Cielo nero, aria velenosa, tumori, neonati deformati, minatori mutilati e morti premature: questa l’agghiacciante realtà della città più inquinata del mondo. Linfen, che ospita circa 4 milioni di abitanti e tantissime miniere di carbone, rappresenta l’altra inquietante faccia della crescita economica della Cina: la distruzione dell’ambiente, nonché della salute umana.
“Se odi qualcuno e vuoi punirlo, mandalo a vivere a Linfen”
Nelle mattine d’inverno lo smog è talmente fitto che un visitatore è in grado di vedere appena 100 metri più avanti. Gli edifici scompaiono nella nebbia. Nei templi antichi, i Buddha sono anneriti dalla polvere di carbone. Il sole è appena visibile nel cielo scuro.
Linfen è una città fantasma, abitata da persone che si profilano nello smog come presenze spettrali.
Soprannominata negli anni ’80 “la moderna città della frutta e dei fiori” e rievocata da un’antica leggenda come la capitale di un remoto regno esistente fino a 4000 anni fa (lo Yan), oggi Linfen è tristemente conosciuta come la città più inquinata del mondo.
Situata sul fiume Fen, nello Shanxi meridionale, Linfen ospita circa 4 milioni di abitanti e grandi miniere di carbone, legali e non, da cui annualmente vengono estratte 650 milioni di tonnellate di carbone (pari a due terzi del fabbisogno nazionale). Nei dintorni delle miniere sono sorti edifici e fabbriche di ogni genere: stabilimenti siderurgici, raffinerie, fonderie e anche industrie alimentari, che consumano 50 milioni di tonnellate di carbone all'anno.
La città è popolata da gente modesta: minatori, operai ed ex-contadini che vivono in misere abitazioni. Al contrario, i proprietari delle miniere stanno ben attenti a tenere le dovute distanze da questa tetra realtà: vi si avvicinano soltanto un paio di volte alla settimana, per conteggiare i succulenti profitti. I benestanti boss del carbone, infatti, hanno acquistato lussuose ville nelle località marittime, distanti circa 12 ore di auto da Linfen, dove l’aria è fresca e pulita.
I ricchi padroni possono permettersi di scappare dallo smog, tutti gli altri sono troppo poveri per poter fuggire.
Ceneri, monossido di carbonio, azoto, arsenico, piombo: nell’aria e nell’acqua sono disperse oltre 200 sostanze tossiche
Il 52 per cento delle falde acquifere è compromesso in modo irreversibile.
L’acqua, impiegata in grandi quantità nelle industrie e nelle miniere, scarseggia nelle abitazioni comuni. Ceneri, monossido di carbonio, azoto, arsenico, piombo: nell’aria e nell’acqua sono disperse oltre 200 sostanze tossiche.
Gli anziani di Linfen trascorrono le giornate chiusi in casa, per la paura di respirare l’aria nelle strade. I ragazzi sono cresciuti senza aver mai visto le stelle di notte a causa della foschia.
Gli automobilisti sono costretti ad accendere i fari anche di giorno. La gente per le strade indossa sempre abiti scuri, i vestiti chiari diventano inevitabilmente neri, così come si anneriscono le mascherine bianche che tutti indossano. Il veleno oltrepassa gli indumenti e logora, inevitabilmente, i corpi degli sventurati cittadini.
“Quando tossisco il prodotto dei miei polmoni è catarro nero”, dice un abitante di Linfen.
Gli ospedali sono affollati da pazienti che soffrono di bronchite, polmonite e altri problemi respiratori. Moltissime persone hanno la tosse perenne. Tre milioni di individui risultano contaminati. L’avvelenamento da piombo è una delle malattie più diffuse tra i bambini. Il tasso di neonati malformati è il più alto del Pianeta, per non parlare dell’incidenza del cancro ai polmoni.
Ogni anno tantissima gente muore prematuramente per problemi respiratori causati dall’inquinamento. Chi non viene ucciso dal veleno, perde la vita nelle miniere. Negli ultimi tre anni sono morte 470 persone in 49 disastri.
Linfen è una città fantasma, abitata da persone che si profilano nello smog come presenze spettrali
Negli ultimi mesi, tuttavia, qualcuno ha deciso di portare alla luce questa infernale realtà.
