GRECIA, GOLDMAN E...PRODI. LE DOMANDE CHE NESSUNO PONE

Argomento: Economia DI MARCELLO FOA blog.ilgiornale.it Grazie al New York Times ora sappiamo che dietro la crisi greca, ci sono ancora una volta le grandi banche di Wall Street, secondo le stesse modalità che hanno provocato il terremoto dei subprime e il fallimento della Lehman: una truffa contabile realizzata con i derivati (potete leggere una sintesi della notizia in italiano qui . E chi sono le banche coinvolte? La solita Goldman Sachs, vera regina di Wall Street, da cui ranghi sono usciti ben due segretari al Tesoro (Rubin e Paulson) e JP Morgan Chase, che come spiega Massimo Gaggi, è da sempre la banca più vicina al governo americano ed è, ricordiamolo, l’istituto del banchiere più potente della storia degli Usa, David Rockefeller, nonché cantore della globalizzazione finanzaria. Mi chiedo: quand’è che le autorità di controllo si decideranno ad indagare a fondo su Goldman e Jp Morgan Chase? Se esaminiamo la storia recente della finanza internazionale, scopriamo sovente Goldman e lo stesso Rockfeller hanno avuto un ruolo importante, talvolta di lobby per orientare leggi in una certa direzione, talaltra a fini di lucro, come dimostra la vicenda greca. L’impressione è che questi stessi protagonisti abbiano creato un sistema di alleanze e connivenze che gli permette di esercitare un’influenza enorme, evitando contestualmente guai giudiziari. E forse, anche controlli e indagini credibili sulle loro attività. Anche in Italia. Dall’articolo del New York Times emerge che anche il nostro Paese nel 1996 è ricorso a trucchetti contabili simili a quelli greci. E chi era a Palazzo Chigi allora? Romano Prodi, ex consulente di Goldman Sachs. E chi era il direttore generale del Tesoro? Mario Draghi, che di Goldman Sachs è diventato consulente qualche anno dopo. E forse sarebbe il caso che lo stesso Prodi chiarisse finalmente i suoi rapporti con lo stesso Rockefeller, che oltre ad essere un banchiere, ha fondato il Club internazionale dei potenti, il Bilderberg. Prodi divenne a sorpresa presidente della Commissione Ue un anno dopo essere stato ammesso nel Bilderberg. Solo una coincidenza ? E che ruolo hanno avuto Tommaso Padoa Schioppa, nonché lo stesso Draghi, nello scandalo Easy Credit, che consentì a, guarda caso, Goldman Sachs, Jp Morgan Chase e Citigroup, una truffa ai danni dello stato per 600 milioni di euro? Di quell’inchiesta non si è più saputo nulla… ma a Goldman Sachs il governo italiano ha continuato ad affidare l’emissione di global bonds per miliardi di euro Sono queste le domande a cui bisognerebbe dar risposta. E che invece vengono ignorate. E credo che, in Italia, i primi a pretendere un chiarimento debbano essere gli elettori di sinistra che, in buona fede, hanno dato fiducia proprio a Prodi, a Padoa Schioppa e che oggi, con una certa ingenuità, si commuovono ascoltando Draghi. O sbaglio ? Marcello Foa Fonte: http://blog.ilgiornale.it Link: http://blog.ilgiornale.it/foa/2010/02/15/grecia-goldman-e-prodi-le-domande-che-nessuno-pone/ 15.02.2010
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In guerra tutto è permesso

E ora che si fa?

E ora che si fa?

Più che di una vera guerra si tratta di una gara, e siamo ai nastri di partenza: è la gara degli emittenti. Altrove potrete leggere ciò che è successo (dopo che sarà successo), qui vorrei provare a raccontarvi cosa sta per accadere. Questo post tira le fila di molti discorsi che si sono susseguiti negli ultimi mesi, in apparenza in modo disorganico, ma come vedrete (aprendo i link) erano tutti pezzi dello stesso mosaico.

