CARTELLINO ROSSO!!!
CRISI: GRECIA; GUARDIAN, TROVATO ACCORDO MISURE SALVATAGGIO
E TRONISTI QUANTI NE SERVONO?
Ho la mia bella convenienza!!!!!
Messaggio di Nostra Signora Regina della Pace n°3270 23.01.2010 Amati figli, non vi preoccupate. Dio è al controllo di tutto. Confidate pienamente nella Sua Misericordia e sarete vittoriosi. Io sono la vostra Madre e vengo dal cielo per chiamarvi alla conversione. Non perdetevi d'animo. Restate fermi sul cammino che vi ho indicato nel corso di questi anni. Siate mansueti ed umili di cuore. Aprite i vostri cuori ed accogliete i Miei appelli. Non restate in silenzio. Portate i Miei appelli al mondo. Grande sarà la ricompensa per quelli che divulgano i Miei messaggi. Dio ha fretta. Ritornate adesso, poichè il vostro tempo è breve. L'umanità cammina verso l'abisso dell'autodistruzione che gli uomini hanno preparato con le proprie mani. Un doloroso evento accadrà nella città di San Paulo. Dolore più grande non fu mai. Piegate le vostre ginocchia in orazione. Solamente pregando potrete sopportare il peso delle privazioni che già sono in cammino. Coraggio . Restate con il Signore. Questo è il messaggio che oggi vi trasmetto nel nome della Santissima Trinità. Grazie per avermi permesso riunirvi quì ancora una volta. Io vi benedico, nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Amen. Restate in pace.
CRISI: GRECIA; PROVOPOULOS, PIL -2%,CALO OLTRE STIME GOVERNO
Sovranità e protezionismo
Il pensiero economico, fin dalle origini, ha spiegato lo scambio ricorrendo a parametri soggettivi - come il concetto di utilità, che è legato alla percezione reale o soltanto illusoria di un bisogno - oppure oggettivi - come la valorizzazione del lavoro socialmente necessario a produrre una certa merce. Il secondo approccio, tipico della scienza marxista, spiega non soltanto la sostanza dello scambio tra produttori all’interno del sistema, ma offre un fondamento teorico anche all’analisi dell’interscambio, cioè allo scambio tra sistemi. Infatti, partendo col distinguere tra prezzo e valore della merce, dimostra come la concorrenza e la ricerca del profitto, attraverso l’innovazione tecnologica e l’estensione della capacità produttiva, conducano all’apertura al resto del mondo.
Basandosi sulla teoria del valore lavoro, Karl Marx (1867) introduce, in primo luogo, il concetto di merce, che identifica ogni bene economico nella misura in cui viene prodotto non per uso personale ma per essere appunto scambiato con denaro o con altre merci. In secondo luogo, distingue tra prezzo e valore e della merce. Il prezzo si forma sul mercato, prevalentemente in base alla domanda e all’offerta. Sappiamo infatti che incidono anche altri fattori, talvolta complessi, come la speculazione legata a particolari eventi (es. guerra, catastrofi) o fasi della congiuntura (es. aspettative di rialzo o ribasso). Esistono inoltre forme diverse di concentrazione tra imprese che impongono un certo prezzo a prodotti e fattori produttivi. Considerata la varietà delle forme di scambio e l’eterogeneità dei fattori che influenzano il prezzo, Marx identifica un valore al di sotto del quale il prezzo di una merce non può scendere, cioè il tempo di lavoro necessario a produrla secondo la tecnologie esistenti e diffuse nella società in una determinata epoca. Secondo questo approccio lo scambio riguarda non i beni ma il lavoro necessario a produrli. Appare equo nella misura in cui i due produttori abbiano impiegato lo stesso tempo a produrre le merci. Ne risulta penalizzato il produttore che impiega più tempo, cioè quello tecnologicamente più arretrato o meno produttivo. Di conseguenza, laddove il conflitto competitivo comprime i prezzi, la ricerca di un maggiore profitto può essere perseguita in due modi. Poiché il sistema capitalista mercifica anche la capacità di svolgere ogni attività manuale o intellettuale, è possibile ridurre il costo della merce lavoro fino al suo valore limite, che è il tempo socialmente necessario a produrre i beni necessari alla sussistenza ed alla formazione del lavoratore. In alternativa la realizzazione del profitto