Morta una emergenza (o uno scandaletto), se ne fa subito un’altra. E così - dopo il dramma sicurezza; i papi e e le pupe; i trans e i marrazzi - giornali e tiggì hanno spedito in soffitta anche un altro cult del 2009: l’influenza suina. Ora è tempo di riscaldamento globale e di giustizia giusta (soprattutto per chi ha casa, anzi villone, ad Arcore). Domani, si vedrà.
Relegare così presto in soffitta il cosiddetto “virus dei porci”, però, è un vero peccato. Anche perchè, fin qui, la nuova supposta “spagnola” che avrebbe dovuto decimare il mondo aveva regalato paginate, articolesse e trasmissioni tivù davvero memorabili. Si erano scaldati i motori durante l’estate con robine sobrie, tipo “Allarme Oms: Influenza suina inarrestabile” (Il Giornale, 14 luglio 2009). O con tocchi esotici, stile “Influenza suina, i rimedi dei Dalai Lama” (Repubblica, 4 agosto 2009). Per poi scatenare un vero e proprio crescendo, con l’arrivo dei primi freddi: “Virus, Italia record in Europa: già ducentomila contagiati” (La Repubblica, 30 ottobre 2009); “Tra le mamme ora è psicosi” (La Repubblica, 3 novembre 2009); “Colpo di tosse, tutti fuggono” (Corriere della Sera, 4 novembre 2009); “Il virus fa 24 vittime, 6 in poche ore” (Repubblica, 5 novembre 2009); “Aule dimezzate, è fuga dalle scuole” (Repubblica, 5 novembre 2009). Fino al piccolo capolavoro di humor nero: “Allarme influenza, funerali senza baci” (La Repubblica, 29 novembre 2009).
Per la serie: più che l’affetto, potè la fifa.
E poi? E poi: il contagio ha raggiunto il picco e lo ha superato; la ressa di pazienti terrorizzati che affollava gli ospedali è calata; e la strage annunciata non c’è stata. Nè in Italia, nè altrove. E così giornali e tiggì hanno cambiato argomento. Per la gioia di lettori e telespettatori. Che hanno smesso di sorbirsi la loro dose quotidiana di memento mori a base di virus e bacilli di stagione.
Peccato, si diceva. Anche perchè - dopo le parole e la paura - sarebbe il momento dei bilanci e dei numeri. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità - quella degli allarmi estivi - ogni anno muoiono di influenza circa mezzo milione di persone. E sempre secondo l’Oms - che ha messo tutto nero su bianco in un report pubblicato da Bloomberg - l’influenza suina, al 22 novembre 2009, avrebbe ucciso solo 7.820 persone. Una mortalità più bassa di circa 70 volte. Risultato: secondo un rapporto pubblicato dalla rivista scientifica PlosMedicine, questa potrebbe essere la “più leggera pandemia della Storia”.
Ma dai? Massì.
E ci sarebbe quasi da gioire per lo scampato pericolo. Quasi, però. Perchè nel frattempo le grandi case farmaceutiche - secondo le stime della banca d’affari, JpMorgan - avrebbero guadagnato - dalla pandemia “più leggera della Storia - circa 10 miliardi di dolllari (ovvero 7 miliardi di euro). E solo l’Italia - grazie ad allarmi e panico - avrebbe sganciato senza fiatare, secondo alcuni indiscrezioni pubblicate dal Corriere della Sera, circa 200 milioni di euro per un fiume di vaccini.
Soldi - per altro - arrivati come una manna dal cielo e proprio al momento giusto. Il momento giusto chiaramente non per cittadini e contribuenti. Ma per le case farmaceutiche.
Perchè? Per via della crisi economica. Che - non fosse stato per l’influenza provvidenziale - avrebbe scavato buchi anche nei bilanci dei produttori di pastiglie e affini. O per lo meno così parrebbe, a giudicare da un’intervista rilasciata - a settembre, al “Sole 24 ore” - da David Brennan, amministratore delegato del gruppo farmaceutico anglo-svedese, AstraZeneca (31,6 miliardi di dollari di fatturato nel 2008); e presidente di turno di PhRma, l’associazione che raccoglie le 30 principali case farmaceutiche al mondo. Un’intervista così sfacciata che - se non c’era - nessuno sarebbe mai stato in grado di inventarla:
Domanda (del giornalista del “Sole”): Lo scoppio dell’influenza “A” sembra arrivato al momento giusto: le società farmaceutiche sono alle prese con la riduzione della spesa sanitaria da parte dei governi… Risposta (dell’ad di AstraZeneca): “Non c’è dubbio. (…) I governi aumentano gli stoccaggi di medicine e l’impatto positivo sui conti è rilevante. Con il governo americano abbiamo un contratto di fornitura da 12 milioni di dosi (di vaccino, NdA) dal valore complessivo di 120-140milioni di dollari. Obama acquisterà tutta la fornitura che oggi abbiamo a disposizione, e posto che i produttori di forniscano dispositivi inalatori (la AstraZeneca sta lavorando su un vaccino spray, NdA), potremo raggiungere un giro di affari globale da 500 milioni“.