Qualche tempo fa vi ho parlato della situazione greca e dei suoi effetti sul rapporto euro-dollaro, erano i prodromi di ciò che accade oggi: dopo la firma del trattato di Lisbona, in UK hanno smarrito qualunque forma di influenza sulla BCE e sull’euro. E questo è un importante pezzo del puzzle. Infatti la situazione oggi è la seguente: enormi masse di debito pubblico necessitano di sottoscrittori e ciascun Stato (e le imprese) deve cercare di convincere i risparmiatori a sottoscrivere le sue obbligazioni, e non quelle della “concorrenza”. I risparmi interni di ciascun Paese non sono sufficienti a coprire l’esigenza di finanziamento, occorrono anche denari stranieri e questo complica le cose (sarebbe facile dirottare per legge i capitali dei propri cittadini sul proprio debito, chiudendosi in una perniciosa autarchia). La forma più cruenta e brutale della concorrenza degli emittenti obbligazionari è quella sui tassi: immaginate gli Stati che, come delle banche online, si strappano ‘clienti’ offrendo tassi via via crescenti. E’ però un gioco molto pericoloso: pagare elevati interessi per quei Paesi che hanno masse rilevanti di debito potrebbe comportare l’impossibilità di rientro dalla situazione di emergenza o addirittura l’allargamento del debito perché gli interessi superano le entrate, portando lo Stato in deficit finanziario ed in una spirale irreversibile. Dunque prima di arrivare alla fase cruenta e pericolosa si intraprende un’altra strada, ovvero quella che sta iniziando ora: anziché offrire sempre di più ai sottoscrittori si tenta di screditare gli altri offerenti, ispirandosi ad un vecchio B-movie italiano “Lui è peggio di me”. Ed eccoci qui, con -fino a qualche settimana fa- USA e UK che affondano nei debiti e con valute strutturalmente deboli, in declino, in svalutazione progressiva, mentre dell’euro si parla insistentemente come dell’unica concreta alternativa al dollaro quale moneta universalmente riconosciuta per gli scambi internazionali. Con l’aiuto dei CDS e di una buona campagna mediatica USA e UK hanno iniziato a spostare la pubblica preoccupazione sull’euro, facendoci discutere sulla sua tenuta, sulla sua solidità, sulla possibile disgregazione dell’area, sul default di Grecia o Spagna (e ancora nessuno parla dell’Italia che per dimensione del PIL e parametri sballati rappresenta un’ottima carta per chi vuole speculare contro l’euro) ecc.. al mercato le incertezze non piacciono e così il denaro si sposta dalle obbligazioni in euro a quelle in dollari. Con il recupero del dollaro si dà anche un messaggio ai grandi detentori di debito americano: ‘i vostri investimenti non si svalutano, continuate a comprare i nostri titoli’. Inoltre la difficile gestione della politica economica comunitaria, con una moneta unica e 27 ministri dell’economia, lascia parecchie perplessità sulle forme dell’intervento di aiuto alla Grecia, offrendo il fianco alla subdolo gioco anglosassone: invitare al tavolo della BCE il FMI, che è un organismo internazionale, ma di fatto sotto il controllo anglosassone. In questo modo potrebbero mettere il becco nelle decisioni del “concorrenza”. L’Europa per ora dà risposte deboli, limitandosi a rassicurare i mercati sul fatto che -Grecia a parte- non ci sono pericoli di contagi o effetto domino. L’arrivo del FMI è uno “spettro” che aleggia da tempo. Mentre Dubai, dopo il presunto “salvataggio” di novembre, è giunta alle corde chiedendo ai propri creditori un accordo di taglio del debito (default tecnico) occorre evitare che i mercati puntino la speculazione su uno dei PIIGS: l’impennata dei CDS farebbe aumentare il costo della protezione per chi sottoscrive le obbligazioni, costringendo l’emittente ad aumentare il tasso offerto per compensare il maggior costo della copertura, portando la situazione su una brutta china. Gli USA nel 2010 hanno 2000 miliardi$ di titoli in scadenza da riemettere più 1500 miliardi$ di deficit da coprire, i loro cittadini hanno iniziato a risparmiare qualcosa ma la loro capacità non arriva a coprire un terzo di quelle esigenze, dunque è necessario continuare a richiamare il denaro cinese (che sta calando drasticamente), giapponese (il nuovo governo ha annunciato che interromperà gli acquisti di treasury americani), russo (anche qui è stato annunciato lo stop) e dei sempre più importanti paesi OPEC. Altrove, in proporzioni diverse, c’è il medesimo problema: tutti gli stati vogliono denaro per coprire i loro debiti, ma non c’è in circolazione denaro sufficiente per tutti. Conseguenze: altro denaro verrà stampato (portando inflazione a venire, vedremo in che forma), qualche default distruggerà debito sul mercato, le altre forme di investimento verranno ordinatamente disincentivate per indurre la maggior massa possibile di denaro verso i titoli governativi, le grandi imprese che -a differenza delle PMI- hanno aggirato il credit crunch emettendo pesantemente obbligazioni corporate nel 2008-2009 dovranno togliere il disturbo e tornare a chiedere i soldi alle banche invece che al mercato, aprendo un fronte che diverrà caldo, finché le banche non riprenderanno ad erogare credito, e le banche potranno farlo solo ritirando dal mercato la liquidità che vi hanno dirottato (e che era stata fornita loro per sostenere l’economia…). In tutta questa grossissima partita che si sta giocando sul nostro futuro, e che per ora si svolge a colpi di fango gettato gli uni sugli altri, i Paesi con poco debito e comunque al di fuori di questi giochi vedranno le loro valute rivalutarsi. Finché il titolo di Stato nell’opinione comune rappresenterà un bene rifugio è piuttosto probabile che venga indotta una nuova fase di avversione al rischio, funzionale a diversi degli aspetti sopracitati, dunque potrebbe avere ulteriori fiammate a rialzo anche l’oro. Stiamo probabilmente per entrare nella fase più difficile, soprattutto se la debole semi-convinzione de “la crisi è finita e stiamo ripartendo” dovesse caracollare.