può essere perseguita con l’introduzione di tecnologie che riducono i tempi di produzione. L’innovazione determina sempre e comunque un’estensione della capacità produttiva, e ciò impone la ricerca costante di nuovi mercati. Così il sistema si apre allo scambio con altri sistemi. Considerata la reale impossibilità che nel mondo contemporaneo possano esistere sistemi economici chiusi - a livello nazionale come a livello macroregionale - l’interscambio può essere sottoposto a restrizioni, ma non certo annullato. Esso consiste sia nel commercio di prodotti e servizi, sia nel trasferimento di capitali. I due fenomeni sono correlati. Infatti i flussi commerciali - che sono determinati dalla distribuzione ineguale dei fattori produttivi e dalla diversa competitività dei prodotti - presuppongono sempre un insieme di movimenti monetari a pagamento delle transazioni effettuate. A loro volta i flussi monetari - che sono rappresentati dalla concessione di crediti e dai movimenti di capitali - incidono fortemente sulla realtà produttiva e occupazionale del sistema beneficiario, soprattutto quando servono a finanziarie investimenti in impianti industriali ed infrastrutture. Così il resto del mondo influenza i comportamenti degli operatori interni al sistema ma, nell’interesse di famiglie ed imprese, lo Stato può limitarne o condizionarne l’impatto, sia stipulando accordi commerciali preferenziali, sia ricorrendo al protezionismo. Col termine protezionismo viene indicato l’insieme di misure adottate da un governo per difendere i produttori nazionali dalla concorrenza straniera. Le misure protezioniste si distinguono a seconda che incidano direttamente o indirettamente sui flussi commerciali. Tra le prime ricordiamo l’aumento dei dazi doganali all’importazione (barriere tariffarie), la fissazione di limiti alla tipologia o alla quantità di prodotti stranieri che possono essere importati (contingentamento o quota system), la messa in atto di procedure amministrative che rendano lento e complesso l’ingresso nel Paese di merci straniere e i relativi pagamenti (barriere non tariffarie). Le misure protezioniste indirette prendono la forma di sussidi di vario tipo ai produttori nazionali: citiamo ad esempio le facilitazioni creditizie, i finanziamenti a basso tasso d’interesse, l’accesso esclusivo a commesse pubbliche. La facoltà dello Stato di adottare misure protezionistiche è tra le forme di esercizio sovranità territoriale. Lo Stato ha il diritto di esercitare in modo esclusivo il potere di governo sulle risorse economiche del suo territorio. Tale principio è sancito dalla norma consuetudinaria sulla sovranità territoriale ed è stato più volte enunciato dall’Assemblea Generale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU), sia in specifiche risoluzioni, sia nella celebre dichiarazione intitolata Carta dei diritti e dei doveri economici degli Stati (1974) secondo cui “ogni Stato possiede ed esercita liberamente una sovranità completa e permanente su tutte le ricchezze, risorse naturali ed attività economiche” (art.2) ed ha il diritto di “scegliere liberamente il proprio sistema economico, oltre che i suoi sistemi politici, sociali, culturali, conformemente alla volontà del suo popolo, senza influenza, pressione, o minaccia esterna di alcuna specie” (art.1), nonché di “scegliere i suoi obiettivi di sviluppo, di mobilitare e di utilizzare integralmente le sue risorse, di operare delle riforme economiche e sociali progressive e di assicurare le piena partecipazione del suo popolo al progresso ed ai vantaggi dello sviluppo (art.7). Ciò significa che uno Stato, in quanto espressione legittima di una comunità nazionale, è libero di regolare come crede le attività produttrici di ricchezza che si svolgono sul suo territorio. Gli unici limiti fissati dall’ordinamento giuridico internazionale riguardano il rispetto degli stranieri e dei loro beni che si trovino all’interno delle frontiere. I contenuti della sovranità territoriale incidono sulla mobilità delle risorse e l’apertura degli operatori a relazioni extrasistemiche. Il diritto