Finanziaria, il grande bluff dello scudo fiscale e dei tagli alle tasse

Economiadi Pietro Salvato

 

pubblicato il 30 novembre 2009 alle 11:00 dallo stesso autore - torna alla home

Il provvedimento fa incamerare solo 3,5 miliardi di euro contro i 5  previsti da Tremonti. Perciò niente abbassamento dell’Irpef e dell’Irap. Nel frattempo, c’è chi guarda con preoccupazione a Dubai e alla nuova tempesta finanziaria. Sono le nostre Pmi.

I soldi che rientreranno in Italia grazie allo scudo fiscale sono sacrosanti e ci serviranno per dare una mano a tutti coloro che hanno bisogno”. A dirlo fu lo stesso premier Silvio Berlusconi, in un’intervista al Tg5. Ancora più nel dettaglio era entrato il ministro delle Attività Produttive, Claudio Scajola, che al quotidiano La Repubblica dichiarò: “Con i soldi dello scudo ridurremo l’Irap”. Lo stesso ministero dell’Economia prevedeva, peraltro, un introito di almeno 5 miliardi euro, frutto di quel 5% di aggravio previsto sui capitali “scudati”. Del resto, al contrario degli analoghi provvedimenti varati dai governi degli altri paesi, il nostro “scudo fiscale” si presentava al quanto allettante: quasi quanto un “condono tombale”. Innanzitutto, permette l’anonimato, poi sana, di fatto, almeno una decina di reati tributari tra i quali qualcuno pure piuttosto grave come l’occultamento o la distruzione di documenti contabili (la pena prevede la reclusione anche fino cinque anni) e, dulcis in fundo, come detto, l’irrisoria “balzello” una tantum del 5% sul capitale illegalmente trasferito all’estero.

DIECI EMENDAMENTI POSSON BASTARE… - Dando un’occhiata alle proposte del governo sotto forma di emendamento alla sua stessa legge Finanziaria, che sarà discussa nei prossimi giorni alla Camera, abbiamo scoperto un pacchetto aggiuntivo di 10 emendamenti per un valore di circa 8 miliardi di euro. Queste proposte risultano coperte, per meno della metà, dalle risorse ora previste dallo scudo fiscale e per il rimanente si tratta di “spostamenti all’interno di capitoli di bilancio già esistenti”. Secondo quanto riferiscono fonti del ministero dell’Economia, le risorse extra scudo che serviranno a finanziare misure come Roma capitale, gli ammortizzatori sociali e l’ambiente “non sono soldi freschi, ma vengono presi da voci già esistenti, attraverso uno spostamento di poste di bilancio da un capitolo all’altro”. Compare, inoltre, anche un aumento delle tasse sui processi: in particolare aumenta il cosiddetto “contributo unificato”, cioè la “forfetizzazione” in un unico importo di tutte le spese collegate ad una causa. Fra le proposte avanzate dall’esecutivo ci sono anche gli sgravi fiscali per le banche promessi dallo stesso ministro dell’Economia Giulio Tremonti in conseguenza dell’accordo sulla moratoria sui debiti delle Pmi. Un emendamento, in particolare, poi propone la soppressione delle comunità montane (dopo che lo stesso governo Berlusconi, qualche tempo fa, ne ha permesso la costituzione persino di un paio a livello del mare!) e del difensore civico comunale. Scatta, infine, una stretta sui falsi invalidi con verifiche straordinarie.