Milioni, anzi miliardi che - col senno di poi - si poteva anche evitare di spendere. Come forse si potevano evitare gli allarmi lanciati dall’Organizzazione mondiale della Sanità, che - curiosamente - ha sede a Ginevra, in Svizzera. Dove hanno sede anche due delle principali case farmacuetiche al mondo: Roche e Novartis (nata dalla fusione di Ciba-Geigy e Sandoz). Proprio quella Novartis che - sempre per una coincidenza divina - è l’azienda che ha preso i milioni per riempire di vaccini proprio noi italiani.
E ancora. Si potevano evitare le paginate e le articolesse in stile fine del mondo dei giornali italiani. Che - sempre per un caso del destino cinico e baro - hanno le case farmaceutiche nostrane e non tra i loro inserzionisti. E che hanno deciso di non andare ascolto ai medici italiani che hanno sempre detto che si trattava di una normale influenza. E si potevano - per finire - evitare anche certe campagne terroristiche sui “vaccini-che-uccidono” lanciate da certi cospirazionisti alle vongole. Che invece di fare controinformazione, cercano di fare concorrenza ai grandi media con le stesse armi dei grandi media: sensazionalismo e falsi allarmi.
Si poteva, ma non ci si è riusciti. E prima di metter via cuffie, sciarpe e termometri - e passare al prossimo allarme, emergenza o scandalo - sarebbe bene riflettere sul perchè quando certi pifferai suonano, i topi li seguono. Sempre. Perchè a riempire i pronto soccorso e a intasare gli ospedali per un mal di gola sospetto, non erano certo i giornalisti allarmisti, i cospirazionisti alle vongole o i super esperti dell’Oms. Vero cari concittadini carciofoni?

Grecia: la sindrome cinese, l’Europa e il G2
La Grecia sta disperatamente cercando di evitare il collasso delle sue finanze pubbliche. È una partita esistenziale per Atene. Almeno ad ascoltare il grido d´allarme del primo ministro George Papandreou.
«Lo stallo della finanza pubblica minaccia la nostra sovranità». L´emergenza s´è aggravata dopo che martedì l´agenzia Fitch ha abbassato il rating del debito sovrano greco da «A-minus» a «BBB plus con outlook negativo», mentre Standard&Poor´s sta valutando una misura analoga. Mercati, agenzie e governi interessati non si fidano troppo delle promesse di risanamento del governo di Atene. Il deficit è pari al 12,7% del pil, mentre il debito l´anno prossimo potrebbe toccare quota 125% sul pil. Le cadute a ripetizione della Borsa e dei bond greci, in un contesto politico e sociale alquanto agitato, confermano che la crisi ellenica sarebbe già finita in tragedia se il paese non godesse della protezione dell´euro, peraltro non illimitata.
Questo non è solo un dramma greco. È anche un paradigma utile a rivelare le strategie delle principali potenze mondiali, specie della Cina, in una tempesta economica tutt´altro che placata. Non si tratta solo di capire se ed eventualmente fino a che punto gli europei, in particolare i tedeschi, siano disposti a muovere in soccorso di un´economia debole dell´Eurozona, a costo di sacrificare quel che resta del patto di stabilità. Ma attraverso il prisma greco ci si può anche fare un´idea sul grado di intesa della strana coppia Usa-Cina e testarne il modo di approcciarsi all´Europa e al Mediterraneo.
In tale prospettiva, occorre ricordare che, per esorcizzare lo spettro del default del suo Stato, Papandreou ha speso le ultime settimane in frenetici quanto riservati contatti con Pechino, in particolare con la Bank of China. Obiettivo: convincere i cinesi ad acquistare a partire dal mese prossimo almeno 25 miliardi di bond greci. Questa mossa sarebbe supportata, fra gli altri, da alcuni influenti amici americani del premier greco (Papandreou è di madre statunitense). Goldman Sachs e JP Morgan sarebbero della partita. Complessivamente, per non affogare Atene punta a piazzare 47 miliardi di bond in euro l´anno prossimo.