Il fotografo Lu Guang ha ritratto quell’aria nera, le miniere ed i campi inceneriti. Soprattutto, però, Guang ha fotografato la gente. Le immagini di bambini ed adulti devastati dalle malattie o mutilati nei crolli hanno scioccato una miriade di persone che, nel giro di poche ore, hanno espresso online la loro rabbia ed il proprio dispiacere. Così svelata, questa drammatica realtà è apparsa come un prezzo troppo alto da pagare per la crescita economica. Anche le autorità di Pechino si sono allarmate.
Un mese fa, quindi, il governatore dello Shanxi ha annunciato che entro breve tempo le società minerarie della regione saranno ridotte da 2.200 a 100, le miniere passeranno da 2.600 a 1000 e verranno adottate misure elementari contro gli infortuni e regole anti-corruzione.
Se gli interessi economici verranno messi da parte, forse a Linfen tornerà a spendere il sole. Nel frattempo, in questa buia città, la luce è soltanto un miraggio.
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Trattando degli Stati Uniti, vi è a parere di chi scrive un dato molto significativo che non viene mai tenuto nella giusta considerazione, ovvero la percentuale della popolazione detenuta nelle carceri nazionali.
Più di un cittadino adulto su 100 dell’unione vive infatti dietro le sbarre, una percentuale di per sé elevatissima, che sale ulteriormente se si prendono in considerazione le persone di colore: circa un nero su 15 infatti negli Stati Uniti si ritrova in carcere (più del 6 %).
Per fare un paragone, in Italia il numero dei carcerati nel Settembre del 2009 era di 64.000 persone, ovvero circa lo 0.15% della popolazione adulta.
Tralasciando tutte le considerazioni sui sistemi giudiziari differenti, risulta chiaro che l’origine di tale disparità vada ricercata in cause più profonde.
Il 25 % dei carcerati di tutto il mondo si trova negli Stati Uniti, mentre la popolazione totale degli states rappresenta solamente il 5 % del totale della popolazione mondiale.
Un sistema di governo che priva delle libertà più basilari più di un cittadino su 100 è chiaramente un sistema che di quella libertà di cui si dice portatore non conserva nemmeno le apparenze.





DI SUPERBONUS
antefatto.ilcannocchiale.it/
Il ministro aumenter� la durata dei titoli emessi dal Tesoro. E quindi sale il loro
Le previsioni di crescita del Pil per il 2010 saranno riviste al rialzo. Lo ha detto a inizio settimana Claudio Scajola, ministro dello Sviluppo economico. La speranza del governo � che quest�anno l�economia italiana cresca dell�1,1-1,2 per cento, cio� di circa 20 miliardi di euro. Guarda caso, la spesa corrente � cresciuta della medesima cifra nel 2009 e si manterr� costante nel 2010. E dato che il Pil si calcola sommando la spesa per gli investimenti, la spesa per i consumi, la bilancia commerciale e, appunto, la spesa della Pubblica amministrazione, non era difficile arrivare a tale risultato.
Giulio il banchiere. Il fatto � che l�economia Italiana � ferma e il governo continua a indebitarsi per mantenere una parvenza di crescita. Ulteriore controprova � data da un mercato del lavoro che anche nel 2010 produrr� disoccupati. Alla fine tocca ammettere che Giulio Tremonti usa gli stessi metodi dei banchieri d�affari che tanto criticava: non produce ricchezza, ma aumenta soltanto il debito, riversandolo sulla spesa corrente.
Una partita di giro che fa comodo alla miriade di imprenditori, faccendieri-consulenti, proprietari di cliniche legati a doppio filo ai canali di spesa pubblica, ma che non produce alcun beneficio reale per le condizioni di vita dei cittadini. Una bolla creata con il debito della quale tutti, prima o poi, saremo chiamati a pagare le conseguenze.
Come le banche americane avevano venduto il sogno che tutti potevano possedere una casa � bastava indebitarsi, no? � cos� Silvio Berlusconi e i suoi ministri continuano a venderci la favola che tutto va bene e nessuno ci presenter� mai il conto.
Sotto Natale, il superministro dell�Economia aveva provato a far passare la riforma fiscale come uno strumento di equit� ma, prudentemente, non aveva mai parlato di abbassamento delle tasse. Anzi. Di fronte alle contestazioni di Renato Brunetta e Mario Baldassarri, ha sempre risposto: "E� gi� un miracolo se non le alzo".