http://bimboalieno.altervista.org/?p=502

Euro-dracma e mondo nuovo

Che bilancio singolare, quello dell’eurocrisi in salsa greca. Un euro-dracma, più che un eurodramma. Dà ragione a ciascuno, a tutti e a nessuno.Se la guardiamo con l’occhio americano, ha dato ragione a Milton Friedman e Martin Feldstein, i monetaristi falchi di Chicago che prima della moneta unica ammonivano l’Europa a non illudersi. Ma dà ragione anche – almeno secondo lui – a Paul Krugman, che cita proprio la coppia di tradizionali nemici per sposare il loro punto di vista, sui rischi di una moneta unica introdotta tenendo però separati i sottostanti mercati del lavoro, beni e servizi e le relative curve di costo. Anche se Krugman da buon iperkeynesiano ne tira conseguenze opposte, e dice oggi che non è dell’eccesso di deficit e debito pubblico che è il momento di preoccuparsi, ma dell’eccesso di stretta che il partito del rigore pretende di esercitare, per tenere le finanze pubbliche in equilibrio al momento sbagliato.

Se all’euro-dracma guardiamo con l’occhio europeo, dà ragione al partito eurortodosso germanico, che con Karl Otto Pohl, Jurgen Stark e Axel Weber – il passato, presente e forse futuro della BCE, se continuerà a vincere Berlino e a Trichet non succederà Mario Draghi – ha ribadito che il salvataggio dei reprobi greci non era possibile, sarebbe stato come aprire il vaso di Pandora e ne sarebbe uscito ogni male, la rottura stessa del presupposto costitutivo dell’euro. L’articolo 123 e 125 del Trattato stabiliscono che l’Unione non è responsabile dei debiti e dei deficit dei Paesi membri, come di ogni amministrazione pubblica che loro appartenga.

Ma dà ragione anche alla Francia di Sarkozy, che è su posizioni molto diverse e si appella all’articolo 122, per il quale in casi di particolare ed estremo pericolo il Consiglio europeo può varare – all’unanimità o a maggioranza a seconda della gravità – l’aiuto a un Paese membro. Persino a casa nostra, le posizioni si sono scambiate a sorpresa. Padoa Schioppa, ex ministro di Prodi, ha detto no a salvataggi gratis. Per Antonio Martino, ex ministro di Berlusconi e soprattutto liberista a cento carati, il salvataggio greco era invece auspicabile, per evitare il peggio. Roberto Perotti, che sta col mercato ma iperliberista non è, dice invece che tuitto smmatom era meglio lasciare la Grecia al suo destino, per sperimentare una way oput temporanea che riaggiusti col cambio gli squilibri da eccesso di debito. Nouriel Roubuini ha sostenuto la stessa cosa, proponendo l’introduzione di un doppio regime valutario, in dracme all’interno e in euro sul debito pregresso: sarebbe tutto0 da vedere, con che effetti sul cambio dell’euro sul dollaro e yuan… In ogni caso, sembran contenti tutti. Gli elettori tedeschi perché Berlino non paga per gli spreconi. Quelli greci, perché Papandreu ha detto no ai nuovi tagli chiesti dai tedeschi.

Ma che crisi è, una che dà ragione a chi la pensa in un modo e insieme a chi la pensa al contrario? Prima che si capisca davvero se l’euro-dracma sia o no una tragedia di Eschilo, è apparsa come una commedia di Menandro. Limitiamoci a mettere infila almeno alcuni dei problemi aperti, e dei paradossi – più che soluzioni – in cui essi sembrano risolversi.

Il metro del debito

La Grecia si è indebitata negli ultimi mesi? No. E’ iperindebitata da anni. E’ vero, ci ha messo del suo mentendo sulla contabilità nazionale. Quando i socialisti di Papandreu hanno qualche mese fa vinto le elezioni, hanno scioccato tutti violando l’autonomia dell’Istat greco, e obbligandolo a dire che il deficit lasciato dal centrodestra non era il 3,5% del Pil, ma del 10% maggiore. La differenza, però, non sta neanche in questo. E – non lasciatevi deviare da coloro che danno tutta la colpa a i derivati – non sta nemmeno negli swap proposti e realizzati al Tesoro greco da Goldman Sachs, cioè nel debito nascosto trasferendolo in scommesse valutarie sui cambi negli anni a venire, cosa che – entro certi limiti – è anche ammessa dai criteri di Eurostat. E che dice più del mestiere di Goldman, che di quello greco.

Il punto è un altro. La grande crisi del 2008 e 2009 ha cambiato i criteri con cui il mercato considera il debito di un Paese. Non conta più solo il debito pubblico, cioè il metro per il quale quello italiano era il terzo debito al mondo dopo quello americano e giapponese (da pochi mesi, anche con questo criterio saremmo comunque oggi il quarto, la Germania ci ha superato). L’esplosione delle bolle da cui nasce la grande crisi – quelle mobiliari e immobiliari – ha ottenuto l’effetto di considerare tutte e quattro le componenti da sommare, per l’indebitamento di un Paese. Il debito pubblico, certo: ma poi anche quello dei privati. Delle famiglie, delle imprese non finanziarie, e anche delle banche. In più, poiché a esplodere sono stati i Paesi con il più grave squilibrio di bilancia dei pagamenti e commerciale, occorre guardare anche al flusso annuale di attivo o passivo sull’estero, e non solo a quello patrimoniale.