I cinesi sono disponibili ad acquistare titoli greci. Ma avendo da tempo appurato di poter prendere Atene per il collo, puntano in cambio ai "bocconi buoni" ellenici, ad alcuni asset industriali di valore strategico. Soprattutto vogliono stringere la presa sul porto del Pireo, principale scalo container nel Mediterraneo orientale, destinato in prospettiva non breve a crescere grazie al previsto rafforzamento dell´aggancio alla rete ferroviaria europea via Balcani. Sicché le navi portacontainer che trasportano merci dalla Cina e dall´Asia verso l´Europa centrale potrebbero sempre più guardare al Pireo come a un´ottima alternativa ai porti del Northern Range (Le Havre, Rotterdam, Amburgo), che richiedono otto giorni di navigazione in più ma offrono servizi e collegamenti straordinariamente convenienti rispetto ai concorrenti mediterranei. Fatto è che la cinese Cosco Pacific Ltd. ha concluso nel 2008 un accordo per operare i moli 2 e 3 del Pireo per 35 anni (prezzo: 4,3 miliardi di dollari), e sta mirando ad altri investimenti logistici.
Perché Pechino corre in soccorso di Atene? I cinesi partono ovviamente dalla constatazione che sono i greci ad aver bisogno di loro, non viceversa. Pechino è impegnata a diversificare gradualmente e con molta prudenza il credito accumulato in questi anni nei confronti degli Usa, che minaccia di diventare un peso insostenibile, vista la profondità della crisi americana e i dubbi sulla tenuta del dollaro. In ogni caso a Pechino non si parla di ricadute geopolitiche, semmai si ricorda che gli investimenti cinesi in Europa sono ben inferiori a quelli europei in Cina e derivano da valutazioni puramente economico-finanziarie. Inoltre vengono evocate le radici americane di Papandreou, i suoi legami con ambienti bancari e finanziari di New York, a suggerire che dietro la Grecia c´è l´ombra degli Stati Uniti, che non vorrebbero lasciar fallire un paese comunque alleato e strategicamente collocato nel Mediterraneo – specie ora che della Turchia si fidano molto meno. Insomma, l´intesa salva-Grecia avverrebbe sotto l´egida del G2. A queste considerazioni converrebbe aggiungere una postilla geoeconomica (A) e una geopolitica (B), più una considerazione finale su che cosa (non) è l´Europa per i cinesi (C).
A) Per la Cina il Mediterraneo è il principale corridoio di sbocco delle sue merci verso il grande mercato europeo. In questa prospettiva il Pireo è solo uno degli anelli della catena globale del valore – dalla fabbrica al consumatore, ossia dalla Cina all´Europa via Mediterraneo – che Pechino sta cercando di irrobustire. Con buon successo. Le imprese cinesi investono su tutta la portualità mediterranea, anche nordafricana (qui si va alla grande, anche se il crollo di Dubai World lascerà qualche traccia), e perfino a Napoli, dove la cinese Cosco ha stabilito una partnership paritetica al 46% con Msc. Si noti di passaggio che i porti italiani sarebbero davvero interessanti per gli investimenti cinesi, non fosse che per due fattori: la modestia dei retroporti e quindi dei collegamenti con i mercati di consumo, e l´attivismo neoprotezionistico delle mafie. Esempio: a Gioia Tauro si è mobilitata a suo tempo la ‘ndrangheta, inventando uno pseudosindacato con tanto di bandiere rosse, per ostacolarvi lo sbarco di investitori con gli occhi a mandorla. Non c´è dubbio che gli investimenti cinesi abbiano una logica economica. Che siano determinati anche dal privilegio/vincolo di disporre di enormi quantità di denaro. Ma c´è ancora meno dubbio sul fatto che le operazioni economiche e finanziarie di Pechino abbiano ricadute geopolitiche, in termini di crescente influenza cinese nell´area mediterranea intesa nel suo complesso: europea, africana, mediorientale. Un´area dove negli ultimi anni gli americani stanno ammainando bandiera, mentre non solo cinesi, ma anche arabi, indiani e brasiliani stanno entrando alla grande. E lo chiamavamo mare nostrum.