Il giorno della Befana, per�, ci ha pensato direttamente Berlusconi a promettere l�Eldorado dell�abbassamento delle aliquote nel 2010, proprio con la riforma fiscale di cui aveva parlato Tremonti. A quel punto gli investitori internazionali sul debito pubblico italiano hanno pensato a due ipotesi: o siamo di fronte a una balla preelettorale di dimensioni colossali oppure a un governo talmente acrobatico che, dopo due scudi fiscali, osa pensare seriamente di diminuire il gettito. Eppure nel Decreto di programmazione economico-finanziaria per gli anni 2010-2013, di "riduzione delle entrate fiscali" non c�� traccia. Su questo Dpef hanno fatto, fanno e faranno affidamento le agenzie di rating e gli investitori internazionali anche in questo 2010, quando l�Italia collocher� sul mercato 240 miliardi di debito pubblico.
La bolla e la balla. Per tener fede agli impegni con i mercati e per diminuire le tasse a qualcuno, il premier dovrebbe quindi aumentarle a qualcun altro, forse in maniera pi� che proporzionale. La bolla di Tremonti si scontra, nella logica degli analisti finanziari, con la balla di Berlusconi. E qualcuno doveva dare una spiegazione. Ci ha pensato l�altroieri Paolo Bonaiuti (immaginiamo sollecitato da Tremonti), smentendo che il governo stia progettando un taglio delle tasse. Una smentita inedita, che la dice lunga sull'assenza assoluta di margini di manovra e sui rischi che stiamo correndo sul fronte della finanza pubblica. Il problema resta l'elevatissimo debito pubblico e chi opera sui mercati lo sa fin troppo bene.
Ma a Roma � iniziata la corsa a rinviare il problema, approfittando della relativa calma delle Borse. E come ieri raccontava benissimo MF, il Tesoro si accinge ad aumentare la scadenza media del debito con emissioni a 15 e 30 anni. Va ricordato che oggi la durata media del debito � di 7 anni, con una media di scadenze annuali pari a circa 250 milioni. Tremonti intende diminuire la dipendenza annuale dal mercato, allungando la durata del debito. Nei paesi latinoamericani, abituati a situazioni di debito molto critiche, si direbbe che il Professore sta "spingendo il problema con la pancia".
Ovvero, lo rinvia non solo senza affrontarlo, ma anche senza sfiorarlo. Un paese con i conti in ordine potrebbe approfittare dei bassi tassi d�interesse della curva a breve, per emettere titoli a reddito fisso con interessi compresi fra il 2,25 per cento e il 2,90 per cento. Invece qui si preferisce (o si � costretti) a emettere scadenze pi� lunghe con tassi compresi fra il 4,20 per cento ed il 4,80 per diminuire gli ammortamenti nei primi anni. Da quando i furbi banchieri d�affari hanno convinto il Tesoro che i Btp legati all�inflazione pagano solo il 2,35 per cento di cedola, mentre lo Stato pagher� l�inflazione accumulata sul capitale solo fra trent�anni, Tremonti adora questi titoli che potremmo definire �a responsabilit� politica differita�. Se questa � la logica, forse qualche spericolato banchiere di Wall Street abita anche in Italia. Dalle parti di via XX Settembre.
Superbonus
Fonte: http://antefatto.ilcannocchiale.it/
Da Il Fatto Quotidiano dell'8 settembre
DI F. WILLIAM ENGDAHL
globalresearch.ca/
Il 25 dicembre scorso le autorità statunitensi hanno arrestato un Nigeriano di nome Abdulmutallab a bordo di un volo della Northwest Airlines da Amsterdam a Detroit, con l’accusa di aver tentato di far saltare in aria l’aeromobile con degli esplosivi di contrabbando. Da quel momento sono state trasmesse notizie dalla CNN, dal New York Times e da altre fonti che fosse “sospettato” di essere stato addestrato nello Yemen per la sua missione terroristica. Ciò a cui il mondo è stato assoggettato è l’emergenza di un nuovo bersaglio per la ‘guerra al terrorismo’ americana, ossia un desolato stato della penisola araba, lo Yemen. Uno sguardo più approfondito al quadro generale suggerisce che il Pentagono e l’intelligence americana abbiano un ordine del giorno segreto nello Yemen.