DE TAX… IN TAX - La Finanziaria, quindi, che valeva già 4 miliardi di euro così come approvata dal Consiglio dei ministri e dopo il passaggio al Senato, si arricchisce di altri 4 miliardi che derivano dallo scudo fiscale, più altre risorse. In particolare, dallo scudo adesso si prevede di introitare solo 3-3,5 mld di euro, contro i 5 mld inizialmente previsti (non più di un mese e mezzo fa). Nel pacchetto del governo c’è anche l’emendamento che ripartisce gli introiti dello scudo fiscale: che dovrebbero andare, secondo quanto riferisce il vice-ministro dell’Economia, Giuseppe Vegas, nell’ordine: “alle missioni di pace, ai libri di testo scolastici, ai lavoratori socialmente utili della scuola, alle scuole paritarie, al fondo università e alla proroga del 5 per mille per il 2010”. Insomma, non c’è alcun taglio delle tasse. Già detto del finto “taglio dell’acconto sull’Irpef” , spacciato dallo stesso esecutivo e persino da certi “organi di informazione” come “il primo consistente taglio delle tasse messo in atto dal governo Berlusconi”, ora osserviamo come non ci saranno altri tagli, sconti o sgravi fiscali nella Finanziaria 2010. Questo, in particolare, è uno dei punti fermi assieme, all’assenza di sgravi sull’Irap (contrariamente, quindi, a quello che sosteneva Scajola) a favore delle imprese, ed al “no” alla cedolare secca sugli affitti. Dal Corriere della Sera di ieri, apprendiamo inoltre che: “Aperto lo scudo e pagata la sanzione, potrebbe esserci fino a un anno di tempo per il rimpatrio o la regolarizzazione con lo scudo fiscale dei capitali detenuti illecitamente all’estero. L’Agenzia delle entrate ha già fatto sapere che i contribuenti che avranno difficoltà nel disinvestimento dei capitali da scudare potranno far presente l’esistenza di «cause ostative» e procedere al rientro fisico in tempi “congrui”. E l’orientamento che sta maturando nell’Agenzia è quello di considerare “congruo”, in funzione della complessità delle operazioni, anche un anno di tempo. Non è chiaro se l’indicazione troverà accoglienza in un emendamento alla Finanziaria 2010 oppure, come sembra più probabile, in una nuova Circolare del direttore dell’Agenzia”.

Tradotto, significa che lo scudo, al pari peraltro dei suoi predecessori varati dall’altro esecutivo Berlusconi, nel 2002 e 2003, ha raccolto meno di quanto sperato. Adesso, in presenza di “cause ostative”, si estende ad un anno il tempo per il rientro, mentre resta ferma la scadenza al 15 dicembre per presentare la dichiarazione con il pagamento della sanzione del 5%, che di fatto apre l’ombrello giuridico dello scudo.

SILVIO E LA TEMPESTA DI DUBAI –Se c’é bisogno di fare deficit, si fa solo sulla cassa integrazione, sul sociale”. Lo ha detto il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti intervenendo in commissione Bilancio della Camera nel dibattito sulla Finanziaria, ricordando che la cassa integrazione “è l’unica causale che ha una cifra etica e morale condivisibile”. Se la tempesta finanziaria proveniente dal lontano Golfo Persico dovesse man mano crescere, probabilmente gli effetti si faranno sentire anche nel nostro Paese. Infatti, non basta fare spallucce, magari dicendo che “le nostre banche non sono esposte direttamente”. Non lo erano, più di tanto, nemmeno con la “bolla americana”, eppure gli effetti perversi della crisi prima finanziaria e poi economica, come sappiamo, li stiamo ancora scontando per intero anche nel nostro Paese. Oltre a ciò, non sono poche le piccole e medie imprese italiane impegnate direttamente nell’Emirato arabo. Come ricorda in una brillante analisi su www.ilsussidiario.net, Ugo Bertone: “Sono state le trivelle della Trevi a scavare le fondamenta di tanti tra le centinaia di grattacieli spuntati sulle rive del Golfo; nelle hall dei grandi alberghi (tra cui la Armani house) spiccavano le vetrine delle griffes, grandi e piccole; a Salvatore Ferragamo, nell’ottobre del 2008, era stato affidato l’incarico di arredare “la casa più lussuosa del pianeta” che, come tutti gli hotel di lusso, avrebbe dovuto avere le finiture, a partire dai rubinetti per finire con gli yacht parcheggiati davanti all’ingresso rigorosamente made in Italy”. E ancora: “Non sarà sufficiente stringere i tempi e aspettare che “passi ‘a nuttata”: l’economia reale italiana – sostiene Bertone – da sempre export oriented, rischia di pagare anche per il 2010 un prezzo più alto di altre, con una ricaduta negativa sia sulla crescita del Pil, che nella migliore delle ipotesi, sarà di un punto inferiore a Francia e Germania, sia sui consumi e sulle entrate fiscali […]. È questa la cornice in cui s’innesca il dibattito sulla Finanziaria. Da una parte, la tesi Tremont, ovvero, è importante sparare con parsimonia le (poche) pallottole a disposizione, frutto di un’iniezione una tantum, cioè lo scudo fiscale […] dall’altra,la tesi Baldassarri-Brunetta (è curioso che il dibattito più aspro avvenga all’interno della maggioranza…), che perciò necessario riqualificare la spesa in corsa, tagliando costi improduttivi a vantaggio degli sgravi fiscali nei confronti delle famiglie e delle imprese”. La chiosa è eloquente: “L’ottimismo di Tremonti è un’illusione, dicono i più critici: dietro l’apparente stabilità, resa possibile dalla tenuta dei bilanci familiari, ben più solidi, c’è il malcontento che cova sotto le ceneri, soprattutto nelle aree forti del Paese, quelle meno avvezze ad affrontare le emergenze. Un boomerang che potrebbe ritorcersi contro Silvio Berlusconi, che ha vinto le elezioni proprio sull’onda della protesta contro la pressione fiscale”.

