni-alla-riscossa.org/?p=5111

Cina, prima nel mondo per le esportazioni

Pechino supera la Germania e getta le premesse per diventare la prima potenza economica globale

Cina, prima nel mondo per le esportazioni

Home > Economia > Notizia Leggi articoli in lingua: Inglese Francese Serbo
Sab 9 Gen 2010 ore 14:21:36
di: Filippo Ghira
Alla fine i cinesi ci sono riusciti. Nel 2009 la Cina è diventata il primo Paese del mondo per volume di esportazioni sopravanzando la Germania. Era una notizia attesa ma si tratta in ogni caso di una svolta epocale che prelude ad un sempre maggiore ruolo interventista dell’ex Celeste Impero sullo scenario internazionale non solo in termini economici e finanziari, come è normale che sia, ma anche in campo politico e militare. L’ufficio centrale tedesco di statistica ha reso noti ieri i dati relativi al periodo gennaio-novembre 2009 da quali emerge che le esportazioni tedesche hanno toccato i 734,6 miliardi di euro (1050 miliardi di dollari) contro i 748 miliardi delle esportazioni cinesi pari a 1070 miliardi di dollari. La svolta è significativa perché è dal 2003 che la Germania guidava la particolare classifica e perché la perdita del primato non implica un calo delle esportazioni tedesche che semmai negli ultimi mesi sono aumentate. A novembre infatti il saldo dell’interscambio commerciale tedesco ha toccato i 17,2 miliardi (in ottobre era di 13,6 miliardi) e questo rappresenta un record per tutto il periodo che parte dal giugno 2008. Da parte loro le esportazioni hanno toccato i 70,6 miliardi (+12% sul 2008) e le importazioni hanno segnato il tetto di 53,4 miliardi con un calo del 5,9%. Se quindi la Germania, nonostante la crisi, appare in piena salute, questo finisce per attribuire ancora più importanza e rilievo al primato cinese. Un primato costruito con la pazienza delle formiche e che vide il suo avvio nella storica visita di Nixon e Kissinger a Pechino nel febbraio del 1972, grazie alla quale la Cina incominciò ad aprirsi al Libero Mercato, pur lasciando le redini del potere reale nelle mani del Partito Comunista che oggi, come allora, continua a dettare le regole del gioco e a stroncare con la massima energia e ferocia chiunque tenti di minare le fondamenta degli equilibri esistenti. Si tratta di una commistione mai vista prima di libertà di mercato e di autoritarismo politico che ha dimostrato di poter resistere agli influssi esterni del mercato globale. La Cina ha potuto buttare sul tavolo da gioco la tradizionale operosità del suo popolo che non si era fatta comprimere nemmeno negli anni più bui della dittatura. Una operosità che le comunità di cinesi sparse per il mondo hanno esportato nei Paesi di adozione e che gli ha consentito spesso ad impiantare vere e proprie aziende nella nuova realtà. Come avevano fatto in precedenza i giapponesi, pure i cinesi hanno copiato i prodotti dalle aziende cosiddette “occidentali”, europee e americane, poi hanno cercato di assimilarne la tecnologia e al tempo stesso hanno investito sul capitale umano mandando migliaia di giovani a formarsi nelle università straniere. Infine, imparato il come si fa, il cosiddetto “know how”, le conoscenze tecnologiche, i cinesi hanno incominciato ad inondare il mondo di prodotti propri che si avvantaggiano di prezzi bassi, frutto di un costo del lavoro decisamente minore di quello dei Paesi occidentali. Certo, all’inizio i prodotti cinesi non brillavano per la qualità della loro tecnologia ma poi, come è fisiologico che fosse, le cose sono cambiate e il prodotto cinese si è affermato anche nei settori dell’alta tecnologia, quella per intendersi che rappresenta una assicurazione per il futuro perché garantisce ad un Paese la possibilità di esercitare un ruolo primario negli equilibri economici e politici internazionali, ad incominciare da quelli militari. E così dopo aver inondato il mondo con prodotti tessili molto concorrenziali per il prezzo e che crescevano progressivamente in qualità, grazie anche all’apporto di imprenditori stranieri, italiani in primis, residenti in loco, la Cina riesce ora ad esportare prodotti contraddistinti da una tecnologia che non ha nulla da invidiare, anzi, a quella europea, statunitense o giapponese. Certo, c’è da tenere presente, che nel suo impetuoso sviluppo la Cina è stata molto aiutata dal sostegno ricevuto dagli Stati Uniti. Nixon e Kissinger già 38 anni fa avevano intuito le enormi possibili rappresentate da un Paese di quasi un miliardo di abitanti. Una realtà da usare non solo e non tanto in funzione anti sovietica ma da destinare a mercato di sbocco per i prodotti statunitensi. E fino a pochi anni fa questa era la base del legame tra Pechino e Washington, un legame preferenziale che aveva portato i cinesi a detenere il 70% dei titoli del debito pubblico americano. Ora questo legame si è rivelato essere troppo soffocante per i cinesi che si rendono ben conto della debolezza strutturale dell’economia Usa della quale la crisi finanziaria del 2008 non è stata altro che la punta dell’iceberg. Come facciamo a fidarci, hanno pensato i dirigenti cinesi, di un Paese come gli Usa gravato da un gigantesco debito pubblico e da un altrettanto enorme disavanzo commerciale? Che valore possono avere i titoli Usa che abbiamo in portafoglio e che valore può avere ormai una moneta come il dollaro, accettata in nome dell’abitudine come mezzo di pagamento nelle transazioni commerciali internazionali, mancando per ora una alternativa concreta, ma ormai priva di valore reale? Da qui il progressivo sganciamento di Pechino dai vincoli con gli Usa, da qui la richiesta di sostituire il dollaro con un paniere di monete che comprenda l’euro, lo yen giapponese, la sterlina, lo stesso dollaro e appunto lo yuan cinese. Un traguardo inevitabile e al quale prima o poi si arriverà con i cinesi che non nascondono le loro ambizioni sul fatto che lo yuan possa arrivare ad essere la moneta di riferimento del panorama internazionale. Del resto, se la Cina è il primo esportatore del globo, è fisiologico che lo yuan ne guadagni in autorevolezza e assuma un ruolo primario come mezzo di pagamento. Ma il primato di Pechino deve indurre anche ad una seria riflessione sulla decadenza economica degli Stati Uniti. Doversi accontentare del terzo posto, dopo Cina e Germania, come Paese esportatore, implica che gli Usa non riescono ad imporre il proprio modello economico all’estero. Basando ormai da anni la propria forza sulla domanda proveniente dal mercato interno, si tratta pur sempre di un Paese di 300 milioni di abitanti, non riescono però a diffondere più nel mondo la propria tecnologia se non quella che ha immediate applicazioni in campo militare. E infatti gli Usa appaiono oggi soprattutto come un colosso militare destinato nel lungo termine a divenire un nano politico in conseguenza della sua debolezza economica. E la Cina è ben pronta a prenderne il posto, potendo mettere in campo tutta la forza e l’energia di un Paese ancora giovane e con la voglia di crescere ancora. http://www.rinascita.eu/index.php?action=cat&c=25 Articolo letto: 25 volte (08 Gennaio 2010)