Da alcuni mesi il mondo ha assistito ad una costante escalation del coinvolgimento militare americano nello Yemen, una terra deprimentemente povera confinante a nord con l’Arabia Saudita, prospiciente ad un’altra terra desolata di cui si è parlato molto di recente, la Somalia.
Le prove suggeriscono che il Pentagono e l’intelligence americana si stiano muovendo per militarizzare un chokepoint strategico per i flussi petroliferi mondiali, Bab el-Mandab, e che stiano sfruttando l’incidente della pirateria somala, insieme alle teorie di una nuova crescente minaccia di Al-Quaeda nello Yemen, per militarizzare una delle rotte mondiali più importanti per il trasporto del petrolio. Inoltre, le riserve non sfruttate di petrolio nel territorio tra lo Yemen e l’Arabia Saudita sarebbero tra le più grandi del mondo.
Il 23enne nigeriano Abdulmutallab, accusato dell’attentato kamikaze fallito, stando ai resoconti avrebbe parlato, affermando di essere stato mandato in missione da Al-Qaeda nella Penisola Araba (AQAP), con base nello Yemen. Questo ha convenientemente rivolto l’attenzione del mondo sullo Yemen come nuovo centro della presunta organizzazione terroristica di Al-Quaeda.
Notabilmente, Bruce Riedel, veterano con 30 anni di esperienza nella CIA che ha consigliato il presidente Obama sulla politica che ha portato all’aumento delle truppe in Afghanistan, ha scritto nel suo blog sui presunti legami dell’attentatore di Detroit con lo Yemen, “il tentativo di distruggere il volo 253 della Northwest Airlines in servizio da Amsterdam a Detroit il giorno di Natale evidenzia la crescente ambizione della cellula di Al Qaeda nello Yemen, che da un ordine del giorno essenzialmente yemenita è cresciuta diventando un attore della jihad islamica globale l’anno scorso… Il debole governo yemenita del presidente Ali Abdallah Saleh, che non ha mai controllato appieno il paese e che ora affronta una serie di crescenti problemi, avrà bisogno di notevole sostegno da parte dell’America per sconfiggere l’AQAP”. [1]
Un po’ di geopolitica basilare dello Yemen
Prima che si possa dire molto sull’ultimo incidente, è utile guardare con maggiore attenzione alla situazione dello Yemen. Qui molte cose appaiono peculiari, confrontate con le accuse di Washington su un’organizzazione insorgente di Al-Quada nella penisola araba.
All’inizio del 2009 hanno iniziato a muoversi i pezzi sulla scacchiera yemenita. Tariq al-Fadhli, un ex leader della jihad dello Yemen del Sud, ha rotto un’alleanza di 15 anni con il governo dello Yemen del presidente Ali Abdullah Saleh, annunciando che si sarebbe unito alla coalizione di larga base dell’opposizione conosciuta come il Southern Movement (SM). Al-Fadhli era stato membro del movimento di Mujahideen in Afghanistan alla fine degli anni 80. La sua rottura con il governo è stata riportata dai media arabi e yemeniti nell’aprile del 2009. La rottura di Al-Fadhli con la dittatura dello Yemen ha dato nuovo potere al Southern Movement (SM). Da quel momento è diventato una figura di spicco dell’alleanza.
Lo stesso Yemen è un amalgama sintetico creato dopo il crollo dell’Unione Sovietica nel 1990, quando la Repubblica Democratica Popolare dello Yemen [o Yemen del Sud] ha perso uno dei suoi maggiori sponsor all’estero. L’unificazione della Repubblica Araba dello Yemen del Nord con la Repubblica Democratica Popolare dello Yemen del Sud ha portato ad un ottimismo di breve durata, che è terminato con una breve guerra civile nel 1994, quando le fazioni dell’esercito del sud hanno organizzato una rivolta contro quello che vedevano come il governo corrotto dello stato amico del presidente del nord Ali Abdullah Saleh. Il presidente Saleh è rimasto a capo di una dittatura dal 1978, prima come presidente dello Yemen del Nord (la Repubblica Araba dello Yemen) e a partire dal 1990 come presidente del nuovo Yemen unificato. La rivolta dell’esercito del sud è fallita quando Saleh ha reclutato al-Fadhli ed altri salafisti yemeniti, seguaci di un’interpretazione conservatrice dell’Islam, oltre ai jihadisti per combattere contro le forze marxiste del Partito Socialista dello Yemen meridionale.