http://www.giornalettismo.com/archives/43252/vi-sveliamo-il-grande-bluff-della-finanziaria-2010/

CRISI/ Dietro il crack della finanza islamica, la vendetta dei petrodollari

 

Gianni Credit

Economia e Finanza

lunedì 30 novembre 2009

Il default da 60 miliardi di dollari del Dubai World, il braccio finanziario dell’emirato del Golfo, sta apparentemente riproiettando un “video” finanziario già quasi logoro. Da un lato c’è la gestione valutaria a Dexia, alle Landesbanken tedesche fallite o a un altro “paese virtuale” andato in rovina come l’Islanda: un mix di aiuti pubblici e di mutuo soccorso interbancario sovrannazionale, anche se attraverso la probabile variante un po’ tribale dell’intervento da parte di Abu Dhabi: emirato formalmente federato con Dubai, sostanzialmente retto da una nobiltà rivale. Semmai l’ironia della sorte è che Dubai, nei primi mesi della Grande Crisi veniva indicato come sede di uno di quei fondi sovrani dei paesi emergenti/emersi che avrebbero sorretto le economie del G8 azzoppate dalla finanza derivata. 

Neppure l’analisi a caldo dell’ennesimo scoppio di bolla sta del resto riservando sorprese particolari. C’è l’odore forte e dominante di immobiliarismo bruciato in fretta sulle sabbie costiere del Golfo: rispetto a quello massiccio dell’America post 11 settembre (o di quello un po’ più pittoresco dei “newcomers” italiani come Ricucci o Zunino) c’è magari con la variante esotica e glamour degli alberghi a sette stelle con campo da tennis sul tetto; o delle mega-tower alte il doppio dei grattacieli di Manhattan, ma alla fine più simili all’inquietante gigantismo di un dittatore come Ceausescu. Attorno a Dubai si nota anche sicuramente il pullulare di investment bank impegnate nell’ennesima corsa all’oro. In questo caso il “fly to quality” - per la verità molto terra-terra - si è risolto nella ricerca di un luogo dove la “regulation” finanziaria era inversamente proporzionale all’immagine mediatica e dove fosse quindi possibile tentare di replicare il modello turbo-finanziario. Ma - come la gelida, spopolata e ultra-europea Islanda - anche il rovente, immigratissimo ed occidentalizzante emirato si è rivelato una piattaforma drammaticamente inconsistente, al di là dei giganteschi cantieri aperti.

Mentre Rejkyavik, tuttavia, fino a quindici anni fa era più o meno un grande porto peschereccio, reinventatosi come paradiso fiscale della City londinese, travestito alla bell’e meglio da “parco per new business”, le monarchie del Golfo - capeggiate dall’Arabia Saudita - hanno alle spalle più storia, sia recente che antica. Hanno alle spalle quasi mezzo secolo di grandi incassi petroliferi: centinaia, migliaia di miliardi di dollari di ricchezza finanziaria “reale”, per almeno un decennio “sottratti” in termini reali alle economie occidentali, che hanno dovuto lavorare duro per ristrutturare i propri sistemi produttivi.