E’ questa la spiegazione, del perché la crisi abbia colpito la Grecia, e metta in fila come potenziali altri candidati Portogallo, Spagna, Irlanda. Non l’Italia. Il nostro Paese ha un elevato debito pubblico, ma basso delle famiglie, e persino nella componente imprese non se la passa troppo male (rectius: da noi questo è un freno non sull’estero ma forte sull’interno, perché le aziende italiane sono piccole e dunque tradizionalmente sottocapitalizzate, dunque anche se meno indebitate rispetto alle concorrenti in assoluto, ne sono più frenate su investimenti e crescita perché hanno esigui attivi patrimoniali per ottenere credito).

Le conseguenze

Fin qui, ormai la pensano tutti allo stesso modo, keynesiani e anti, americani ed europei. Attenti però. Se si crede davvero a questo metro, allora esso sovverte alcune gerarchie. Per cominciare dall’Europa, la Germania dovrebbe contare assai meno, rispetto alla tradizionale egemonia nelle eurovicende. E quanto alla tradizionale motrice franco-tedesca, l’Italia dovrebbe puntare i piedi, perché il nostro debito complessivo è migliore di quello francese. Le famiglie francesi a metà 2009 sono gravate da un debito superiore del 12% di Pil rispetto a quelle italiane, e le imprese non finanziarie di uno maggiore del 26% di Pil rispetto alle nostre. Nel conto finale i nostri 35 punti in più dei debito pubblico vengono pareggiati e superati, dai francesi, rispetto ai quali esportiamo anche di più.

Ma anche gli Stati Uniti, se si adotta questo metro, sarebbe bene abbassassero un po’ le penne. Ha ragione Niall Ferguson, lo storico dell’economia che ha parlato dell’euro-dracma come di una malattia che riguarda anche gli States. Il debito delle famiglie sul Pil è più che doppio del nostro, arriva al 96%. E questo solo fatto annulla i 35 punti in più di debito pubblico italiano. In più, gli Usa sono in deficit cronico di bilancia commerciale. E rischia di ridursi di molto l’avanzo di flussi finanziari che sosteneva i consumi americani maggiori del reddito e del prodotto: la Cina comprava il 46% di titoli del debito pubblico Usa solo 3 anni fa, ma è scesa al 20% nel 2008, al 5% nel 2009.

La bilancia del debito

Purtroppo, non è cambiata però solo l’unità di misura del debito. E’ cambiata anche la bilancia. E questo è un problema che disorienta e divide. Prima erano le quattro agenzie internazionali di rating, a giudicare il debito pubblico come quello delle grandi corporations, con proprie valutazioni sui conti pubblici e tenendo d’occhio gli spread registrati ogni giorno sul mercato tra i rendimenti dei titoli pubblici decennali tedeschi e quelli di ciascun Paese dell’eurozona. Ma con la crisi la credibilità delle agenzie di rating è andata a pallino. Il mercato ha iniziato ad affidarsi a un criterio che apparentemente è meno discrezionale, cioè all’andamento non degli spread sui titoli ma dei CDS, cioè dei contratti derivati attraverso i quali ogni giorno si misura il rischio di assicurazione dei debiti sovrani, scommettendo sul suo andamento a termine. E’ un meccanismo più di mercato? Sì e no. In un mondo nel quale politica e regolatori diffidano dei derivati, da un anno e mezzo sui mercati è aperta la grande gara a concentrarsi ogni tot mesi su futures diversi, alla ricerca del maggior guadagno speculativo a breve. L’euro-dracma si acuisce dal 12 gennaio, cioè dal giorno in cui alcune decine di primary dealers sul mercato dei futures chiudono le posizioni corte tenute sulla svalutazione del dollaro, e si riversano nel mercato dei CDS sovrani. In pochi giorni, il CDS greco arriva a 400 punti, raddoppiando cioè la soglia di rischiosità segnata fino a poche settimane prima. Siamo proprio sicuri, che questa nuova bilancia sia più fedele della precedente? Di certo, io la preferisco alle agenzie. Ma forse sarebbe saggio alzare i margini, per partecipare al mercato dei CDS. Altrimenti la volatilità darà ragione alle ministre dirigiste francesi Lagarde che protestano, e insieme ai politici populisti e spreconi e ai loro elettori nazionalitar-corporativi – Italia è di te che sto anche parlando! – che indicano i complotti dell’odiata finanza anglosassone come i veri responsabili dell’eurocrisi.