LA BOLLA DEL DEBITO GONFIATA DA TREMONTI

Data: Sabato, 09 gennaio @ 06:22:08 CST Argomento: Italia DI SUPERBONUS antefatto.ilcannocchiale.it/ Il ministro aumenter� la durata dei titoli emessi dal Tesoro. E quindi sale il loro Le previsioni di crescita del Pil per il 2010 saranno riviste al rialzo. Lo ha detto a inizio settimana Claudio Scajola, ministro dello Sviluppo economico. La speranza del governo � che quest�anno l�economia italiana cresca dell�1,1-1,2 per cento, cio� di circa 20 miliardi di euro. Guarda caso, la spesa corrente � cresciuta della medesima cifra nel 2009 e si manterr� costante nel 2010. E dato che il Pil si calcola sommando la spesa per gli investimenti, la spesa per i consumi, la bilancia commerciale e, appunto, la spesa della Pubblica amministrazione, non era difficile arrivare a tale risultato. Giulio il banchiere. Il fatto � che l�economia Italiana � ferma e il governo continua a indebitarsi per mantenere una parvenza di crescita. Ulteriore controprova � data da un mercato del lavoro che anche nel 2010 produrr� disoccupati. Alla fine tocca ammettere che Giulio Tremonti usa gli stessi metodi dei banchieri d�affari che tanto criticava: non produce ricchezza, ma aumenta soltanto il debito, riversandolo sulla spesa corrente. Una partita di giro che fa comodo alla miriade di imprenditori, faccendieri-consulenti, proprietari di cliniche legati a doppio filo ai canali di spesa pubblica, ma che non produce alcun beneficio reale per le condizioni di vita dei cittadini. Una bolla creata con il debito della quale tutti, prima o poi, saremo chiamati a pagare le conseguenze. Come le banche americane avevano venduto il sogno che tutti potevano possedere una casa � bastava indebitarsi, no? � cos� Silvio Berlusconi e i suoi ministri continuano a venderci la favola che tutto va bene e nessuno ci presenter� mai il conto. Sotto Natale, il superministro dell�Economia aveva provato a far passare la riforma fiscale come uno strumento di equit� ma, prudentemente, non aveva mai parlato di abbassamento delle tasse. Anzi. Di fronte alle contestazioni di Renato Brunetta e Mario Baldassarri, ha sempre risposto: "E� gi� un miracolo se non le alzo". Il giorno della Befana, per�, ci ha pensato direttamente Berlusconi a promettere l�Eldorado dell�abbassamento delle aliquote nel 2010, proprio con la riforma fiscale di cui aveva parlato Tremonti. A quel punto gli investitori internazionali sul debito pubblico italiano hanno pensato a due ipotesi: o siamo di fronte a una balla preelettorale di dimensioni colossali oppure a un governo talmente acrobatico che, dopo due scudi fiscali, osa pensare seriamente di diminuire il gettito. Eppure nel Decreto di programmazione economico-finanziaria per gli anni 2010-2013, di "riduzione delle entrate fiscali" non c�� traccia. Su questo Dpef hanno fatto, fanno e faranno affidamento le agenzie di rating e gli investitori internazionali anche in questo 2010, quando l�Italia collocher� sul mercato 240 miliardi di debito pubblico. La bolla e la balla. Per tener fede agli impegni con i mercati e per diminuire le tasse a qualcuno, il premier dovrebbe quindi aumentarle a qualcun altro, forse in maniera pi� che proporzionale. La bolla di Tremonti si scontra, nella logica degli analisti finanziari, con la balla di Berlusconi. E qualcuno doveva dare una spiegazione. Ci ha pensato l�altroieri Paolo Bonaiuti (immaginiamo sollecitato da Tremonti), smentendo che il governo stia progettando un taglio delle tasse. Una smentita inedita, che la dice lunga sull'assenza assoluta di margini di manovra e sui rischi che stiamo correndo sul fronte della finanza pubblica. Il problema resta l'elevatissimo debito pubblico e chi opera sui mercati lo sa fin troppo bene. Ma a Roma � iniziata la corsa a rinviare il problema, approfittando della relativa calma delle Borse. E come ieri raccontava benissimo MF, il Tesoro si accinge ad aumentare la scadenza media del debito con emissioni a 15 e 30 anni. Va ricordato che oggi la durata media del debito � di 7 anni, con una media di scadenze annuali pari a circa 250 milioni. Tremonti intende diminuire la dipendenza annuale dal mercato, allungando la durata del debito. Nei paesi latinoamericani, abituati a situazioni di debito molto critiche, si direbbe che il Professore sta "spingendo il problema con la pancia". Ovvero, lo rinvia non solo senza affrontarlo, ma anche senza sfiorarlo. Un paese con i conti in ordine potrebbe approfittare dei bassi tassi d�interesse della curva a breve, per emettere titoli a reddito fisso con interessi compresi fra il 2,25 per cento e il 2,90 per cento. Invece qui si preferisce (o si � costretti) a emettere scadenze pi� lunghe con tassi compresi fra il 4,20 per cento ed il 4,80 per diminuire gli ammortamenti nei primi anni. Da quando i furbi banchieri d�affari hanno convinto il Tesoro che i Btp legati all�inflazione pagano solo il 2,35 per cento di cedola, mentre lo Stato pagher� l�inflazione accumulata sul capitale solo fra trent�anni, Tremonti adora questi titoli che potremmo definire �a responsabilit� politica differita�. Se questa � la logica, forse qualche spericolato banchiere di Wall Street abita anche in Italia. Dalle parti di via XX Settembre. Superbonus Fonte: http://antefatto.ilcannocchiale.it/ Da Il Fatto Quotidiano dell'8 settembre
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L’ ORDINE DEL GIORNO SEGRETO DELLO YEMEN