Prima del 1990 Washington e il Regno Saudita sostenevano Saleh e la sua politica di islamizzazione nel tentativo di contenere il sud comunista. [2] Da quel momento in poi Saleh ha fatto affidamento su di un forte movimento salafista-jihadista per mantenere un governo dittatoriale. La rottura con Saleh da parte di al-Fadhli e lo schieramento di quest’ultimo con il gruppo di opposizione del sud con i suoi ex nemici socialisti è stato un maggiore ostacolo per Saleh.
Poco dopo che al-Fadhli si è unito alla coalizione del Southern Movement, il 28 aprile 2009, si sono intensificate le proteste nelle province meridionali dello Yemen di Lahj, Dalea e Hadramout. Ci sono state dimostrazioni da parte di decine di migliaia di militari licenziati e dipendenti statali che chiedevano stipendi più alti e benefici, dimostrazioni che avevano luogo in numeri sempre maggiori dal 2006. Le dimostrazioni di aprile hanno visto per la prima volta l’apparizione pubblica di al-Fadhli. La sua apparizione è servita a cambiare un movimento del sud socialista da lungo tempo moribondo in una più ampia campagna nazionalista. Ha inoltre spronato il presidente Saleh a chiedere allora l’aiuto dell’Arabia Saudita e di altri stati del Consiglio di Cooperazione del Golfo, avvertendo che l’intera penisola araba avrebbe subito le conseguenze.
A complicare il quadro di quello che qualcuno chiama uno stato fallimentare, nel nord Saleh affronta una ribellione houtista zaidista sciita. L’11 settembre 2009 durante un’intervista per l’emittente televisiva Al-Jazeera, Saleh ha accusato il leader dell’opposizione sciita irachena, Muqtada al-Sadr, nonché l’Iran, di sostenere i ribelli sciiti houtisti dello Yemen del nord. Saleh ha dichiarato: “non possiamo accusare il lato ufficiale dell’Iran, ma gli Iraniani ci stanno contattando, dicendo che sono pronti ad una mediazione. Questo vuol dire che gli Iraniani hanno contatti con loro [con gli houtisti], dato che vogliono fare da mediatori tra il governo dello Yemen e questi. Inoltre, Muqtada al-Sadr in al-Najaf in Irak chiede di venire accettato come mediatore. Questo vuol dire che hanno un nesso” [3]
Le autorità dello Yemen affermano di aver sequestrato scorte di armi fabbricate in Iran, mentre gli houtisti sostengono di aver catturato strumentazioni yemenite con marchio dell’Arabia Saudita, accusando Sana’a (la capitale dello Yemen, nonché sede dell’ambasciata americana) di agire per conto dell’Arabia Saudita. L’Iran ha negato le accuse che sono state rinvenute armi iraniane nello Yemen del nord, definendo prive di fondamento le accuse che sostengano i ribelli. [4]
Che c’entra Al Qaeda?
Il quadro che emerge è quello di un dittatore appoggiato dagli USA disperato, il presidente dello Yemen Saleh, che perde sempre di più il controllo dopo due decadi di governo despotico dello Yemen unificato. Le condizioni economiche del paese sono deteriorate drasticamente nel 2008 quando sono crollati i prezzi del petrolio nel mondo. Pressappoco il 70% del reddito statale proviene dalle vendite del petrolio dello Yemen. Il governo centrale di Saleh ha sede nell’ex Yemen del Nord a Sana’a, mentre il petrolio sta nell’ex Yemen del Sud. Tuttavia Saleh controlla i flussi di reddito da petrolio. La mancanza di reddito da petrolio ha reso del tutto impossibile la consueta opzione di Saleh di corrompere i gruppi dell’opposizione.
In questa caotica situazione nazionale arriva l’annuncio nel gennaio 2009, che ha avuto forti echi in alcuni siti internet, che Al Qaeda, la presunta organizzazione terroristica globale creata dal defunto saudita Osama bin Laden, che fu addestrato dalla CIA, ha aperto una grande nuova cellula terroristica nello Yemen, sia per le operazioni dello Yemen che per quelle dell’Arabia Saudita.