A debito nuovo, mondo nuovo

Quali conseguenze trarne? Fino a quest’oggi, i governi hanno rappezzato. L’Europa non ha saputo indicare una strada nuova. I tedeschi hanno la meglio, tagliando le unghie ai francesi che immaginavano un salvataggio concordato fosse l’annuncio di un’Europa finalmente politica e non delegata alla sola BCE. Nessuno statista europeo ha saputo o voluto mettere i tedeschi di fronte a un’altra prospettiva. Senza un inizio almeno di debito condiviso in eurobond – è così che nacquero davvero gli Stati Uniti con Alexander Hamilton, che non si limitò a dar vita alla prima banca centrale USA – non c’è strumento finanziario di politica davvero comune, politicamente non si esiste ma si resta una pura area monetaria. Anche in Italia, solo pochi come Paolo Savona hanno detto che occorrerebbe anche più dell’eurodebito, cioè un’iniziativa europea per un accordo valutario a tre, non più lasciando la scena a dollaro e yuan, per chiedere finalmente pari responsabilità ai Paesi in surplus come la Cina e a quelli in deficit di bilancia corrente, per agire reciprocamente sulla domanda interna invece di cercare aggiustamenti reciproci di cambio e o d’inflazione. Altrimenti, svalutazioni competitive e aumenti del prezzo per via del dollaro unica vera valuta ancora di riserva mondiale continueranno a riverberarsi entrambi negativamente sull’attuale Europa ”impolitica”. E più sull’Italia che sulla Germania, come i tedeschi sanno benissimo. Infatti, a loro va bene.

E’ un mondo nuovo, quello che bisogna avere la forza di immaginare alla luce di ciò che la crisi ha mostrato. Non c’é ruolo diverso degli USA nel mondo senza un’Europa più consapevole. Ma non è la via tedesca, quella da seguire. Perché a Berlino preferiscono il solo euro in cui dominano come potenza continentale, a un’europolitica che li farebbe contare meno. Chi qui scrive pensa che l’europolitica non ci sarà. E allora sarebbe meglio che comunque l’Italia imparasse a difendersi meglio, rispetto alla primazie franco-tedesche alla quale le nostre implumi classi dirigenti prestano troppo ascolto. Non solo ma anche, perché hanno studiato meno di loro.

http://www.chicago-blog.it/2010/02/16/euro-dracma-e-mondo-nuovo/

FINANZA/ Caro Tremonti, ecco cosa fare per non fallire come la Grecia

Mauro Bottarelli martedì 16 febbraio 2010 Un po’ di chiarezza appare necessaria. Quello che sembrava un salvataggio ormai annunciato, ovvero il sacrificio dei partner europei per venire incontro alla Grecia e al suo rischio di default e contagio dell'intera eurozona, assume giorno dopo giorno sempre più i contorni di un giallo. O, peggio, di una sonora presa in giro. Difficile che la stampa italiana, ad esempio, abbia raccontato di quanto avvenuto nello scorso fine settimana in Olanda, dove alla Tweede Kamer del Parlamentro è passata una mozione in base alla quale «non un centesimo delle tasse degli olandesi dovrà essere stanziato per salvare la Grecia». Questo anche attraverso l'Ue o altri organismi bilaterali. La Germania, poi, non dimostra maggiore apertura, nonostante Angela Merkel sia stata di fatto l'artefice dell'iniziativa europea. Il Bundestag ha di fatto definito “illegale” il salvataggio di Atene e un sondaggio della Frankfurter Allgemeine Zeitung ha evidenziato come la quasi totalità dei contribuenti tedeschi sia contraria a ogni ipotesi di bail-out, salvataggio, poiché «appare inaccettabile l'innalzamento dell'età pensionabile per i tedeschi a fronte del finanziamento a fondo perso della Grecia, quasi i suoi cittadini possano godersi la pensione anticipata grazie alle nostre tasse». Evviva l'Europa unita! A far capire che i guai potrebbero essere solo all'inizio ce lo fa capire l'atteggiamento della SAFE, il mega-fondo riserva cinese, che non sta scommettendo un solo yuan del suo capitale di 2,4 trilioni di dollari sulla Grecia o sul Club Med e il suo debito. SAFE è lo stesso player che scaricò bellamente le azioni di Fannie Mae e Freddie Mac quando pareva che Washington stesse per dire addio alle politiche di semi-nazionalizzazione. Una cosa è certa: il mercato finanziario guarda affascinato a quanto sta accadendo in Europa. Anche perché, lentamente, emergono particolari allarmanti. È di ieri infatti la notizia che i partner Ue intendono chiedere chiarezza alla Grecia riguardo le sue pratiche di swap per rifinanziare il debito negli scorsi anni, rese possibili dal lavoro di Goldman Sachs, JP Morgan Chase e Morgan Stanley, i cui emissari si sono recati a più riprese ad Atene per offrire consulenze sulle meravigliose sorti e progressive degli strumenti di finanza derivata per rifinanziare quel buco nero chiamato debito.

Grazie a quei giochini, simili in parte a quelli che hanno inquinato i conti di tre quarti degli enti locali italiani, il debito greco appariva molto sotto il livello reale, permettendo quindi di non incorrere nella mannaia né delle agenzie di rating - che invece sapevano benissimo come stavano le cose, essendo pappa e ciccia con le banche d'affari che offrono quei prodotti - né dell'Unione Europea. A denunciare l'accaduto ci ha pensato il New York Times, raccontando come l'ultima visita di emissari di Goldman Sachs, guidata nientemeno che dal presidente in persona, si sia tenuto lo scorso novembre, insomma quando i buoi erano ormai fuori dal recinto e servivano misure d'emergenza.