Data: Venerdì, 08 gennaio @ 17:10:00 CST Argomento: Geopolitica DIETRO GLI SCENARI DI AL-QAIDA, UN CHECK POINT STRATEGICO DEL TRANSITO DEL PETROLIO DI F. WILLIAM ENGDAHL globalresearch.ca/ Il 25 dicembre scorso le autorità statunitensi hanno arrestato un Nigeriano di nome Abdulmutallab a bordo di un volo della Northwest Airlines da Amsterdam a Detroit, con l’accusa di aver tentato di far saltare in aria l’aeromobile con degli esplosivi di contrabbando. Da quel momento sono state trasmesse notizie dalla CNN, dal New York Times e da altre fonti che fosse “sospettato” di essere stato addestrato nello Yemen per la sua missione terroristica. Ciò a cui il mondo è stato assoggettato è l’emergenza di un nuovo bersaglio per la ‘guerra al terrorismo’ americana, ossia un desolato stato della penisola araba, lo Yemen. Uno sguardo più approfondito al quadro generale suggerisce che il Pentagono e l’intelligence americana abbiano un ordine del giorno segreto nello Yemen. Da alcuni mesi il mondo ha assistito ad una costante escalation del coinvolgimento militare americano nello Yemen, una terra deprimentemente povera confinante a nord con l’Arabia Saudita, prospiciente ad un’altra terra desolata di cui si è parlato molto di recente, la Somalia. Le prove suggeriscono che il Pentagono e l’intelligence americana si stiano muovendo per militarizzare un chokepoint strategico per i flussi petroliferi mondiali, Bab el-Mandab, e che stiano sfruttando l’incidente della pirateria somala, insieme alle teorie di una nuova crescente minaccia di Al-Quaeda nello Yemen, per militarizzare una delle rotte mondiali più importanti per il trasporto del petrolio. Inoltre, le riserve non sfruttate di petrolio nel territorio tra lo Yemen e l’Arabia Saudita sarebbero tra le più grandi del mondo. Il 23enne nigeriano Abdulmutallab, accusato dell’attentato kamikaze fallito, stando ai resoconti avrebbe parlato, affermando di essere stato mandato in missione da Al-Qaeda nella Penisola Araba (AQAP), con base nello Yemen. Questo ha convenientemente rivolto l’attenzione del mondo sullo Yemen come nuovo centro della presunta organizzazione terroristica di Al-Quaeda. Notabilmente, Bruce Riedel, veterano con 30 anni di esperienza nella CIA che ha consigliato il presidente Obama sulla politica che ha portato all’aumento delle truppe in Afghanistan, ha scritto nel suo blog sui presunti legami dell’attentatore di Detroit con lo Yemen, “il tentativo di distruggere il volo 253 della Northwest Airlines in servizio da Amsterdam a Detroit il giorno di Natale evidenzia la crescente ambizione della cellula di Al Qaeda nello Yemen, che da un ordine del giorno essenzialmente yemenita è cresciuta diventando un attore della jihad islamica globale l’anno scorso… Il debole governo yemenita del presidente Ali Abdallah Saleh, che non ha mai controllato appieno il paese e che ora affronta una serie di crescenti problemi, avrà bisogno di notevole sostegno da parte dell’America per sconfiggere l’AQAP”. [1] Un po’ di geopolitica basilare dello Yemen Prima che si possa dire molto sull’ultimo incidente, è utile guardare con maggiore attenzione alla situazione dello Yemen. Qui molte cose appaiono peculiari, confrontate con le accuse di Washington su un’organizzazione insorgente di Al-Quada nella penisola araba. All’inizio del 2009 hanno iniziato a muoversi i pezzi sulla scacchiera yemenita. Tariq al-Fadhli, un ex leader della jihad dello Yemen del Sud, ha rotto un’alleanza di 15 anni con il governo dello Yemen del presidente Ali Abdullah Saleh, annunciando che si sarebbe unito alla coalizione di larga base dell’opposizione conosciuta come il Southern Movement (SM). Al-Fadhli era stato membro del movimento di Mujahideen in Afghanistan alla fine degli anni 80. La sua rottura con il governo è stata riportata dai media arabi e yemeniti nell’aprile del 2009. La rottura di Al-Fadhli con la dittatura dello Yemen ha dato nuovo potere al Southern Movement (SM). Da quel momento è diventato una figura di spicco dell’alleanza. Lo stesso Yemen è un amalgama sintetico creato dopo il crollo dell’Unione Sovietica nel 1990, quando la Repubblica Democratica Popolare dello Yemen [o Yemen del Sud] ha perso uno dei suoi maggiori sponsor all’estero. L’unificazione della Repubblica Araba dello Yemen del Nord con la Repubblica Democratica Popolare dello Yemen del Sud ha portato ad un ottimismo di breve durata, che è terminato con una breve guerra civile nel 1994, quando le fazioni dell’esercito del sud hanno organizzato una rivolta contro quello che vedevano come il governo corrotto dello stato amico del presidente del nord Ali Abdullah Saleh. Il presidente Saleh è rimasto a capo di una dittatura dal 1978, prima come presidente dello Yemen del Nord (la Repubblica Araba dello Yemen) e a partire dal 1990 come presidente del nuovo Yemen unificato. La rivolta dell’esercito del sud è fallita quando Saleh ha reclutato al-Fadhli ed altri salafisti yemeniti, seguaci di un’interpretazione conservatrice dell’Islam, oltre ai jihadisti per combattere contro le forze marxiste del Partito Socialista dello Yemen meridionale. Prima del 1990 Washington e il Regno Saudita sostenevano Saleh e la sua politica