B) I cinesi guardano al mondo con gli occhiali del G2, ma questo orizzonte non è ancora una realtà strutturata. La simbiosi economica non basta a produrre un´alleanza. Che i cinesi finora hanno perseguito, sottotraccia e talvolta apertamente. Ma i dubbi aumentano. Dopo averlo mitizzato, Pechino è sempre più delusa dal colosso americano, dalla pochezza della sua leadership politica e dalla inaffidabilità delle sue strutture finanziarie. Come gli amanti delusi, i leader cinesi oscillano fra il sentimento che li porterebbe a stringersi comunque all´America, e la sensazione di aver puntato troppo su un cavallo che sta percorrendo il viale del tramonto.
Questa delusione si esprime in codice. Come quando Wen Jiabao, subito dopo il crollo di Wall Street, faceva notare che in America si legge solo mezzo Adam Smith, quello della Ricchezza delle Nazioni, mentre si dimentica l´altro Smith, quello che teorizzava la necessità dell´intervento statale per redistribuire la ricchezza e garantire l´armonia sociale. O quando in novembre il numero due del regime, Xi Jinping, parlando alla Scuola centrale del Partito, ha raccomandato di «incoraggiare attivamente nel partito egemone la creazione di un modello di studio del marxismo». Che i cinesi riscoprano Marx è una notizia. Tradotto in italiano: forse ci siamo sbagliati a cercare di imitare troppo gli americani, a legarci troppo a loro, immaginando un percorso di riforme economiche e poi politiche in direzione liberaleggiante e parademocratica. Conviene invece puntare sul nostro capitalismo guidato e autoritario come modello utile per noi e spendibile nel resto del mondo.
C) Il mese scorso il nostro ministro dell´Economia, Giulio Tremonti, ha avuto il privilegio di parlare davanti alla succitata Scuola del Partito. Tremonti è stato brillante nel promuovere il ruolo del nostro paese e dell´Europa, ricordano i suoi uditori. La sua tesi: il G2 non basta, ci vuole il G3, ossia un treppiede Cina-Europa-Usa come garanzia della stabilità mondiale. «I tavoli si reggono su tre gambe, non su due», ha notato Tremonti.
Un tempo questa constatazione avrebbe acceso la fantasia degli eurofili cinesi. Oggi il clima a Pechino è più sobrio. Dopo essersi illusi, per wishful thinking, sulla crescita di un fattore di potenza europeo autonomo dagli Usa e dalla Russia, con il quale la Cina avrebbe stabilito una partnership privilegiata in funzione antirussa e di bilanciamento dell´egemonia americana, i cinesi hanno rinunciato a sperare nell´Europa in quanto soggetto geopolitico. Preferiscono coltivare relazioni con i singoli paesi, specie con la Germania. A noi guardano soprattutto per il nostro stile di vita e in quanto eredi di un millenario patrimonio culturale, sperando che si abbia qualcosa da insegnar loro nella gestione di tale eredità (i cinesi stanno scoprendo con molto ritardo l´importanza economica e di soft power del patrimonio artistico-culturale).
Per il resto, sono a caccia di asset. Con la consapevolezza che molti paesi europei – la Grecia è in cima alla lista – hanno bisogno di loro. Nel negoziato bilaterale sono i cinesi a tenere il coltello dalla parte del manico. Ciò che dovrebbe, ancora una volta, spingerci a fare l´Europa. E che invece, ancora una volta, ci trova chiusi nei tragicomici particolarismi nostrani.







DI PEPE ESCOBAR
atimes.com
Il 21 novembre sul China Daily è apparsa questa didascalia: “Tre donne fanno sembrare più piccolo il Nido d'Uccello [lo Stadio Nazionale] mentre si godono il cielo azzurro e il sole invernale, venerdì. Venerdì Pechino ha sperimentato il suo 260° giorno sereno del 2009, raggiungendo il proprio obiettivo 41 giorni prima della fine dell'anno”.
Si potrebbe pensare che il segreto del controllo climatico cinese e il raggiungimento degli “obiettivi” sia che Dio ha la tessera del Partito Comunista, e che i suoi obiettivi sono i piani quinquennali, come per chiunque altro (eccetto gli “scissionisti”). Dio, ovviamente, non si sognerebbe mai di diventare uno scissionista.