I contratti, estremamente complessi, si basavano di fatto su un criterio molto semplice: denaro contante a fronte di un promessa di ripagare, con gli interessi garantiti dallo swap, in futuro. Swap è un termine inglese (letteralmente baratto, scambio) utilizzato per identificare quei contratti finanziari in cui due controparti si impegnano a scambiarsi flussi monetari in entrata o in uscita, e a compiere l'operazione inversa a una data futura predeterminata.

Il caso di scuola è quello di un ente locale, che ha contratto un mutuo di 100 miliardi tasso fisso (10%) con la Cassa depositi e prestiti, e che deve quindi pagare periodicamente degli interessi (10 miliardi l'anno). L'operazione si rivela onerosa in seguito alle mutate condizioni di mercato, e l'ente decide quindi di legare il mutuo a un parametro di indicizzazione (un tasso del 5%) maggiorato di uno spread (un differenziale) del 5%, scommettendo su un ribasso dei tassi di interesse. Stipula così un contratto di swap con una banca, la quale garantisce il tasso fisso contro quello variabile.

Se il tasso variabile aumentato dello spread è inferiore al tasso fisso, e scende ad esempio attorno all'8%, l'ente ne ottiene un vantaggio, può ridurre le sue spese e di conseguenza il suo deficit. Viceversa, se il mercato fa salire i tassi e l'onere complessivo schizza sopra il 10%, sarà la banca a incassare di più, e l'ente vedrà salire le sue spese e il suo deficit. Il caso può essere traslato dagli enti locali agli Stati, che si indebitano sui mercati internazionali con emissioni obbligazionarie in valuta locale o estera, sulle quali sono costrette a pagare dei tassi di interesse.

A cosa abbiano portato queste continue pratiche, è ora sotto gli occhi di tutti. Insomma, Wall Street non ha creato la crisi del debito greco ma l'ha coperta per mesi: e il timore, almeno così si paventa a Londra, è che altri paesi si siano fatti sedurre da questi contratti swap per tenere sotto controllo il debito pubblico galoppante. I nomi che circolano sono quelli di Spagna, Portogallo e Italia: ovvero, gli altri tre membri dei Pigs.

Tremonti farebbe bene a dare un'occhiata, visto che è noto a tutti che nel 1996 l'Italia ha stipulato un contratto swap con JP Morgan, un'operazione sui derivati che permise di riportare il budget in linea attraverso uno swap monetario con la banca d'affari a un tasso di cambio favorevole. Il problema è che quel tipo di contratto, che permise al governo italiano di ottenere denaro fresco, aveva come clausola il fatto che i futuri pagamenti effettuati dall'Italia non sarebbero stati messi a bilancio come liabilities, ovvero fonte di perdita.

I derivati sono strumenti straordinari, peccato che bisogna saperli utilizzare. Ed evitare le scatole cinesi dei derivati sui derivati. Ripeto, Tremonti dia una bella occhiata a quanto fatto e pattuito in passato, a New York non mettono la mano sul fuoco sulla stabilità del debito italiano e anche l'uscita di Jean-Claude Trichet di domenica non dovrebbe farci stare troppo sereni.

La crisi greca, nei fatti, non rappresenta la fine dell'eurozona ma certamente l'inizio della fine: troppo difficile mantenere insieme economie così differenti in tempi difficili come questi, troppo forte ancora la spinta egoistica e sovrana dei vari governi a fronte di un'inconsistenza politica totale di Bruxelles. Occorre coraggio, a partire da casa nostra.

Tremonti butti l'occhio, i continui stop-and-go sull'abbassamento delle tasse, l'ipotesi di contro-finanziarie e altri allarmi - come quello di Baldassarri a Ballarò, «In cassa non c'è più una lira» - fanno pensare che a New York abbiano ragione. Occhio a come si muoveranno i fondi e come varierà il numero di contratti contro euro e debito di Pigs e Italia al Chicago Merchantile Exchange: le prossime settimane, forse, ci diranno la verità. Non potrebbero non essere cose piacevoli da sentire.

http://www.ilsussidiario.net/News/Economia-e-Finanza/2010/2/16/FINANZA-Caro-Tremonti-ecco-cosa-fare-per-non-fallire-come-la-Grecia/67324/

GB, le banche hanno rifiutato il 57% dei prestiti alle imprese

GB, le banche hanno rifiutato il 57% dei prestiti alle imprese Le banche inglesi non hanno fornito adeguato supporto alle imprese. A denunciarlo, stavolta dati alla mano, è un’indagine svolta dall’Institute of Directors, un gruppo di lobbying dei lavoratori, che ha dimostrato come gli istituti di credito abbiano rige

Le banche inglesi non hanno fornito adeguato supporto alle imprese. A denunciarlo, stavolta dati alla mano, è un’indagine svolta dall’Institute of Directors, un gruppo di lobbying dei lavoratori, che ha dimostrato come gli istituti di credito abbiano rigettato il 57% delle richieste di prestiti provenienti dalle compagnie britanniche nel corso del 2009.