di islamizzazione nel tentativo di contenere il sud comunista. [2] Da quel momento in poi Saleh ha fatto affidamento su di un forte movimento salafista-jihadista per mantenere un governo dittatoriale. La rottura con Saleh da parte di al-Fadhli e lo schieramento di quest’ultimo con il gruppo di opposizione del sud con i suoi ex nemici socialisti è stato un maggiore ostacolo per Saleh. Poco dopo che al-Fadhli si è unito alla coalizione del Southern Movement, il 28 aprile 2009, si sono intensificate le proteste nelle province meridionali dello Yemen di Lahj, Dalea e Hadramout. Ci sono state dimostrazioni da parte di decine di migliaia di militari licenziati e dipendenti statali che chiedevano stipendi più alti e benefici, dimostrazioni che avevano luogo in numeri sempre maggiori dal 2006. Le dimostrazioni di aprile hanno visto per la prima volta l’apparizione pubblica di al-Fadhli. La sua apparizione è servita a cambiare un movimento del sud socialista da lungo tempo moribondo in una più ampia campagna nazionalista. Ha inoltre spronato il presidente Saleh a chiedere allora l’aiuto dell’Arabia Saudita e di altri stati del Consiglio di Cooperazione del Golfo, avvertendo che l’intera penisola araba avrebbe subito le conseguenze. A complicare il quadro di quello che qualcuno chiama uno stato fallimentare, nel nord Saleh affronta una ribellione houtista zaidista sciita. L’11 settembre 2009 durante un’intervista per l’emittente televisiva Al-Jazeera, Saleh ha accusato il leader dell’opposizione sciita irachena, Muqtada al-Sadr, nonché l’Iran, di sostenere i ribelli sciiti houtisti dello Yemen del nord. Saleh ha dichiarato: “non possiamo accusare il lato ufficiale dell’Iran, ma gli Iraniani ci stanno contattando, dicendo che sono pronti ad una mediazione. Questo vuol dire che gli Iraniani hanno contatti con loro [con gli houtisti], dato che vogliono fare da mediatori tra il governo dello Yemen e questi. Inoltre, Muqtada al-Sadr in al-Najaf in Irak chiede di venire accettato come mediatore. Questo vuol dire che hanno un nesso” [3] Le autorità dello Yemen affermano di aver sequestrato scorte di armi fabbricate in Iran, mentre gli houtisti sostengono di aver catturato strumentazioni yemenite con marchio dell’Arabia Saudita, accusando Sana’a (la capitale dello Yemen, nonché sede dell’ambasciata americana) di agire per conto dell’Arabia Saudita. L’Iran ha negato le accuse che sono state rinvenute armi iraniane nello Yemen del nord, definendo prive di fondamento le accuse che sostengano i ribelli. [4] Che c’entra Al Qaeda? Il quadro che emerge è quello di un dittatore appoggiato dagli USA disperato, il presidente dello Yemen Saleh, che perde sempre di più il controllo dopo due decadi di governo despotico dello Yemen unificato. Le condizioni economiche del paese sono deteriorate drasticamente nel 2008 quando sono crollati i prezzi del petrolio nel mondo. Pressappoco il 70% del reddito statale proviene dalle vendite del petrolio dello Yemen. Il governo centrale di Saleh ha sede nell’ex Yemen del Nord a Sana’a, mentre il petrolio sta nell’ex Yemen del Sud. Tuttavia Saleh controlla i flussi di reddito da petrolio. La mancanza di reddito da petrolio ha reso del tutto impossibile la consueta opzione di Saleh di corrompere i gruppi dell’opposizione. In questa caotica situazione nazionale arriva l’annuncio nel gennaio 2009, che ha avuto forti echi in alcuni siti internet, che Al Qaeda, la presunta organizzazione terroristica globale creata dal defunto saudita Osama bin Laden, che fu addestrato dalla CIA, ha aperto una grande nuova cellula terroristica nello Yemen, sia per le operazioni dello Yemen che per quelle dell’Arabia Saudita. Al Qaeda nello Yemen ha rilasciato una dichiarazione attraverso un forum jihadista il 20 gennaio 2009 da parte del leader del gruppo Nasir al-Wahayshi, annunciando la formazione di un unico gruppo di al Qaeda per la penisola araba sotto il suo comando. Secondo al-Wahayshi, il nuovo gruppo, al Qaeda nella Penisola Araba, sarebbe composto dal suo ex Al Qaeda nello Yemen, e dai membri del defunto gruppo della al-Qaeda saudita. Il comunicato stampa sosteneva curiosamente, che un Saudita, un ex detenuto di Guantanamo (il numero 372), Abu-Sayyaf al-Shihri, avrebbe funto da vice di al-Wahayshi. Alcuni giorni dopo è comparso un video online di al-Wahayshi con il titolo allarmante di “cominciamo da qui e ci rincontreremo ad al-Aqsa”. Al-Aqsa si riferisce alla moschea di al-Aqsa di Gerusalemme che gli ebrei conoscono come il Monte del Tempio, il sito del tempio distrutto di Solomone, che i musulmani chiamano Al Haram Al Sharif. Il video minaccia i leader musulmani -- compreso il presidente dello Yemen Saleh, la famiglia reale saudita, e il presidente egiziano Mubarak -- e promette di portare la jihad dallo Yemen ad Israele per “liberare” i luoghi sacri musulmani e Gaza, cosa che scatenerebbe la terza guerra mondiale se qualcuno fosse abbastanza pazzo da farlo. Inoltre in quel video, oltre all’ex prigioniero di Guantanamo al-Shihri, c’è anche una dichiarazione di Abu-al-Harith Muhammad al-Awfi, identificato come un comandante di battaglia nel video, e come presunto ex detenuto di Guantanamo numero 