Potrà sembrare un paradosso, ma la terziarizzazione globalistica e finanziarizzata dell’economia euramericana a partire dagli anni ’80 è stata certamente accelerata - se non provocata - dagli choc petroliferi. L’euro - come simbolo sintetico di una dinamica storico economica di lungo periodo - è il punto d’approdo del Vecchio Continente dopo un ventennio di squilibri valutari e più in generale macroeconomici. Il “big bang” delle Borse e il gigantismo bancario sono due altre facce di un cammino di liberalizzazione e internazionalizzazione economica che ha avuto nella finanza di mercato il traino e - da ultimo - una leadership ora sotto processo.

Ma i veri grandi “neo-capitalisti” del pianeta a lungo sono stati emiri e sceicchi: molto prima che le onde della ripresa di fine secolo ricreassero i surplus finanziari nelle tasche di centinaia di milioni di famiglie o, via via, in quelle dei primi tycoons di Brasile, Russia, India e Cina. Ora, già quasi al giro di boa del primo decennio del nuovo secolo, Dubai (che di petrolio non ne ha molto, ma di petrodollari sì) si rivela poco più che un “parco di divertimenti” per banche d’affari in fuga. Così - non diversamente da molti americani indebitati a forza di subprime per comprarsi case che non potevano permettersi - anche un emirato islamico può vedersi ritornare parte dei propri capitali - intermediati dalle grandi banche apolidi - sotto forma di investimenti solo apparentemente reali, ma di fatto altamente speculativi.

E in questo, il capitalismo islamico non si è rivelato più attrezzato nel resistere al richiamo della scorciatoia: dello sviluppo indotto per via esclusivamente finanziaria, con l’illusione (in fondo il cuore della cultura globalista entrata in crisi) che la mobilità apparentemente totale dei capitali fosse condizione necessaria e sufficiente per impiantare, da subito e ovunque, imprenditorialità, occupazione, education. Il crack di Dubai conferma - tristemente - che la finanza autoreferenziale colpisce indiscriminatamente: perfino ha avuto - oggettivamente - la possibilità di determinarne il gioco.

 

http://www.ilsussidiario.net/News/Economia-e-Finanza/2009/11/30/CRISI-Dietro-il-crack-della-finanza-islamica-la-vendetta-dei-petrodollari/52620/

CANNIBALISMO FINANZIARIO

 

 

 

Le banche d’affari ormai vivono solo per succhiare il sangue al mercato ed ai risparmiatori. E anche se siamo a fine anno, non sorprendiamoci di nulla.

30 Novembre 2009, ore 12:45

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Tra i vari report che mi sono passati tra le mani, c’è un appuntamento quotidiano con uno degli economisti che più stimo, ovvero Gerard Minack di Morgan Stanley. Nel report di oggi inizia a ventilare l’ipotesi che la correzione di queste ultime sedute potrebbero essere diverse da quelle prese di beneficio a cui siamo stati abituati.

Effettivamente, dai minimi di marzo, la borsa ha inanellato una serie di sedute incredibili, con una performance eccellente se parametrata al tempo. In oto mesi abbiamo visto uno SP 500 a +67%, un Euro Stoxx 50 a +68%, un Topix (Giappone) a +41% e così via.
Le varie “correzioni” sono sempre state delle temporanee prese di beneficio che poi, però, hanno sempre visto una violenta ripresa delle quotazioni.
Ma questa volta potrebbe essere diverso.

Potrebbe.

Potrebbe perché abbiamo avuto modo di vedere che la speculazione regna sovrana e che le randi banche di matrice USA (in primis) hanno mezzi, potere e denaro per portare i listini un po’ dove vogliono.
Però, speculazione a parte, qualche segnalino interessante e degno di nota non possiamo sottovalutarlo.

1) Tanto per cominciare è assolutamente inequivocabile il rallentamento e l’appannamento di diversi dati macroeconomici. E oltre ai dati peggiori delle attese e, comunque meno “forti”rispetto a mesi fa, abbiamo anche avuto la conferma dei timori dello stesso Obama sull’effettiva prosecuzione della crescita economica (visto che il buon Barack mi va a parlare di “double dip”).