I risultato dello studio, che sono stati sottoposti anche all’attenzione del governo di Londra, contraddicono dunque le posizioni assunte dalle banche, secondo le quali la maggior parte delle linee di credito richieste sarebbero state concesse. Si tratta - riferisce il portavoce Alistair Tebbit - della prima volta che l’istituto raccoglie dati del genere, ma Royal Bank of Scotland e Lloyds Banking Group, le due principali banche del Paese, erano già finite nel mirino dei legislatori britannici, che in un rapporto della scorsa settimana hanno spiegato come esse non siano riuscite a garantire il supporto necessario alla ripresa economica. «Gli istituti di credito nazionalizzati o semi-nazionalizzati devono a noi la loro esistenza, e per questo devono fare la loro parte nel concedere i prestiti di cui ha bisogno il Paese», aveva osservato il liberal-democratico Vince Cable.

Il risultato del credit crunch è stato - prosegue lo studio dell’Institute of Directors, che ha coinvolto 1.045 compagnie - che alcune aziende si sono viste costrette a ricorrere a prestiti non sicuri. Circa il 20% ha dovuto infatti accontentarsi delle carte di credito per raccogliere capitali, mentre chi si è potuto rivolgere alle banche è stato solo il 28% (contro il 45% del 2001).

http://www.valori.it/italian/economie-sostenibili.php?idnews=2051

Nel 2010 la Cina supererà il Giappone come seconda maggior economia

CINA - GIAPPONE E’ l’opinione di esperti dopo i risultati del 2009. Nel 4° trimestre Tokyo è in ripresa, ma grazie ai finanziamenti statali. Ora teme si arresti il consumo interno e punta ad aumentare l’esportazione in Cina e Asia.

Pechino (AsiaNews/Agenzie) – La Cina si appresta a sorpassare il Giappone e diventare la seconda maggior economia mondiale, dopo i soli Stati Uniti. Il risultato emerge dai risultati del Giappone nell’ultimo trimestre 2009, inferiori alle attese e tali da confermare le difficoltà del Paese a fronte di una Cina in ripresa.

Ieri Tokyo ha detto che il Prodotto interno lordo è cresciuto del 4,6% nel quarto trimestre (il 5% nell’anno), cosa che gli consente di registrare nell’intero 2009 un Pil di circa 5.100 miliardi di dollari, rispetto ai 4.900 del 2008. Ma esperti osservano che la ripresa è conseguenza dei robusti finanziamenti concessi dal governo alle imprese e che è inferiore alle attese. L’economia nipponica è comunque in crescita da 3 trimestri e il consumo interno, che costituisce circa il 60% della sua economia, è cresciuto dello 0,7% rispetto al terzo trimestre 2009. Del risultato hanno beneficiato soprattutto i venditori al dettaglio e le vendite di autoveicoli e abitazioni. L’industria ha ripreso fiducia e ha ricominciato a investire in strutture e macchinari.

Per il 2010 le previsioni sono incerte: analisti prevedono che il consumo interno continuerà a crescere, ma con minor velocità e temono che si instauri un circolo vizioso, con diminuzioni di prezzi e salari.

La Cina appare invece in rapido recupero, dopo che il quarto trimestre ha annunciato una crescita del 10,7%, l’8,7% nel 2009.

In questo scenario Takuji Okkubo, economista per la Societe Generale a Tokyo, predice al South China Morning Post che entro l’anno Pechino spodesterà il Giappone da questo secondo posto tenuto da 40 anni. D’altra parte, Tokyo ha anche interesse alla crescita cinese, nella speranza che aumenti il consumo interno del Paese e che cresca la domanda di prodotti nipponici. Nella previsione che permanga il relativo ristagno del mercato interno, il Giappone punta ad aumentare l’esportazione, che a dicembre è cresciuta per la prima volta dalla fine del 2008, contribuendo a una crescita dell’industria del 2,2%.

Peraltro anche in Giappone, come in altri Paesi, è sotto esame l’attendibilità delle statistiche ufficiali, dopo che il governo ha dovuto rivedere più volte le previsioni sul Pil del 3° trimestre, passando dall’ottimistico 4,8% della prima proiezione all’1,3% delle ultime previsioni del Gabinetto: ieri, invece, il governo ha ammesso che nel periodo luglio/settembre non c’è stata alcuna crescita.

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Economia globale e gioco d’azzardo

Su gentile segnalazione di Diana

Il gioco d’azzardo ha un’importanza fondamentale dal punto di vista economico Il progresso tecnologico, la globalizzazione, le tendenze sociali e soprattutto la recente ed ancora in corso crisi economica sono alla fonte della riabilitazione del gioco d’azzardo, sia dal vero che online. Nicchia di mercato di scarsa importanza economica, il gambling è diventato un pilastro dell’economia di alcuni paesi, mentre in molti altri è ultimamente visto come una possibile ciambella di salvataggio per uscire dalla crisi economica.

Sono ormai terminati i tempi in cui si considerava il Principato di Montecarlo come un’eccezione. Grazie al suo famosissimo casinò, probabilmente il più prestigioso al mondo, il piccolo stato mediterraneo poteva permettersi di non tassare i propri cittadini grazie agli introiti provenienti dalla casa da gioco. Montecarlo era l’unico posto in cui il gioco d’azzardo aveva un’importanza fondamentale dal punto di vista economico.