333. Essendo ormai ben appurato che i metodi di tortura non servono ad ottenere confessioni veritiere, qualcuno ha ipotizzato che il reale scopo degli interrogatori della CIA e del Pentagono nella prigione di Guantanamo dal settembre 2001 in poi, sia stato di usare tecniche brutali per addestrare e reclutare i terroristi “dormienti”, che possono essere attivati a comando dall’intelligence americana, un’accusa difficile da provare o confutare. La presenza di due così prominenti laureati di Guantanamo nella nuova Al Qaeda basata nello Yemen suscita certamente degli interrogativi. Al Qaeda nello Yemen è apparentemente in diretta opposizione di al-Fadhli e dell’ingrandito Southern Movement basato sulle masse. Durante un’intervista, al-Fadhli ha dichiarato: “ho forti relazioni con tutti i jihadisti nel nord e nel sud e dappertutto, ma non con al-Qaeda”. [5] Questo non ha impedito a Saleh di affermare che il Southern Movement e al Qaeda sono la stessa ed unica cosa, un modo conveniente per assicurarsi l’appoggio di Washington. Secondo le relazioni dell’intelligence americana, ci sono in totale forse 200 membri di Al Qaeda nello Yemen meridionale. [6] Al-Fadhli ha rilasciato un’intervista in cui si distanzia da al Qaeda nel maggio del 2009, dichiarando: “noi [nel sud dello Yemen] siamo stati invasi 15 anni fa e siamo sotto una spietata occupazione. Quindi siamo impegnati nella nostra causa e non badiamo a nessuna altra causa nel mondo. Vogliamo la nostra indipendenza e vogliamo mettere fine a questa occupazione”. [7] Convenientemente, lo stesso giorno, Al Qaeda si è vistosamente esposta dichiarando il proprio sostegno per la causa dello Yemen meridionale. Il 14 maggio, in un’audioregistrazione rilasciata su internet, al-Wahayshi, leader di al Qaeda nella Penisola Araba, ha espresso partecipazione per la gente delle province meridionali e per il loro tentativo di difendersi contro la loro ”oppressione”, dichiarando, “quello che sta succedendo a Lahaj, Dhali, Abyan e a Hadramaut e nelle altre province meridionali non può essere approvato. Dobbiamo sostenere ed aiutare [i meridionali]”. Ha promesso la sua vendetta: “l’oppressione contro di voi non passerà senza una punizione … l’uccisione di musulmani nelle strade è un grave crimine ingiustificato”. [8] La curiosa emergenza di una piccola ma ben pubblicizzata al Qaeda nello Yemen meridionale nel bel mezzo di quello che gli osservatori chiamano un fronte ampio e popolare del Southern Movement che rifugge dall’ordine del giorno radicale globale di al Qaeda, serve a dare al Pentagono una sorta di casus belli per escalare le operazioni militari americane nella regione strategica. Per l’appunto, dopo aver dichiarato che il conflitto interno dello Yemen è un affare dello Yemen, il presidente Obama ha ordinato gli attacchi aerei nello Yemen. Il Pentagono ha dichiarato che gli attacchi del 17 e del 24 dicembre hanno ucciso tre leader chiave di al Qaeda, ma non ce n’è stata ancora alcuna prova. Adesso il dramma dell’attentatore di Detroit del giorno di Natale ha dato nuova vita alla campagna di “guerra al terrorismo” di Washington nello Yemen. Obama ha ora offerto aiuti militari al governo yemenita di Saleh. L’escalation della pirateria somala come in risposta a segnale Come in risposta ad un segnale, allo stesso tempo i titoli di testa della CNN trasmettono nuove minacce terroristiche dallo Yemen, i perduranti attacchi delle navi mercantili da parte dei pirati somali nello stesso Golfo di Aden e Mar Arabico dallo Yemen meridionale sono aumentati drammaticamente, dopo che erano stati ridotti con il pattugliamento marittimo multinazionale. Il 29 dicembre la RIA Novosti di Mosca ha riportato che i pirati somali avevano catturato una nave da carico greca nel Golfo di Aden, vicino alla costa somala. In precedenza lo stesso giorno anche un tanker chimico che batteva bandiera britannica con il suo equipaggio di 26 persone è stato catturato nel Golfo di Aden. Dando segno di sofisticate tecniche di manipolazione dei media occidentali, il comandante pirata Mohamed Shakir ha detto al quotidiano inglese The Times per telefono: “abbiamo preso una nave con [una] bandiera britannica nel Golfo di Aden ieri tardi”. Il resoconto della società americana di intelligence Stratfor, riporta che il Times, di proprietà del banchiere neoconservatore Rupert Murdoch, viene a volte usato dall’intelligence israeliana per diffondere storie utili. I due ultimi eventi hanno portato gli attacchi e i dirottamenti ad un numero record per il 2009. Al 22 dicembre, gli attacchi da parte dei pirati somali nel Golfo di Aden e nella costa orientale della Somalia erano stati 174, con 35 navi dirottate e 587 membri dell’equipaggio presi in ostaggio finora nel 2009, quasi tutta attività di pirateria con successo, secondo l’osservatorio internazionale della pirateria marittima mondiale. La domanda è chi fornisce ai “pirati” somali le armi e la logistica sufficienti ad eludere i pattugliamenti internazionali di numerose nazioni? Il 3 gennaio il presidente Saleh ha ricevuto una telefonata dal presidente somalo Sheikh Sharif Sheikh Ahmed, in cui quest’ultimo informava il presidente Saleh sui più recenti sviluppi