internazionale generale non limita in alcun modo la libertà dello Stato di regolare il transito di beni attraverso le sue frontiere e di controllare i flussi monetari corrispondenti. Ogni restrizione all’esercizio della sovranità territoriale può derivare soltanto da norme convenzionali, cioè da accordi siglati dai governi. E’ l’operatore Stato che consente una maggiore o minore apertura di un sistema economico nazionale all’interscambio con i Paesi stranieri. Oppure sono gli organi di un istituzione sovranazionale, cui gli Stati hanno trasferito le proprie competenze in materia di commercio estero, che decide in merito all’apertura di un sistema economico macroregionale al resto del mondo. Le origini della cooperazione intergovernativa in materia commerciale sono assai remote. Una fitta rete di intese bilaterali venne sviluppandosi fin dal XII secolo tra i sovrani d’Europa e d’Oriente. I trattati di amicizia, commercio e navigazione, stipulati nel medioevo ed agli albori dell’età moderna, stabilivano i principi generali che avrebbero dovuto animare l’interscambio di merci tra le parti contraenti per la durata di anni o addirittura decenni. In materia doganale la prassi inizialmente seguita consisteva nel fissare l’ammontare dei dazi che sarebbero stati percepiti senza che le parti potessero modificarli per tutta la durata dell’accordo (dazi consolidati o incatenati). Col tempo questa forma di accordi fu abbandonata e gli Stati cominciarono ad adottare tariffe doganali nazionali riservandosi di concedere particolari riduzioni ad altri Stati in base ad accordi bilaterali. Essi conservavano la libertà di aumentare o diminuire l’ammontare dei dazi nazionali nel corso dell’accordo, mantenendo tuttavia lo scarto concordato col Paese amico. Per quanto importanti potessero risultare le concessioni tariffarie attribuite sulla base di accordi bilaterali, nel corso dei negoziati i governi erano indotti a chiedere, non solo un equo trattamento per le proprie merci, ma anche lo stesso regime preferenziale eventualmente riservato ad altri Paesi amici. Così è andata imponendosi la prassi internazionale di includere negli accordi commerciali bilaterali la cosiddetta clausola della nazione più favorita, secondo cui il trattamento che una delle parti contraenti rivolga ad uno Stato terzo si estende automaticamente, ove sia più favorevole, anche all’altra parte contraente. Questa clausola risale al trattato di pace e commercio stipulato tra Federico II ed il sovrano di Tunisi nel 1231. Ma si è diffusa soprattutto durante il secolo XIX, quando si era soliti condizionare l’estensione all’altra parte contraente del trattamento favorevole concesso ad uno Stato terzo solo nel caso in cui detta parte offrisse gli stessi benefici di cui godeva nei suoi rapporti con altri Stati. Dopo la prima guerra mondiale è prevalsa la tendenza ad estendere la clausola in maniera incondizionata, salvo alcune restrizioni riguardanti il rispetto di particolari regimi preferenziali - ad esempio un’unione doganale - eventualmente in vigore tra una parte contraente e Stati terzi. Sebbene non possano esistere sistemi chiusi ed i governi abbiano sempre cooperato per lo sviluppo del commercio internazionale, tuttavia il grado e le forme di apertura di un sistema al resto del mondo possono variare a seconda della congiuntura e trovare giustificazioni varie. Tutte le teorie sul commercio mondiale si basano su due fondamentali principi. Il primo presuppone che i sistemi economici nazionali non sono mai autosufficienti e si aprono necessariamente alle relazioni internazionali (principio della interdipendenza). Il secondo afferma che ciascun Paese tende a specializzarsi nella produzione di determinati merci o servizi (principio della divisione internazionale del lavoro). Quali che siano i vantaggi che ne derivano, in termini di benessere individuale e collettivo, bisogna difendere e valorizzare, specie in momenti di crisi, la sovranità dello Stato sulle risorse economiche del suo territorio e, con essa, la facoltà di adottare misure protezioniste per difendere l’economia nazionale.