2) Inoltre non possiamo anche considerare un altro importante elemento, la rotazione settoriale.
Infatti, in ogni rally che si rispetti, i vari settori salgono generalmente in tempi diversi. E Così possiamo dire che nelle ultime sedute i finanziari e i tecnologici hanno rallentato la loro corsa, mentre sono andati molto meglio i telefonici e il settore della salute. Che sia finito il ciclo e sia matura la correzione?

3) inoltre alcuni settori iniziano a muoversi in modo bizzarro. Infatti, come segnalato anche in Compass, il comportamento del T Note ci vuol dire qualcosa. E non è un messaggio di serenità per i mercati.

4) infine c’è la vicenda Dubai. Per carità, non siamo a livelli di vero dramma finanziario, ma dal punto di vista psicologico può avere degli effetti importanti, visto che le banche più esposte già di per sé non godono di ottima salute. Fate conto, Barclays e RBS sono tra le più esposte. Ed un salvataggio di entrambe, per il governo britannico, non è assolutamente pensabile.

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Ma non facciamo il passo più lungo della gamba, non diventiamo matti su supposizioni ed elucubrazioni. Teniamo in considerazione il fatto che lo scenario sta vistosamente scricchiolando e che al speculazione, come ha montato un castello di carte, lo può anche smontare.

Trovo comunque difficile che, proprio in concomitanza con il fine anno, si tenda a smontare carry trade e speculazioni. Però tutto è possibile e se il mercato prende una piega, la corsa al “take profit” potrebbe diventare inesorabile per le grandi banche, che ormai vedo come grandi cannibali , animali che se ne fregano di tutto e di tutti ed hanno solo un obiettivo. Fare soldi. A scapito del sistema, dei cittadini, dei consumatori, dei poveri cristiani e di tutti gli esseri umani. Target: super bonus per i manager. E siccome questi super bonus vorranno essere difesi, la paura di un mercato che gira e va contro potrebbe portare a chiudere repentinamente posizioni e a scatenare un gran putiferio.

Certò, sono ipotesi, ma in questo mercato, ormai, non mi sorprendo più di nulla.

STAY TUNED!

http://intermarketandmore.investireoggi.it/cannibalismo-finanziario-8331.html

L’India alle prese con un’inflazione sopra al 15%, il record dell’oro e la crisi di Dubai


di CT Nilesh
La crescita dei prezzi, soprattutto per i beni di prima necessità, crea largo scontento nella popolazione e scambi di accuse tra i partiti. Lo Stato acquista oro, ma dice di avere ancora fiducia nel dollaro. Forti ripercussioni dalla crisi immobiliare di Dubai.

Mumbai (AsiaNews) - In una economia in sviluppo come quella indiana, l’aumento dell’indice di produzione industriale inevitabilmente porta con sé un aumento dei prezzi degli alimentari. In questo mese di novembre l’inflazione ha toccato un record del 15,48 %. I prezzi degli ortaggi e del cibo essenziale hanno avuto un rialzo assurdo. Qualcuno da’ la colpa al recente ciclone Phyan, ma qualcun altro accusa di governo di politiche sbagliate.

Vinod Jadav, che vende ortaggi sia all’ingrosso che al minuto nel mercato di Dadar a Mumbai dice: “Faccio questo mestiere da molti anni, ma non ho mai visto i prezzi salire così in fretta”. Krishnakant Gandhi, che importa cibi congelati, accusa il ministero di manipolare il mercato in maniera tale da favorire la potente lobby locale. Gli esperti rimproverano anche il ministro dell’agricoltura, Sharad Pawar, per le sue frequenti previsioni sull’aumento dei prezzi al minuto per le piogge mancate del monsone. Questo dà ai grossisti il vantaggio psicologico per poter alzare subito i prezzi senza aspettare l’arrivo sul mercato del nuovo raccolto.