in Somalia. Sheikh Sharif, la cui stessa base a Mogadiscio è così debole da essere a volte chiamato presidente dell’aeroporto di Mogadiscio, ha detto a Saleh che avrebbe condiviso informazioni con Saleh su qualsiasi attività terroristica che potesse essere lanciata dai territori somali e che potesse avere come bersaglio la stabilità e la sicurezza dello Yemen e della regione. Il checkpoint del petrolio ed altri affari oleosi Il significato strategico della regione tra lo Yemen e la Somalia diventa il punto dell’interesse geopolitico. È qui che si trova Bab el-Mandab, uno dei sette chokepoint del trasporto petrolifero nella lista del governo americano. L’Agenzia Internazionale per l’Energia del governo USA cita che “la chiusura di Bab el-Mandab potrebbe impedire ai tanker [provenienti] dal Golfo Persico di raggiungere il Canale di Suez/complesso del Sumed, ridirigendoli intorno alla punta meridionale dell’Africa. Lo stretto di Bab el-Mandab è un chokepoint tra il corno d’Africa e il Medio Oriente, ed un collegamento strategico tra il Mar Mediterraneo e l’Oceano Indiano”. [9] Bab el-Mandab, tra lo Yemen, Djibouti e l’Eritrea collega il Mar Rosso con il Golfo di Aden e il Mar Arabico. Il petrolio e gli altri prodotti di esportazione dal Golfo Persico devono passare per Bab el-Mandab prima di entrare nel Canale di Suez. Nel 2006 il Dipartimento per l’Energia a Washington ha riportato che si stima che 3,3 milioni di barili di petrolio al giorno passano attraverso questo stresso passaggio marittimo per l’Europa, gli Stati Uniti e l’Asia. La gran parte del petrolio, pressappoco 2,1 milioni di barili al giorno, va verso nord attraverso Bab el-Mandab verso il complesso di Suez/Sumed nel Mediterraneo. Un pretesto per la militarizzazione da parte dgli USA o della NATO delle acque circostanti Bab el-Mandab sarebbe per Washington un’altra importante tappa nel suo perseguimento del controllo dei sette chokepoint più critici del mondo, la parte principale di ogni futura strategia americana finalizzata ad impedire i flussi del petrolio verso la Cina, l’Unione Europea o qualunque regione o paese che si opponga alla politica americana. Dato che notevoli flussi di petrolio saudita passano attraverso Bab el-Mandab, un controllo militare americano in quel punto servirebbe a deterrere il Regno Saudita dal considerare seriamente la transazione delle vendite future del petrolio con la Cina o con altri non più in dollari, come è stato recentemente riportato dal giornalista inglese indipendente Robert Fisk. Sarebbe inoltre nella posizione di minacciare il trasporto del petrolio della Cina da Port Sudan sul Mar Rosso appena a nord di Bab el-Mandab, un’ancora di salvezza fondamentale per le necessità energetiche nazionali cinesi. Oltre alla sua posizione geopolitica come un maggiore chokepoint del transito del petrolio, lo Yemen stando a quanto riportato avrebbe alcune delle più grandi riserve di petrolio non sfruttate del mondo. Masila Basin e Shabwa Basin nello Yemen secondo quanto riportato dalle società petrolifere internazionali conterrebbero “scoperte di ordine mondiale”. [10] La Total francese e svariate società petrolifere internazionali più piccole sono impegnate nello sviluppo della produzione petrolifera dello Yemen. Circa quindici anni fa un insider ben informato di Washington mi ha detto nel corso di un incontro privato che lo Yemen conteneva “abbastanza petrolio non sviluppato per soddisfare la domanda di petrolio del mondo intero per i prossimi cinquantanni”. Forse c’è di più, dietro alla recente preoccupazione di Washington per lo Yemen, di una disorganizzata al Qaeda, la cui stessa esistenza come organizzazione terroristica globale è stata messa in dubbio dagli esperti islamici. F. William Engdahl Fonte: www.globalresearch.ca Link: http://www.globalresearch.ca/index.php?context=va&aid=16786 5.01.2010 Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di MICAELA MARRI NOTE 1. Bruce Riedel, The Menace of Yemen, December 31, 2009, accessed in http://www.thedailybeast.com/blogs-and-stories/2009-12-31/the-menace-of-yemen/?cid=tag:all1. 2. Stratfor, Yemen: Intensifying Problems for the Government, May 7, 2009. 3. Cited in Terrorism Monitor, Yemen President Accuses Iraq’s Sadrists of Backing the Houthi Insurgency, Jamestown Foundation, Volume: 7 Issue: 28, September 17, 2009. 4. NewsYemen, September 8, 2009; Yemen Observer, September 10, 2009. 5. Albaidanew.com, May 14, 2009, cited in Jamestown Foundation, op.cit. 6. Abigail Hauslohner, Despite U.S. Aid, Yemen Faces Growing al-Qaeda Threat, Time, December 22, 2009, accessed in www.time.com/time/world/article/0,8599,1949324,00.html#ixzz0be0NL7Cv . 7. Tariq al Fadhli, in Al-Sharq al-Awsat, May 14, 2009, cited in Jamestown Foundation, op. cit. 8. al-Wahayshi interview, al Jazeera, May 14, 2009. 9. US Government, Department of Energy, Energy Information Administration, Bab el-Mandab, accessed in http://www.eia.doe.gov/cabs/World_Oil_Transit_Chokepoints/Full.html. 10 Adelphi Energy, Yemen Exploration Blocks 7 & 74, accessed in http://www.adelphienergy.com.au/projects/Proj_Yemen.php.
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Il settimanale 9/1/2010