Solo nell'ultimo mese in Cina sono stati venduti 1,34 milioni di automobili. Sono una gran bella fonte di gas serra. Confrontateli con il nuovo obiettivo di Pechino, quello di ridurre l’intensità di carbonio – emissioni di anidride carbonica per unità di prodotto interno lordo – dal 40 al 45% entro il 2020, rispetto ai livelli del 2005. Cosa se ne faranno di tutte queste auto, le esilieranno in Corea del Nord?
Gli imprenditori cinesi, però, continuano a concentrarsi sull'obiettivo. Molti sono giunti a Copenhagen per la conferenza sul clima delle Nazioni Unite, e oltre a concludere una caterva di nuovi grossi contratti hanno già reso pubblico il loro “impegno a esplorare modelli di crescita economica a bassa emissione di carbonio”.
Stretch limo da Kyoto
Congestionata da 1200 limousine (e solo cinque auto elettriche) e 140 jet privati riservati ai veri VIP tra i 15.000 delegati, 5000 giornalisti e 98 leader mondiali che si ingozzavano di foie gras sostenibile (e sesso libero, offerto dalle 1400 lavoratrici del sindacato delle prostitute di Copenhagen, questo sì che è carbon dating*...), Copenhagen è stata ribattezzata Hopenhagen. Ma non c'è da stare molto allegri.
Parlando per conto del Gruppo dei 77 e della Cina, l'ambasciatore sudanese Ibrahim Mirghani Ibrahim ha messo in chiaro che le manovre del Nord per aggirare il protocollo di Kyoto e per mettere con le spalle al muro il Sud non avranno vita facile. In base a Kyoto, adottato nel 1997, il Nord industrializzato si è impegnato a ridurre le emissioni del gas serra del 5% rispetto ai livelli del 1990 nel 2008-2012. Tutti i paesi hanno sfondato i limiti.
Poi, all'inizio di questa settimana, è trapelato il testo “segreto” di una bozza dell'accordo politico conclusivo che il 18 dicembre, cioè alla fine del summit, dovrebbe essere ratificato da tutti, compreso il Presidente degli Stati Uniti Barack Obama. E Lumumba Di-Aping, il presidente sudanese del Gruppo dei 77 più la Cina, è partito in quarta: “Il testo ruba ai paesi in via di sviluppo la loro quota giusta ed equa di spazio atmosferico. Cerca di trattare ricchi e poveri allo stesso modo”. La Cina e l'India ovviamente si oppongono fermamente al testo “segreto”.
Ecco dunque quello che il Nord ricco sta architettando, secondo il Sud: “Distruggere sia la convenzione delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico che il protocollo di Kyoto”, come ha detto Di-Aping. Kyoto è finora il solo accordo globale che obblighi il Nord a ridurre le emissioni di gas. Adesso il Nord vuole un losco “fondo verde” condotto da un consiglio misterioso che alla fine si tradurrà nella Banca Mondiale e in un consorzio di organi non-ONU. In breve: il Nord l'ha fatta franca con l'inquinamento del pianeta, mentre quello che va regolamentato è il Sud.
I tagli della Cina da soli corrispondono a non meno del 25% della riduzione globale delle emissioni necessaria a evitare un aumento di più di due gradi Celsius della temperatura del pianeta. La Cina batte perfino la correttezza ambientale dell'Unione Europea, impegnatasi a ridurre le emissioni del 20% entro il 2020. I principali responsabili dell'inquinamento mondiale, gli Stati Uniti, non vogliono prendere nessun impegno. Washington – che ha snobbato Kyoto – vuole un “accordo politico”, non un “trattato legale”, e si è vagamente offerta di tagliare le emissioni del solo 17% entro il 2020, e in riferimento ai livelli del 2005. Il Nord ha comunque già deciso che a Copenhagen non ci sarà alcun accordo globale, solo una vaga dichiarazione di intenti.
Porca vacca
Qualunque sia l'esito della festa di Copenhagen, non affronterà il problema del funzionamento del turbo-capitalismo, un sistema che è schiavo del petrolio. La maggior parte della realtà che conosciamo ruota essenzialmente attorno a Padre, Figlio e Spirito Santo, cioè Cina, Stati Uniti e Medio Oriente.
Funziona praticamente così. I produttori di petrolio del Medio Oriente vendono il petrolio che alimenta un esercito di industrie cinesi, soprattutto nella cosiddetta “fabbrica del mondo”, il Guangdong. Queste industrie usano il petrolio per produrre praticamente tutto quello che il mondo consuma, e che va a finire in gran parte negli Stati Uniti. I consumatori americani acquistano tutti questi prodotti nei grandi magazzini con carte di credito prosciugate. Poi i magnati del petrolio mediorientali investono il loro surplus negli Stati Uniti. È così che alcuni investitori arabi – per lo più fondi sovrani – sono ora tra i principali creditori degli Stati Uniti.