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I Pigs sono loro
Battaglioni Media all’attacco. E’ “Merkel’s nightmare” - “per la Germania la crisi della zona euro è un incubo” - titola il Financial Times. “Ora i membri dell’area euro litigano fra loro” commentano gli anglosassoni finto-soddisfatti. E aggiungono: “l’unica soluzione è che i Paesi non competitivi svalutino la propria valuta corrente”. Naturalmente. L’ “Effetto Domino” del quale da settimane andiamo trattando nella più completa indifferenza - o nella più stolida malafede - di certe analisi della stampa italiana, si è già iniziato. Sappiamo dell’Islanda (che si è però rifiutata, con l’orrore della City e del n. 10 di Downing St., di pagare gli interessi sugli interessi imposti dal Fmi); sappiamo della Grecia - strangolata dalla Goldman&Sachs ai tempi della gestione europea di Draghi - costretta a pietire elemosine Ue penalizzate da altre multe e nuovi interventi del famigerato Fmi; sappiamo del Portogallo, nuovo tassello del domino: il suo suicidio “lacrime e sangue” è già in corso... E sappiamo che questo attacco alle economie più deboli della zona euro è stato pianificato tra le due coste dell’Atlantico per difendere il dollaro e gli investimenti-scommessa (i “derivati”, gli “hedge funds”) della grande finanza speculativa internazionale. Soprattutto, come Vi descriviamo, nelle pagine centrali di questo numero di Rinascita, che la nuova crisi americana è alle porte e che questi sono i colpi di coda inventati per evitare un nuovo crack delle banche d’affari e degli speculatori-filantropi, gli amici di Prodi, come Georges Soros. Vi abbiamo anche svelato, fin dalla sua nascita, il significato dell’acronimo inglese “P.I.G.S.”, che identificava in Portogallo, Italia (o Islanda, o Irlanda), Grecia e Spagna, i “maiali” da colpire con gli attacchi speculativi. Noi di più non possiamo fare. La nostra voce è piccola e censurata da ogni rassegna, da ogni dibattito stampa, radio o televisivo (...non era certo così quando questo stesso giornale portava un altro titolo: ma questa è un’altra storia). Non vogliamo nemmeno invitarVi a mettere una firma in calce ad una qualche “petizione”: sappiamo bene dove sono finite le migliaia di firme inviate a Ciampi “presidente della Repubblica” del tempo di consenso al nostro appello per fermare l’intervento italiano alle guerre “umanitarie” di Serbia o di Iraq. Senza riscontro, ritenute carta igienica e giù archiviate con lo sciacquone... Ma qui ne va della vita di tutti, del nostro popolo. Possibile che non ci sia nessuno, proprio nessuno, dei Lorsignori, che abbia il coraggio di svegliarsi e di fare il bene del Paese? Sarebbe, per ora, sufficiente bloccare il crack prossimo venturo con una leggina piccola piccola che tassi le vergognose scommesse sul crollo dell’economia italiana... Una leggina piccola piccola, suvvia... Ministro Tremonti: dai libri, dalle belle parole, passi per una volta ai fatti.
Tante altre notizie su www.ariannaeditrice.itPERCHE’ LA CATASTROFE E’ INEVITABILE
La bambola gonfiata e quelle… gonfiabili
FINANZA/ Gli errori di Francia e Germania costeranno cari all'Italia
venerdì 12 marzo 2010
Non ci voleva Nostradamus per prevederlo e, infatti, puntualmente si è avverato: Tim Geithner, segretario Usa al Tesoro, ha chiaramente reso noto che Washington è pronta alla scontro se l’Europa porterà avanti il suo piano di regolamentazione dei mercati finanziari e, soprattutto, l’idea di mettere al bando il naked short sui cds legati ai debiti sovrani dei paesi dell’area euro.
Il passo, gravissimo per le relazioni transatlantiche, è decisamente ufficiale visto che è contenuto in una lettera inviata il 1° marzo scorso da Geithner al Commissario per il mercato interno europeo, Michel Barnier (quello che una settimana fa si chiedeva chi stesse speculando sulla Grecia, praticamente Diogene), nella quale si denuncia di fatto un intento protezionistico del Vecchio Continente: in base ai cosiddetti “elementi della terza nazione” contenuti nella bozza che gli euroburocrati stanno stilando sotto dettatura di Francia e Germania (con Grecia e, udite udite, Lussemburgo a fare da camerieri dei nuovi potenti), ci sarebbe di fatto il divieto di operare in Europa per i fondi speculativi, quelli di private equity e anche per le banche Usa, a meno che non accettino la nuova regolamentazione: ovvero, addio naked short sui cds.
Come già denunciato ieri, non si sa nemmeno cosa sarà vietato e cosa no, se solo l’attività di naked - ovvero la non disponibilità del sottostante che il cds andrebbe ad assicurare - rispetto ai bond oppure anche ad altri assets collegati al debito sovrano da cui ci si vuole difendere, ad esempio partecipazioni azionarie in aziende del paese “nel mirino”. Ma si sa, per l’asse renano il mercato è il male assoluto, quindi occorre regolare e punire.
Peccato che i primi da mettere in coda per la ghigliottina sarebbero proprio Francia e Germania, visto che stando a dati comunicati in un draft riservato della BaFin - l'ente che regola il mercato tedesco - che ilsussidiario.net ha potuto visionare a Londra, la crescita del rendimento dei bond greci all’inizio di quest’anno ha preceduto la crescita del valore dei cds e non il contrario, come qualche complottista della speculazione vorrebbe far credere.