Il peso economico del gioco d’azzardo è sempre più significativo Oggi in alcuni paesi, il settore del gambling dal vero rappresenta la principale fonte economica, come succede a Macao, o un’attività d’importante incidenza economica come succede a Las Vegas e in tutte le città che ospitano case da gioco.

Tutti i tipi di lotterie, lotterie istantanee e scommesse sono considerati giochi d’azzardo. Le lotterie sono in quasi tutti i paesi gestite dallo stato, in genere da monopoli che fanno pervenire gli introiti al governo. Questa tassazione permette ai vari paesi di finanziare progetti vari, o semplicemente di ingrandire il budget statale. Le lotterie, dunque, hanno da lungo tempo un peso economico di rilievo sulle finanze nazionali dei vari paesi.

Il peso economico del gioco d’azzardo online – casino, poker e scommesse online - trascurabile fino a non pochi anni fa, è diventato significativo.

Il gioco d’azzardo online è sempre più diffuso Il progresso tecnologico, inizialmente grazie alla televisione e in seguito grazie ai Personal Computer, ha contribuito a diffondere il poker e tutti i tipi di gioco d’azzardo. La disponibilità del gioco su internet ha aumentato in modo esponenziale il numero dei giocatori nel mondo virtuale, a volte anche a scapito delle case da gioco reali.

Gambling online: una giro d’affari annuale di decine di miliardi di dollari Con il diffondersi del gioco su internet, il peso economico del gioco d’azzardo online – casino, poker e scommesse online - trascurabile fino a non pochi anni fa, è diventato significativo. Questo settore crea un giro d’affari mondiale annuo di di decine di miliardi di dollari.

I governi dei vari paesi hanno tentato di osteggiare per anni l’accesso dei loro cittadini ai servizi offerti da siti di gioco esteri, generalmente ubicati in paradisi fiscali. Nessun mezzo legale o tecnologico è però riuscito ad impedire agli appassionati di collegarsi ai siti di casino, scommesse e poker online. Dal punto di vista economico questo ha significato una doppia perdita per le casse statali: la fuga di capitali privati, quelli investiti dai giocatori stessi al gioco, e la mancata tassazione delle aziende, registrate in paesi esteri.

I governi cambiano il loro atteggiamento nei riguardi del gioco d’azzardo online “Se non puoi batterli, unisciti a loro”. Questa è forse la conclusione alla quale sono arrivati la maggior parte dei governi, interessati a percepire le tasse dalle varie attività legate al gambling. L’atteggiamento dei vari paesi è cambiato, e la crisi economica ha accelerato questo cambiamento. Questo succede soprattutto nei riguardi del poker online, il segmento di mercato dei giochi online più in espansione. Una buona dose di ipocrisia – improvvisamente il poker è diventato un gioco d’abilità per eccellenza - unita al desiderio e alla necessità di trovare nuovi finanziamenti per le casse statali impoverite dalla crisi economica, e “les jeux sont fait”.

La crisi economica è alla fonte della riabilitazione del gioco d’azzardo Pian piano la maggior parte degli stati europei, i più reticenti ad aprire il loro mercato al gioco d’azzardo online, stanno cambiando le loro legislazioni per permettere ad operatori esteri di aprire siti di gioco legali. La soluzione è sempre una via di mezzo: da un lato i governi percepiscono meno tasse rispetto alla percentuale incassata da lotterie nazionali e istantanee, d’altro canto gli operatori conquistano nuovi segmenti di mercato che compensano la diminuzione della percentuale di guadagno dovuta al regime di tassazione imposto a siti legali.

Il caso esame è stato quello italiano, e senza dubbio ha influenzato le decisioni degli altri paesi europei. Il mercato del poker online italiano, inizialmente valutato a 400 milioni di euro l’anno, ha superato il miliardo di euro dopo 12 mesi di attività. Una gallina dalle uova d’oro che ha fatto ripensare i governi degli altri paesi europei.

Anche negli Stati Uniti il gioco d’azzardo online, poker e casino, è chiamato in aiuto dell’economia. Da quando Obama è stato eletto presidente, non ha ancora avuto il tempo di occuparsi del gambling online americano, preso com’è da problemi più urgenti. Per accelerare i tempi, la lobby americana pro gambling ha ultimamente lanciato l’idea di regolarizzare e legalizzare il gioco d’azzardo online al più presto per finanziare con le tasse percepite la riforma del sistema sanitario, una delle promesse che ha portato Obama alla Casa Bianca.

Cosa riserva il futuro al gioco d’azzardo online? Nonostante ancora molti paesi tentano di osteggiare l’accesso a siti di gioco d’azzardo online esteri, il numero di governi che decidono di legalizzare il settore è in continuo aumento. L’impossibilità di bloccare l’accesso ai siti considerati illegali e la necessità di trovare nuovi finanziamenti per le casse statali, molto probabilmente aumenteranno ancora di più il numero dei paesi che regolarizzano questa attività.

http://www.casino-online.com/it/editoriali/il-legame-fra-economia-globale-e-gioco-di-azzardo.htm