Al Qaeda nello Yemen ha rilasciato una dichiarazione attraverso un forum jihadista il 20 gennaio 2009 da parte del leader del gruppo Nasir al-Wahayshi, annunciando la formazione di un unico gruppo di al Qaeda per la penisola araba sotto il suo comando. Secondo al-Wahayshi, il nuovo gruppo, al Qaeda nella Penisola Araba, sarebbe composto dal suo ex Al Qaeda nello Yemen, e dai membri del defunto gruppo della al-Qaeda saudita. Il comunicato stampa sosteneva curiosamente, che un Saudita, un ex detenuto di Guantanamo (il numero 372), Abu-Sayyaf al-Shihri, avrebbe funto da vice di al-Wahayshi.
Alcuni giorni dopo è comparso un video online di al-Wahayshi con il titolo allarmante di “cominciamo da qui e ci rincontreremo ad al-Aqsa”. Al-Aqsa si riferisce alla moschea di al-Aqsa di Gerusalemme che gli ebrei conoscono come il Monte del Tempio, il sito del tempio distrutto di Solomone, che i musulmani chiamano Al Haram Al Sharif. Il video minaccia i leader musulmani -- compreso il presidente dello Yemen Saleh, la famiglia reale saudita, e il presidente egiziano Mubarak -- e promette di portare la jihad dallo Yemen ad Israele per “liberare” i luoghi sacri musulmani e Gaza, cosa che scatenerebbe la terza guerra mondiale se qualcuno fosse abbastanza pazzo da farlo.
Inoltre in quel video, oltre all’ex prigioniero di Guantanamo al-Shihri, c’è anche una dichiarazione di Abu-al-Harith Muhammad al-Awfi, identificato come un comandante di battaglia nel video, e come presunto ex detenuto di Guantanamo numero 333. Essendo ormai ben appurato che i metodi di tortura non servono ad ottenere confessioni veritiere, qualcuno ha ipotizzato che il reale scopo degli interrogatori della CIA e del Pentagono nella prigione di Guantanamo dal settembre 2001 in poi, sia stato di usare tecniche brutali per addestrare e reclutare i terroristi “dormienti”, che possono essere attivati a comando dall’intelligence americana, un’accusa difficile da provare o confutare. La presenza di due così prominenti laureati di Guantanamo nella nuova Al Qaeda basata nello Yemen suscita certamente degli interrogativi.
Al Qaeda nello Yemen è apparentemente in diretta opposizione di al-Fadhli e dell’ingrandito Southern Movement basato sulle masse. Durante un’intervista, al-Fadhli ha dichiarato: “ho forti relazioni con tutti i jihadisti nel nord e nel sud e dappertutto, ma non con al-Qaeda”. [5] Questo non ha impedito a Saleh di affermare che il Southern Movement e al Qaeda sono la stessa ed unica cosa, un modo conveniente per assicurarsi l’appoggio di Washington.
Secondo le relazioni dell’intelligence americana, ci sono in totale forse 200 membri di Al Qaeda nello Yemen meridionale. [6]
Al-Fadhli ha rilasciato un’intervista in cui si distanzia da al Qaeda nel maggio del 2009, dichiarando: “noi [nel sud dello Yemen] siamo stati invasi 15 anni fa e siamo sotto una spietata occupazione. Quindi siamo impegnati nella nostra causa e non badiamo a nessuna altra causa nel mondo. Vogliamo la nostra indipendenza e vogliamo mettere fine a questa occupazione”. [7] Convenientemente, lo stesso giorno, Al Qaeda si è vistosamente esposta dichiarando il proprio sostegno per la causa dello Yemen meridionale.
Il 14 maggio, in un’audioregistrazione rilasciata su internet, al-Wahayshi, leader di al Qaeda nella Penisola Araba, ha espresso partecipazione per la gente delle province meridionali e per il loro tentativo di difendersi contro la loro ”oppressione”, dichiarando, “quello che sta succedendo a Lahaj, Dhali, Abyan e a Hadramaut e nelle altre province meridionali non può essere approvato. Dobbiamo sostenere ed aiutare [i meridionali]”. Ha promesso la sua vendetta: “l’oppressione contro di voi non passerà senza una punizione … l’uccisione di musulmani nelle strade è un grave crimine ingiustificato”. [8]
La curiosa emergenza di una piccola ma ben pubblicizzata al Qaeda nello Yemen meridionale nel bel mezzo di quello che gli osservatori chiamano un fronte ampio e popolare del Southern Movement che rifugge dall’ordine del giorno radicale globale di al Qaeda, serve a dare al Pentagono una sorta di casus belli per escalare le operazioni militari americane nella regione strategica.