Di più, fino a fine gennaio gli hedge funds possedevano cds sul debito greco pari a 9 miliardi di dollari, valore rimasto inalterato fino allo scoppio della crisi a fronte di un totale di 300 miliardi di dollari di bond greci emessi e collocati: una goccia nel mare, incapace di mandare a gambe all’aria un paese. Diversa la questione da metà febbraio in poi, quando proprio le banche europee - francesi e tedesche in testa - hanno cominciato a comprare cds sul default greco a man bassa: banche, giova ricordarlo, che se non sono di fatto nazionalizzate, possono comunque operare soltanto perché salvate nei mesi scorsi dal denaro dei contribuenti e della Bce. Inoltre, va ricordato che quello dei cds è un mercato di puri istituzionali e lo short sui bond lo si fa più semplicemente scommettendo sul rialzo del rischio del paese: quindi si va long di cds. Molte società di brokeraggio, ad esempio, seguono i corporate cds per valutare la rischiosità del titolo e di conseguenza settare i margini. Ma è un’altra la cosa che Parigi e Berlino fingono di non sapere, una vera e propria distorsione che si sta creando sul mercato. Se tu sei un soggetto istituzionale e sottoscrivi il bond della Grecia al 6.50%, ti puoi infatti coprire dal rischio con il cds: se tu sei invece un povero privato, semplicemente non puoi farlo. Questo perché il mercato lo fanno gli istituzionali e non i privati e, di conseguenza, il tasso del 6.5% non esprime affatto tutta la componente di rischio. Prima dell’avvento dei cds, invece, il tasso di un bond esprimeva risk free rate + rischio paese + inflazione: oggi la componente rischio paese è, di fatto, “prezzata” male poiché i flussi vanno sui cds e non sui bond stessi. Ma non dite queste cose a madame Lagarde, potrebbe aversene a male. Insomma, di fatto Parigi e Berlino vogliono vietare agli altri ciò che stanno lasciando allegramente fare alle loro banche in crisi nera, visto che in Germania la bomba a orologeria degli assets tossici è a quota 300 miliardi di euro e il progetto della bad bank in cui scaricarli è allegramente stato messo in ghiacciaia per mancanza di fondi. Ecco la moralità e l’onestà dei nuovi padroni d’Europa, i quali attraverso la Bild ieri hanno lanciato un chiaro attacco all'Italia bocciando la candidatura di Mario Draghi a capo della Bce, poiché «un uomo della Lira non può essere l’uomo dell'Euro», meglio il teutonico capo della Bundesbank, Weber, «persona che ha da sempre avuto a che fare con una valuta forte». Ma che, in fatto di mercato e competenza valutaria, non vale nemmeno la suola delle scarpe del governatore di Bankitalia. Il quale, però, sconta lo scandaloso silenzio del governo italiano rispetto a questo dibattito chiave per il futuro dell'Europa: capiamo che le idee di Giulio Tremonti siano molto simili a quelle di francesi e tedeschi rispetto alla necessità di regolare determinati strumenti finanziari (e forse questo ha portato Silvio Berlusconi ad assumere una sorta di interim silenzioso sulle scelte economiche), ma ora è giunto il momento di farsi sentire e battere i pugni sul tavolo. Esattamente come fece Margaret Thatcher a Fontainebleu quando ottenne il rebate: la Bce non può diventare la filiale allargata della Bundesbank, per Draghi è giusto e necessario lottare. Londra, dal canto suo, ha già fatto informalmente sapere di essere al fianco dell’Italia nel sostegno del candidato di Palazzo Koch. Anche perché in questa fase di shock generalizzato per le finanze pubbliche stiamo vivendo un pericoloso processo che vede minate alla fondamenta le rilevanze analitiche rispetto alle classificazioni convenzionali delle nazioni, ovvero i paesi cosiddetti industrializzati stanno - a causa del debito ormai a spirale - peggio a livello macro dei paesi cosiddetti emergenti, il Bric ma non solo. È un attimo, in una situazione simile, finire ai margini e nel mirino delle società di rating e, questa volta sì, dei raiders pronti a tutto per un po’ di denaro facile e veloce: Roma si svegli e lo faccia in fretta, invece di preoccuparsi per un “buffone” che cerca un po’ di notorietà facendo cagnara alle conferenze stampa. Diciamo chiaro e tondo a Germania e Francia che invece di invocare misure populistiche e controproducenti al fine di mascherare il fallimento nel bail-out greco da parte dell’Europa, si dovrebbe fare davvero qualcosa di serio e soprattutto condiviso: ripeto, la stessa BaFin certifica che Deutsche Bank, Commerzbank e le loro colleghe transalpine - Bnp Paribas in testa - si sono lanciate come avvoltoi - poi si lamentano degli vulture funds - sui cds del debito greco: questo mentre Sarkozy e Merkel giocavano a rimpiattino con il piano di salvataggio, un giorno negando e l’altro confermando, al fine di rendere instabile la situazione di Atene e far crescere spread e rendimenti: meriterebbero l’apertura di un’inchiesta formale in sede europea, ma essendo “loro” l’Europa, si autoassolveranno come sempre fanno i vincenti alla fine della guerra. Sono altre, volendo essere seri, le regolamentazioni da fare. Come, ad esempio, quella imposta dalla Fsa, l’ente di vigilanza del mercato britannico, alle banche d’Oltremanica, obbligate - avete letto bene, obbligate, l'Abi tenga a mente - a nuovi, durissimi stress tests per valutare la tenuta rispetto a uno scenario da double dip recession, ovvero la recessione a w: è il cosiddetto caso di “worst case scenario”, ovvero prepararsi al peggio. Che, magari, non arriverà mai, ma che è sempre meglio prevedere: la Bce e gli enti europei cosa dicono? Dormono forse? O sono troppo impegnati a dare la caccia agli speculatori cattivi, gli stessi hedge funds che vendono alle banche tedesche e francesi i cds greci, visto che si trattano su base privata e non in Borsa come le azioni? Lo scenario inglese da simulare per gli stess tests è da incubo: disoccupazione al 13,3% e contrazione dell’economia di un ulteriore 2,3% che porti il tendenziale annuo a qualcosa come l’8,1% di calo del Pil. Per passare il test la Fsa ha reso noto che la ratio del Core Tier 1, ovvero l'indicatore di riserva degli istituti, dovrà essere superiore al 4%. Questo avviene nei paesi seri, altrove ci si fa dettare le regole da dilettanti allo sbaraglio che non vogliono altro che l’egemonia sulla nuova Europa che va formandosi: è brutto dirlo, ma ora come ora Germania e Francia sono nostri nemici. E come tali andrebbero trattati fino a quando non torneranno a portarci un po’ di rispetto.
Usa, crack Lehman: accuse a dirigenti, altre banche e società di servizi
JPMorgan Chase e Citigroup hanno favorito il collasso di Lehman Brothers. Ad affermarlo è, questa mattina, Anton Valukas, esperto incaricato dalla giustizia americana di studiare le cause del clamoroso crack. L’analista, in un rapporto di 2.200 pagine che è stato reso pubblico dalla corte federale di Manhattan, spiega come chiedendo più collaterali e rivedendo gli accordi per l'offerta di garanzie, i due istituti di credito abbiano contribuito in modo decisivo a far precipitare la crisi di liquidità della banca.
Il rapporto tira anche in ballo numerosi ex dirigenti di Lehman, a partire dall’amministratore delegato Richard Fuld («il cui comportamento è stato per lo meno ampiamente negligente», si legge nel documento), per proseguire con i direttori finanziari Christopher O'Meara, Erin Callan e Ian Lowitt, che avrebbero avallato comunicati fuorvianti sullo stato del colosso bancario. In particolare, si sarebbe effettuata un’ampia manovra contabile che ha permesso «di sgravare il bilancio di 500 miliardi di dollari» nei primi sei mesi del 2008, al fine di mascherare l’ampiezza reale dell’indebitamento di Lehman.
Nel frattempo, arrivano le prime prese di posizione degli altri istituti coinvolti: Danielle Romero-Apsilos, una portavoce di Citigroup, ha spiegato che il rapporto è ancora al vaglio degli esperti del gruppo, ma che ad un primo sguardo «non è stato ravvisato alcun comportamento sbagliato da parte nostra».