Saturday, 9 January, 2010

in Rassegna Stampa

http://phastidio.net/

ECONOMIA CIVILE, LA VIA DELLA RECIPROCITA'!

Nel loro libro dal titolo, " ECONOMIA CIVILE: efficienza, equità, felicità pubblica, Luigino Bruni e Stefano Zamagni, ci propongono un nuovo orizzonte, un orizzonte che guarda oltre il duopolio Stato-Mercato.

Economia civile, un'economia che nasce dalla ricerca dei rapporti di reciprocità, di prossimità, un'economia civile che vede nella nascita della Cooperazione ad opera dei probi pionieri di Rochdale ( Inghilterra 1844 ) , mondo dal quale provengo, il primo germoglio storico, germoglio che oggi conta circa 750 milioni di cooperatori in tutto il mondo pari a circa il 20 % dell'intera umanità.

Nella reciprocità si scopre che lo scambio tra esseri umani non è solo talvolta anonimo e impersonale. Come non dare risalto alla reciprocità spesso latente ma decisamente possibile, tra impresa e consumatori socialmente responsabili, dove lo scambio va oltre il mero profitto e si coniuga con la soddisfazione economica, finanziaria e umana di entrambi i soggetti.

L'attuale scienza economica, sembra negare l'ingresso di idee innovative che provengono da altre scienze sociali. L'economia civile non è solo teoria, ma azione concreta e realtà evidente in molte zone del nostro paese. Terzo settore, settore non profit, economia sociale, economia solidale, sono solo alcune delle forme che si identificano in questa corrente, alla quale la teoria economica dominante riserva attenzioni superficiali.

Stefano Zamagni, presentando uno dei libri di Luigino Bruni "La ferita dell'altro; Economia e relazioni umane, ha sottolineato come il messaggio di fondo sia quello che ...

" l’altro è limite al mio avere, ma necessario al mio essere. L’altro è, ad un tempo, sofferenza e benedizione; ma mentre la sofferenza ha a che vedere con la dimensione dell’avere, la benedizione tocca quella dell’essere. "

Ma diamo un'occhiata in sintesi al significato di economia civile:

" Molti paradossi del mondo globale - disuguaglianze territoriali e individuali, crescita senza occupazione, aumento del reddito pro capite ma non della qualità della vita - hanno più a che fare con situazioni di scarsità sociale che materiale. Eppure le due visioni dominanti del rapporto tra sfera economica e sfera sociale sembrano ignorare tale dato.

La prima considera l'impresa come un'istituzione "asociale", che si muove sul terreno eticamente neutro del mercato, alla quale chiedere semplicemente efficienza e creazione di ricchezza; sarà poi lo stato a redistribuire più equamente le fette della torta.

Per la seconda visione l'impresa è "antisociale" e il mercato il luogo selvaggio dello sfruttamento e della sopraffazione del più debole.

Radicata nel pensiero economico dell'umanesimo civile, la visione dell'economia civile elaborata in questo volume ritiene invece che i principi "altri" dal profitto e dal mero scambio strumentale possano trovare posto proprio dentro l'attività economica e il mercato in particolare; viene anche prospettata una diversa configurazione di quell'insieme di attività che va sotto il nome di non profit e terzo settore. La via è quella dello sviluppo - accanto alle forme tipiche dello stato e del mercato - di istituzioni di welfare civile e di forme nuove di impresa capaci di far diventare il mercato un luogo di incontri civili e civilizzanti, e persino di felicità pubblica. "

Come dice Muhammad Yunus, l'assioma che non può esserci impresa se non viene perseguito il massimo profitto ha creato un mondo che non è più in grado di riconoscere la multidimensionalità degli esseri umani, e proprio per questo il sistema delle imprese è incapace di affrontare molti dei più gravi problemi sociali.

" Dobbiamo tornare a vedere l'essere umano nella sua realtà e comprendere che è mosso da un'infinità di pulsioni diverse. Per questo ci serve un nuovo tipo d'impresa capace di porsi obiettivi diversi da quello del profitto personale, in grado di dedicarsi totalmente alla risoluzione dei problemi sociali e ambientali."

Business che non va confuso con la carità o l'assistenzialismo, ma si tratta di imprese che devono recuperare tutti i costi cui vanno incontro perseguendo i propri obiettivi.

" ...Un'impresa con finalità sociali deve essere concepita e condotta come una vera azienda, con prodotti, servizi, clienti, mercati, spese e ricavi, ma con l'imperativo del vantaggio sociale al posto di quello della massimizzazione dei profitti. Invece di accumulare il livello più alto possibile di profitti finanziari a solo beneficio degli investitori, l'impresa con finalità sociali cerca di raggiungere un obiettivo sociale."

Recentemente Stefano Zamagni in una intervista al Sole 24 Ore, ad una domanda in relazione alle politiche governative di sostegno alla domanda, ha sottolineato come oggi serva una domanda diversa, un enorme mercato inesplorato che è quello dei servizi alla persona, assistenza, sanità, cultura, instruzione.

Dunque meno consumo di merci e più consumo di beni relazionali.

Nella sostanza abbiamo bisogno di creatività, di uno Stato che consideri i bisogni alla persona come un mercato alla stregua delle merci.

Abbiamo bisogno di creatività e fantasia, anche da parte delle giovani generazioni, ma non solo, creatività e fiducia nel cambiamento anche da tutti coloro che amano la reciprocità.

Economia sociale, nessuna utopia, ma una realtà ben radicata come già detto in molte realtà del nostro paese, un'economia dove esiste un futuro diverso uno spazio per la promozione e la messa in pratica di valori come l'equità, la reciprocità, fiducia, responsabilità.

Ecco perchè con gioia mi sento di proporre a tutti Voi, un corso di perfezionamento, rivolto a giovani laureati e a lavoratori, che vogliono formarsi per operare nel Terzo Settore, nel Non Profit, per conoscere e sperimentare una "via alternativa" REALE che si riconosce in una scienza economica che incorpora valori ETICI e SOCIALI.

La conoscenza di vie alternative ha bisogno anche della diffusione, della condivisione con amici, conoscenti e parenti che potrebbero essere interessati ad approffondire l'argomento.