Per l’appunto, dopo aver dichiarato che il conflitto interno dello Yemen è un affare dello Yemen, il presidente Obama ha ordinato gli attacchi aerei nello Yemen. Il Pentagono ha dichiarato che gli attacchi del 17 e del 24 dicembre hanno ucciso tre leader chiave di al Qaeda, ma non ce n’è stata ancora alcuna prova. Adesso il dramma dell’attentatore di Detroit del giorno di Natale ha dato nuova vita alla campagna di “guerra al terrorismo” di Washington nello Yemen. Obama ha ora offerto aiuti militari al governo yemenita di Saleh.
L’escalation della pirateria somala come in risposta a segnale
Come in risposta ad un segnale, allo stesso tempo i titoli di testa della CNN trasmettono nuove minacce terroristiche dallo Yemen, i perduranti attacchi delle navi mercantili da parte dei pirati somali nello stesso Golfo di Aden e Mar Arabico dallo Yemen meridionale sono aumentati drammaticamente, dopo che erano stati ridotti con il pattugliamento marittimo multinazionale.
Il 29 dicembre la RIA Novosti di Mosca ha riportato che i pirati somali avevano catturato una nave da carico greca nel Golfo di Aden, vicino alla costa somala. In precedenza lo stesso giorno anche un tanker chimico che batteva bandiera britannica con il suo equipaggio di 26 persone è stato catturato nel Golfo di Aden. Dando segno di sofisticate tecniche di manipolazione dei media occidentali, il comandante pirata Mohamed Shakir ha detto al quotidiano inglese The Times per telefono: “abbiamo preso una nave con [una] bandiera britannica nel Golfo di Aden ieri tardi”. Il resoconto della società americana di intelligence Stratfor, riporta che il Times, di proprietà del banchiere neoconservatore Rupert Murdoch, viene a volte usato dall’intelligence israeliana per diffondere storie utili.
I due ultimi eventi hanno portato gli attacchi e i dirottamenti ad un numero record per il 2009. Al 22 dicembre, gli attacchi da parte dei pirati somali nel Golfo di Aden e nella costa orientale della Somalia erano stati 174, con 35 navi dirottate e 587 membri dell’equipaggio presi in ostaggio finora nel 2009, quasi tutta attività di pirateria con successo, secondo l’osservatorio internazionale della pirateria marittima mondiale. La domanda è chi fornisce ai “pirati” somali le armi e la logistica sufficienti ad eludere i pattugliamenti internazionali di numerose nazioni?
Il 3 gennaio il presidente Saleh ha ricevuto una telefonata dal presidente somalo Sheikh Sharif Sheikh Ahmed, in cui quest’ultimo informava il presidente Saleh sui più recenti sviluppi in Somalia. Sheikh Sharif, la cui stessa base a Mogadiscio è così debole da essere a volte chiamato presidente dell’aeroporto di Mogadiscio, ha detto a Saleh che avrebbe condiviso informazioni con Saleh su qualsiasi attività terroristica che potesse essere lanciata dai territori somali e che potesse avere come bersaglio la stabilità e la sicurezza dello Yemen e della regione.
Il checkpoint del petrolio ed altri affari oleosi
Il significato strategico della regione tra lo Yemen e la Somalia diventa il punto dell’interesse geopolitico. È qui che si trova Bab el-Mandab, uno dei sette chokepoint del trasporto petrolifero nella lista del governo americano. L’Agenzia Internazionale per l’Energia del governo USA cita che “la chiusura di Bab el-Mandab potrebbe impedire ai tanker [provenienti] dal Golfo Persico di raggiungere il Canale di Suez/complesso del Sumed, ridirigendoli intorno alla punta meridionale dell’Africa. Lo stretto di Bab el-Mandab è un chokepoint tra il corno d’Africa e il Medio Oriente, ed un collegamento strategico tra il Mar Mediterraneo e l’Oceano Indiano”. [9]
Bab el-Mandab, tra lo Yemen, Djibouti e l’Eritrea collega il Mar Rosso con il Golfo di Aden e il Mar Arabico. Il petrolio e gli altri prodotti di esportazione dal Golfo Persico devono passare per Bab el-Mandab prima di entrare nel Canale di Suez. Nel 2006 il Dipartimento per l’Energia a Washington ha riportato che si stima che 3,3 milioni di barili di petrolio al giorno passano attraverso questo stresso passaggio marittimo per l’Europa, gli Stati Uniti e l’Asia. La gran parte del petrolio, pressappoco 2,1 milioni di barili al giorno, va verso nord attraverso Bab el-Mandab verso il complesso di Suez/Sumed nel Mediterraneo.