Valukas - che ha impiegato un anno di tempo e 38 milioni di dollari per produrre il report, intervistando oltre 100 persone, compresi il segretario al Tesoro Timothy Geithner e il presidente della Federal Reserve Ben Bernanke - ha poi puntato il dito contro l’inglese Barclays, per le modalità di acquisizione di parte delle attività di Lehman successivamente al collasso, considerate in parte «improprie». Niente sconti, infine, anche alla società di servizi Ernst & Young, «per, tra le altre cose, la sua incapacità di mettere in discussione» le dichiarazioni dei dirigenti della banca.
http://www.valori.it/italian/finanza-globale.php?idnews=2137
CRISI: SPAGNA; BBVA CHIEDE A GOVERNO URGENTE TAGLIO DEFICIT
La forza delle argomentazioni – 3
Ci è voluto un po’ di tempo, ma alla fine l’argomentato attacco alla assai ipotetica candidatura di Mario Draghi alla guida della Banca Centrale Europea è arrivato. Il pulpito non è dei più qualificati (il quotidiano tedesco Bild), ma certo di grande presa popolare. Il tema dell’ortodossia monetaria è very pop in Germania, un po’ come quello dell’immigrazione da noi, dove può capitare di leggere titoli del tipo “I negri hanno ragione“, e Bild lo declina a modo suo. Il posto oggi occupato da Jean-Claude Trichet potrà andare solo ad un tedesco, e chi meglio di Axel Weber? Quanto a Draghi, lui è “un uomo della lira”, ma non solo: ha pure lavorato per Goldman Sachs, argomenta Bild.
Quest’ultima accusa, a onor del vero, è molto popolare anche da noi, ad uso e consumo di quanti ritengono che sia possibile ridurre l’ansia trovandosi un capro espiatorio, e poco importa che la parentesi di Draghi a Goldman sia terminata molto tempo addietro, o che egli non fosse (ovviamente) coinvolto in operazioni di finanza strutturata, avendo un ruolo di relationship istituzionale più o meno uguale a quello che nel corso degli anni hanno avuto Mario Monti, Romano Prodi e (udite, udite) Gianni Letta. Tornando ad Axel Weber, all’eroe senza macchia e senza paura della stabilità monetaria (mica come Draghi, che la notte di nascosto stampa banconote nella cantina di casa), potrebbero e dovrebbero essere girate le domande di Simon Johnson.
Weber, nel suo pluriennale ruolo di dominus e custode dell’ortodossia economica e monetaria tedesca, potrebbe ad esempio spiegare dov’era quando Deutsche Bank è diventata una delle banche con la maggior leva finanziaria al mondo, suggerisce Johnson. Oppure potrebbe spiegare il ruolo della Bundesbank, in quanto regolatore del sistema creditizio tedesco, nel caso di Hypo Real Estate, il buco nero di Germania. O ancora, la strenua resistenza tedesca alle proposte di incremento dei requisiti di capitale, e l’aver tenuto rigorosamente segreti i risultati degli stress test bancari europei, per evitare qualcosa di più dello stigma a carico di alcuni istituti non particolarmente virtuosi. E potrebbe forse anche spiegare il ruolo tedesco nel contesto di quella che Johnson definisce la politica monetaria fortemente prociclica dell’eurozona, che ha indirettamente favorito gli esportatori tedeschi.
Weber, è l’argomentazione di Johnson, in quanto ascoltatissimo consigliere economico dei governi di Berlino, è stato determinante nel perseguire un modello di policy basato sull’export e sulla stretta fiscale sistematica. Che notoriamente è cosa diversa da una politica fiscale anticiclica, tale cioè da risultare moderatamente espansiva in recessione e restrittiva in espansione (a somma zero, quindi), ma evidentemente per i tedeschi questi sono dettagli.
Al di là delle campagne dei giornali popolari, Berlino resta il crocevia dei destini dell’Unione monetaria europea, oltre che della sua evoluzione politica. Spetta ai tedeschi scegliere se continuare a spremere esportazioni dal Sud di Eurolandia (se e quando ciò potrà tornare ad accadere), salvo poi salire in cattedra nel momento in cui gli squilibri diventano insostenibili, oppure se puntare ad un vero coordinamento delle politiche economiche. Sperando che a Berlino riescano a comprendere che gli squilibri macroeconomici sono come il tango (cioè che occorre essere in due per ballare), e che un deficit non è altro che un surplus visto allo specchio.
Update: questi stessi concetti li ritrovate (ovviamente espressi meglio) in questo post di Edward Harrison per Naked Capitalism, che riprende lo schema dei saldi tra settore pubblico, privato e conto capitale, frequentemente utilizzato da Martin Wolf. La morale è che l’Europa, applicando la ricetta tedesca, va dritta ad infilarsi in un double dip.
BERNASCONI
In questo inverno senza fine anche i cinghiali galoppano in mezzo alla neve. Ieri l'S&P500 ha raggiunto i fatidici 1150 punti e precedente massimo annuale. Ormai anche gli ultimi indecisi partecipano a questo rialzo che rischia ora di restare a corto di carburante.