CORSO DI PERFEZIONAMENTO IN ECONOMIA CIVILE e NON PROFIT

Anno Accademico 2009/2010

DIPARTIMENTO DI ECONOMIA POLITICA UNIVERSITA' DEGLI STUDI MILANO BICOCCA

http://www.masterecocivile.altervista.org/

Prof. BRUNI, ZAMAGNI, PORTA, PELLIGRA e ALTRI

Domanda da inoltrare entro il 28 GENNAIO 2010

j Il corso di perfezionamento si svolge presso l’Università di Milano Bicocca e prevede 180 ore di lezione frontale e workshop. Le principali tematiche trattate riguardano l’analisi economica e sociologica dell’economia civile, in particolare: il Terzo settore, i beni relazionali e la teoria dei giochi, l’etica e la responsabilità sociale, i sistemi di accountability, la cooperazione internazionale, il diritto commerciale, gli aspetti amministrativi, la progettazione sociale, il sistema tributario per gli enti non profit. Il corso di perfezionamento si svolge in collaborazione con il Consorzio nazionale della cooperazione sociale Gino Mattarelli (CGM) che raggruppa circa 77 consorzi locali e 1100 cooperative sociali in tutta Italia (www.cgm.coop).

Per ulteriori informazioni: mariagraziacampese@hotmail.com

Tel.: 02 6448 3088 (Prof. Luigino Bruni) 339 4215948 (Dott.ssa Maria Grazia Campese) E-mail: mariagraziacampese@unimib.it TUTOR: Maria Grazia Campese

"Non posso cambiare la direzione del vento, ma posso sempre modificare le mie vele per raggiungere la mia destinazione.” ( Jimmy Dean )

Postato da: icebergfinanza a gennaio 08, 2010 21:43 | link | commenti (5)

0 mondi alternativi, 0 economia civile

http://icebergfinanza.splinder.com/post/22016318/ECONOMIA+CIVILE%2C++LA+VIA+DELLA

Russia-Iran-Cina: nel 2010 potrebbe nascere il nuovo asse energetico

RUSSIA - CINA - IRAN Inaugurato il 6 gennaio un gasdotto tra Iran e Turkmenistan, già in funzione o previsti altri impianti che collegano Russia, Iran e Cina attraverso l’Asia centrale. L’Europa rischia di perdere la corsa per l’energia di Mar Caspio e Asia centrale e diventare dipendente da Mosca.

Mosca (AsiaNews/Agenzie) – Il 6 gennaio è stato inaugurato il gasdotto Dauletabad-Sarakhs-Khangiran, che collega il Caspio settentrionale iraniano con i ricchi giacimenti turkmeni. L’Iran si rivolge sempre più a Cina e Russia non solo per vendere il proprio gas ma anche per creare impianti che trasportino la sua energia. Ma in questo modo Mosca e Pechino hanno la strada ancora più aperta per i ricchi giacimenti dell’Asia centrale, mentre Europa e Stati Uniti continuano le trattative senza realizzare oleodotti verso occidente.

Il nuovo gasdotto turkmeno-iraniano è lungo appena 182 chilometri e per ora si prevede porti “solo” 8 miliardi di metri cubi di gas turkmeno annui. Infatti Tehran importa buona parte del gas necessario per produrre energia elettrica e riscaldamento.

Ma l’impianto ha una capacità di 20 miliardi annui e, quindi, può servire anche per portare il gas iraniano verso oriente.

Soprattutto, l’impianto potrebbe essere prolungato attraverso il Turkmenistan fino alla sponda settentrionale del Mar Caspio e fino a collegarsi con il gasdotto che Russia e Cina discutono se costruire dalla russa Novorossiysk sul Mar Nero ad Alashankou sul confine tra Kazakistan e Cina.

Russia, Iran e Turkmenistan sono il 1°, 2° e 4° Paese con maggiori giacimenti di gas e la Cina ha un’insaziabile sete di energia ed è disposta a grandi investimenti. La Russia vuole rimanere la grande fornitrice di gas per l’Europa, per cui non vede come negativa la concorrenza cinese nell’Asia centrale e nel Caspio: Mosca ha qui già forti rapporti e impianti, e così l’energia della zona non si dirige in Europa. Inoltre la Russia finora ha mostrato di poter offrire al Turkmenistan un prezzo migliore della Cina: infatti Mosca usa poi l’energia dell’Asia centrale per il fabbisogno interno e vende in Europa il proprio gas, a prezzo molto maggiore.

A sua volta l’Iran è isolato dalle sanzioni occidentali, per cui sempre più si rivolge a oriente e alla Russia. Di recente sono aumentati i rapporti tra Iran e Turkmenistan, anche grazie all’intervento del presidente russo Dmitry Medvedev.

La situazione è complicata dall’aspirazione della Turchia di monopolizzare le vie dell’energia verso l’Europa. Cosa che porta Ankara a non voler privilegiare l’esistente gasdotto di 2.577 chilometri da Tabriz in Iran ad Ankara.

Questa serie di rapporti segna la fine della politica Usa per l’energia del Caspio, che avrebbe voluto aggirare la Russia, tenere fuori la Cina e isolare l’Iran. Al contrario Mosca cerca ora di rinsaldare i rapporti anche con l’Azebaigian, che l’Europa vede come fornitore essenziale per il progettato gasdotto Nabucco. Intanto a dicembre Iran e Azerbaigian hanno concordato la creazione dell’impianto Kazi-Magomed-Astara, lungo 1.400 chilometri, per portare il gas azerbagio in Iran.

Consapevole che altre vie si restringono, l’Europa spinge per realizzare l’impianto North Stream. Il progetto russo è stato approvato da Danimarca (a ottobre), Finlandia e Svezia (a novembre) e Germania (a dicembre) e si parla di iniziare i lavori a primavera 2010, per portare il gas dal porto russo di Vyborg a quello tedesco di Greifswald, per 1.220 chilometri sotto il Mar Baltico, rendendo obsoleta la precedente via attraverso Ucraina, Polonia e Bielorussia.

http://www.asianews.it/notizie-it/Russia-Iran-Cina:-nel-2010-potrebbe-nascere-il-nuovo-asse-energetico-17298.html