Un pretesto per la militarizzazione da parte dgli USA o della NATO delle acque circostanti Bab el-Mandab sarebbe per Washington un’altra importante tappa nel suo perseguimento del controllo dei sette chokepoint più critici del mondo, la parte principale di ogni futura strategia americana finalizzata ad impedire i flussi del petrolio verso la Cina, l’Unione Europea o qualunque regione o paese che si opponga alla politica americana. Dato che notevoli flussi di petrolio saudita passano attraverso Bab el-Mandab, un controllo militare americano in quel punto servirebbe a deterrere il Regno Saudita dal considerare seriamente la transazione delle vendite future del petrolio con la Cina o con altri non più in dollari, come è stato recentemente riportato dal giornalista inglese indipendente Robert Fisk.
Sarebbe inoltre nella posizione di minacciare il trasporto del petrolio della Cina da Port Sudan sul Mar Rosso appena a nord di Bab el-Mandab, un’ancora di salvezza fondamentale per le necessità energetiche nazionali cinesi.
Oltre alla sua posizione geopolitica come un maggiore chokepoint del transito del petrolio, lo Yemen stando a quanto riportato avrebbe alcune delle più grandi riserve di petrolio non sfruttate del mondo. Masila Basin e Shabwa Basin nello Yemen secondo quanto riportato dalle società petrolifere internazionali conterrebbero “scoperte di ordine mondiale”. [10] La Total francese e svariate società petrolifere internazionali più piccole sono impegnate nello sviluppo della produzione petrolifera dello Yemen. Circa quindici anni fa un insider ben informato di Washington mi ha detto nel corso di un incontro privato che lo Yemen conteneva “abbastanza petrolio non sviluppato per soddisfare la domanda di petrolio del mondo intero per i prossimi cinquantanni”. Forse c’è di più, dietro alla recente preoccupazione di Washington per lo Yemen, di una disorganizzata al Qaeda, la cui stessa esistenza come organizzazione terroristica globale è stata messa in dubbio dagli esperti islamici.
F. William Engdahl
Fonte: www.globalresearch.ca
Link: http://www.globalresearch.ca/index.php?context=va&aid=16786
5.01.2010
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di MICAELA MARRI
NOTE
1. Bruce Riedel, The Menace of Yemen, December 31, 2009, accessed in http://www.thedailybeast.com/blogs-and-stories/2009-12-31/the-menace-of-yemen/?cid=tag:all1.
2. Stratfor, Yemen: Intensifying Problems for the Government, May 7, 2009.
3. Cited in Terrorism Monitor, Yemen President Accuses Iraq’s Sadrists of Backing the Houthi Insurgency, Jamestown Foundation, Volume: 7 Issue: 28, September 17, 2009.
4. NewsYemen, September 8, 2009; Yemen Observer, September 10, 2009.
5. Albaidanew.com, May 14, 2009, cited in Jamestown Foundation, op.cit.
6. Abigail Hauslohner, Despite U.S. Aid, Yemen Faces Growing al-Qaeda Threat, Time, December 22, 2009, accessed in www.time.com/time/world/article/0,8599,1949324,00.html#ixzz0be0NL7Cv .
7. Tariq al Fadhli, in Al-Sharq al-Awsat, May 14, 2009, cited in Jamestown Foundation, op. cit.
8. al-Wahayshi interview, al Jazeera, May 14, 2009.
9. US Government, Department of Energy, Energy Information Administration, Bab el-Mandab, accessed in http://www.eia.doe.gov/cabs/World_Oil_Transit_Chokepoints/Full.html.
10 Adelphi Energy, Yemen Exploration Blocks 7 & 74, accessed in http://www.adelphienergy.com.au/projects/Proj_Yemen.php.