Ma anche il primo ministro, Manmohan Singh, intervistato da una scolaresca durante la celebrazione del Children’s Day, quando gli è stato chiesto di fare qualcosa per l’aumento dei prezzi, ha risposto dicendo che qualcosa si può fare, ma quando l’introito nazionale per persona è in aumento, è naturale che anche gli agricoltori si aspettano un guadagno maggiore per i loro prodotti.

Tuttavia il partito del Congress si è mosso velocemente a parare il danno, chiedendo ufficialmente al governo di prendere tutte le misure necessarie per controllare i prezzi. Il segretario generale del Congress, Janardan Diwedi, ha detto che il richiamo era necessario dato che si tratta di “un governo di coalizione e non totalmente del Congress”. Il richiamo era per i ministro dell’agricoltura, Sharad Pawar, che non è un membro del Congress. Il giorno prima di questo richiamo l’opposizione aveva protestato contro il governo per l’aumento dei prezzi degli alimentari essenziali.

Su un altro fronte anche il prezzo dell’oro è aumentato fino a superare le 18.000 rupie (circa 273 euro) per 10 grammi. Una causa di questo aumento è stata l’acquisto da parte della Riserve Bank of India di 200 tonnellate di oro dall’IMF tra il 19 ed il 30 ottobre. Due fattori hanno contribuito a questo aumento di prezzo: la paura di una riduzione del cambio del dollaro ed il sospetto che altre banche centrali comprino oro. Anche la vendita al minuto dell’oro in India è in aumento, dovuta in particolare all’inizio della stagione dei matrimoni. L’India è il maggior mercato dell’oro nel mondo.

Malgrado l’acquisto di oro, il primo ministro Manmohan Singh, durante la sua visita negli USA ha dichiarato: “Per quello che io posso prevedere ora non c’è un sostituto per il dollaro”. Lo scambio di dollari-per-oro della Riserve Bank of India era stato interpretato nelle capitali politiche e finanziarie come un implicito voto di sfiducia nell’economia americana.

Questo è anche in contrasto con le ripetute insinuazioni cinesi che l’epoca del dollaro come moneta di scambio stia ormai finendo. La Cina come primo creditore dell’America ha una ipoteca su Washington. Per il momento Singh versa olio sulle piaghe dell’America.

Un terzo fattore che preoccupa l’economia indiana è la tempesta che sta scatenandosi a Dubai. Ci sono paure che l’impresa Dubai World appartenente al governo, e la sua filiale immobiliare Nakheel siano incapace di pagare i suoi debiti di 59 miliardi di dollari. Queste imprese sono state rovinate dalla caduta del mercato immobiliare dopo la crisi finanziaria mondiale.

Malgrado la risposta coraggiosa del governo indiano, la crisi finanziari che è caduta sul Dubai World minaccia di colpire il mercato del lavoro indiano all’estero che dipende largamente dai contratti di lavoro del Medio Oriente. Questa crisi viene proprio quando le statistiche ufficiali parlano di una caduta al 30% della disoccupazione, l’anno scorso nel Medio Oriente. La conseguenza sarà che le rimesse in India degli emigrati saranno molto di meno dei 43,5 miliardi di dollari del 2007-2008. Orami si sa che quando Dubai starnutisce, l’India del sud, specialmente il Kerala, prende un doppio raffreddore.

http://www.asianews.it/index.php?l=it&size=A

Dopo Dubai: i mercati parlano a Dublino affinché Roma intenda?

 

Monday, 30 November, 2009

in Articoli, Discussioni, Economia & Mercato, Italia

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di Mario Seminerio – Libertiamo

Nei giorni scorsi Simon Johnson, ex capo economista del Fondo Monetario Internazionale, ha evidenziato l’apparentemente strana correlazione tra i timori di crisi sistemica suscitati dal crescente rischio di insolvenza di una entità finanziaria del Dubai a controllo pubblico e il rischio di credito percepito su alcuni stati sovrani particolarmente colpiti dalla crisi finanziaria globale, come l’Irlanda. Cosa c’entra la verde Dublino con le sabbie del Golfo?