Mentre gli Stati Uniti sono colpiti dalla più grave crisi dell'occupazione dai tempi della Grande Depressione, la Cina avrà ancora bisogno di tutto questo petrolio per far muovere la propria economia e gli arabi avranno ancora bisogno di consumare prodotti made in China nei Wal-Mart, dove andranno a bordo dei loro SUV.
I cinesi saranno gli ultimi a guastare questo equilibrio. Ridurranno zitti zitti le loro emissioni e in ogni caso continueranno a crescere del 9% annuo – secondo il famoso proverbio cinese "fare è meglio che parlare" (shao shuo duo zuo, parla poco e fai di più).
Dunque chi vincerà, alla fine? Chi se non Wall Street, se mai vedrà la luce un sistema basato sul mercato delle emissioni per “salvare il pianeta”. Goldman Sachs, JP Morgan e Morgan Stanley farebbero così il colpaccio grazie a un mercato del carbonio incentrato sui derivati.
Preparatevi a una valanga di contratti derivati e di prodotti finanziari legati allo scambio di emissioni. Wall Street attirerà importanti investitori dai fondi speculativi e dai fondi pensione, dato che ha investito una fortuna in lobbisti e in contratti con compagnie in grado di offrire “carbon offset” [cedole di credito emesse da organizzazioni che operano nel campo della protezione dell’ambiente e che si impegnano a investire quel denaro per compensare le emissioni di anidride carbonica, N.d.T.] da vendere ai clienti. Sarà una pacchia per gli speculatori. Le banche di Wall Street sono destinate a trasformare i cambiamenti climatici in un nuovo mercato delle materie prime – e a venderli come un prodotto di investimento. Abbiamo già visto tutti questo film, ma che diavolo; benvenuti nella nuova bolla da migliaia di miliardi, l'ancora teorico mercato “cap and trade” [tetto per le emissioni e scambio di quote delle emissioni, N.d.T.].
Anche Big Oil – da Exxon Mobil a Shell e BP – insieme alle maggiori corporazioni globali, molte delle quali legate direttamente a Big Oil, metterà a segno un bel colpo. Queste compagnie vogliono una “carbon tax” globale diretta (esplicitamente chiesta da ExxonMobil). Il sistema di scambio delle quote di emissione legherà i mercati “cap and trade” nazionali; i “tetti” saranno in linea con gli obiettivi di riduzione delle emissioni. Questo spiega perché paradossalmente Big Oil sia di fatto favorevole a combattere il surriscaldamento globale.
Difficile stupirsi alla vista di Wall Street e Big Oil che traggono allegramente vantaggio dai risultati di Copenhagen. La “carbon tax” globale che hanno proposto colpirà tutto il pianeta, e il bello è che Wall Street e Big Oil non dovranno farne le spese. Ma, si potrebbe contestare, perché no, visto che verrà tassato anche il miliardo e mezzo di vacche presenti in tutto il mondo. Secondo la FAO, l'Organizzazione per il Cibo e l'Agricoltura delle Nazioni Unite, le “emissioni” delle vacche sono tra le principali cause del surriscaldamento globale. E così, malgrado tutte le buffonate del fardello dell'uomo bianco, sembra che i mammiferi daranno il colpo di grazia a quella Madre Terra che gli umani avranno ormai praticamente distrutto: questa ironia sarebbe piaciuta molto al teorico dell'evoluzione Charles Darwin.
*Gioco di parole intraducibile: dating è la datazione (al carbonio) ma si riferisce anche all'uscire con qualcuno.
Versione originale:
Pepe Escobar
Fonte: http://atimes.com
Link: http://atimes.com/atimes/China/KL10Ad01.html
9.12.2009
Versione italiana:
Fonte: www.tlaxcala.es
Link: http://www.tlaxcala.es/pp.asp?reference=9464&lg=it
12.11.2009
Traduzione a cuar di Manuela Vittorelli membro di Tlaxcala , la rete di traduttori per la diversità linguistica. Questo articolo è liberamente riproducibile, a condizione di rispettarne l'integrità e di menzionarne autori, traduttori, revisori e la fonte.