Per tentare di rispondere, Johnson parte dell’analisi della situazione di Dubai. Lo scenario più probabile, oggi, è quello di un salvataggio di Dubai per mano di Abu Dhabi, con l’emirato petrolifero a soccorrere quello finanziario-immobiliare. Dubai avrebbe circa 100 miliardi di dollari di passività totali, e si ipotizza che il salvataggio preveda che i suoi creditori vengano in qualche misura colpiti dal default (ottenendo, secondo le indiscrezioni, 75 centesimi per ogni dollaro di credito). Quindi le perdite sarebbero dell’ordine di 30-50 miliardi di dollari.

Se questi fossero i numeri, l’effetto diretto sarebbe nel complesso contenuto. La banca anglo-cinese HSBC, che guida il gruppo dei creditori per esposizione lorda, perderebbe il 3 per cento del proprio patrimonio netto. Non è divertente, ma è comunque gestibile. Ricordiamo che HSBC non ha fruito dei salvataggi pubblici durante la crisi, e secondo l’agenzia Standard&Poor’s sarebbe la banca meglio capitalizzata al mondo, in termini di capacità di gestione del rischio. L’impatto tra le altre istituzioni finanziarie che hanno prestato a Dubai sarebbe piuttosto disperso, e geograficamente localizzato tra le banche europee continentali.

Ma se le cose stanno in termini tutto sommato così rassicuranti, che c’entra l’Irlanda? Per Johnson, il punto sta proprio nel concetto di “salvataggio parziale”, cioè con perdite inflitte ai creditori. Se Dubai può effettivamente dichiarare insolvenza e ristrutturare il proprio debito senza far deragliare l’economia globale, allora anche altrove può accadere qualcosa di simile. Se Abu Dhabi può assumere una linea dura sul salvataggio e ciò non destabilizza i mercati, anche (ad esempio) l’Unione europea può sopravvivere al default di uno o più dei suoi membri. Diciamo Irlanda e Grecia, per non mettere ansia a nessuno? Se gli intermediari finanziari cominciassero ad imparar qualcosa da queste insolvenze, e cioè che non è detto debba sempre esserci un deus ex machina nazionale o sovranazionale che trae d’impaccio i creditori, impedendo loro di perdere anche un solo euro, ecco che d’incanto la cautela tornerebbe sui mercati, dissolvendo l’azzardo morale.

Che significa ciò? Che i prestatori farebbero i compiti a casa, e chiederebbero ai debitori una remunerazione maggiormente espressiva del rischio di insolvenza di questi ultimi. Detto incidentalmente, questo doveva anche essere il percorso da seguire dall’inizio della crisi, ma le troppe interconnessioni sistemiche tra debitori e creditori, oltre alla vigorosa azione di lobbying intrapresa dal sistema finanziario, hanno cristallizzato la situazione, e si è scelta la strada della grande sovvenzione pubblica, preferendola a quella della perdita pro-rata, in capo ai creditori.

Dentro l’Unione europea l’affermarsi dello scenario ipotizzato da Johnson (la fine dei bailout senza se e senza ma) avrebbe come conseguenza quasi immediata un aumento dei differenziali di rendimento richiesti dal mercato sui titoli di stato Non che questo fenomeno non sia già in atto, a dire il vero: prima dell’inizio della crisi paesi come il nostro, con il loro imponente stock di debito, avevano un premio al rischio molto basso. Bastavano venti centesimi di punto percentuale in più del Bund tedesco per comprarsi un Btp decennale. Oggi siamo intorno a ottanta centesimi, e quel differenziale appare la nuova soglia di equilibrio compatibile con un mondo di investitori che, bene o male, stanno prendendo coscienza che il rischio esiste, e che i debitori non sono tutti uguali. Il prossimo passo potrebbe essere l’ulteriore innalzamento di questo premio al rischio, a crisi terminata, a carico dei paesi che sembrano dare le minori garanzie di solvibilità nel lungo termine.

In questo scenario, due conclusioni emergerebbero: la prima è che, contrariamente ad una ormai logora vulgata, non è vero che un paese membro dell’Unione monetaria europea non possa andare in default; la seconda è che i paesi che hanno un debito elevato e crescono strutturalmente meno di altri, finirebbero con l’essere posti in prima linea nell’elenco dei sospettati. Parlare a Dublino affinché Roma intenda?

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