Ieri in Europa gli indici azionari sono rimasti vittima di prese di beneficio. In mancanza di ulteriori stimoli sono spariti anche i compratori. In America le borse sono rimaste tranquille ed invariate fino ad un'ora dalla chiusura. Poi la tentazione é stata troppo forte ed una breve ondata di acquisti concentrata sui titoli finanziari e sui futures ha fatto fare un balzo agli indici e permesso all'S&P500 di chiudere a 1150 punti (+0.40%). La tendenza a medio termine é rialzista e l'indice dovrebbe essere in grado di superare la resistenza a 1150 punti e salire sul prossimo obiettivo a 1170. I progressi tecnici sono però talmente buoni l'S&P500 potrebbe in aprile salire fino sui 1200 punti. A corto termine l'indice é però ipercomperato, gli investitori troppo euforici e la partecipazione é in diminuzione. Prevediamo quindi nela prossima settimana un sano ritracciamento di un 3% (1120 punti) prima della ripresa del rialzo. Le borse europee seguiranno e si comporteeranno di conseguenza. L'Eurostoxx50 potrebbe ridiscendere sui 2820 punti. Il cambio EUR/USD é salito a 1.3695. Il rialzo del dollaro dovrebbe nei prossimi mesi continuare in direzione del nostro obiettivo a 1.30 ma per ora dovrebbe fare una pausa. Un rimbalzo di alcune settimane verso gli 1.40 é probabile. L'oro oscilla senza trend a corto termine ed é risalito a 1112 USD/oncia. Dopo la buona chiusura a Wall Street ed il balzo del Nikkei (+0.81%) stamattina le borse europee inizieranno la seduta in rialzo del +0.4% cancellando le perdite di ieri. Oggi venerdì non ci aspettiamo ulteriori cambiamenti.
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Passiamo ora ad esaminare la situazione (charts a sei mesi) dell'S&P500.
L'S&P500 (+0.40% 1150 punti) ha fatto un balzo nell'ultima ora di contrattazioni chiudendo sul massimo giornaliero, massimo annuale e resistenza. La tendenza a medio termine é rialzista ma l'indice non dovrebbe sullo slancio superare la barriera dei 1150 punti. Prevediamo una pausa ed un ritracciamento fin verso i 1120 punti. Il rafforzamento degli indicatori a medio termine mostrano però un potenziale di salita dell'S&P500 nei prossimi mesi fino ai 1200 punti.
Scenario 2010 (aggiornato a marzo 2010) Nel corso del 2010 ed al termine di alcuni mesi di distribuzione prevediamo una sostanziale correzione delle borse dopo il rally di marzo 2009 - gennaio 2010. Probabilmento l'S&P500 toccherà nel corso di quest'anno un minimo tra i 740 ed i 820 punti. La performance annuale dovrebbe essere negativa e l'S&P500 dovrebbe terminare il 2010 intorno ai 900 punti. Ora che la recessione sembra alle nostre spalle, le stime ufficiali per per gli utili operativi 2009 (al 3 novembre 2009) delle societâ dell'S&P500 sono risalite a 56.22 USD. Quelle per il 2010 sono addirittura al'incredibile livello di 74.99 USD. Capitalizzando gli utili 2009 con un P/E normale di 15/16 si arriva ad un valore teorico dell'S&P500 di 900 punti. In questi dati é però scontato un recupero marcato dell'economia ed un forte aumento degli utili delle imprese. Ricordiamoci che gli utili operativi 2008 delle società dell'S&P500 sono stati di 15.09 USD. Debitiamo inoltre che i dati relativi al 2010 siano realistici. In America si differenzia tra Operating Earnings (i guadagni ripuliti da tutti quelli che il Management definisce perdite o guadagni straordinari) e i Reported Earnings (che sono i soldi guadagnati o persi dalla società indipendentemente dalla loro provenienza o causa). Fino all'inizio del 2000 tra questi due valori le differenze erano trascurabili. Poi é arrivata la moda di definire tutte le grandi perdite come eventi straordinari che non vengono più attribuiti alla normale attività della società. Il risultato é una sovrastima sistematica dei guadagni. Una prova? Le stime ufficiali per i Reported Earnings 2010 per l'S&P500 sono a 45.50 USD (contro i 74.99 USD di Operating Earnings). La capacità delle società di generare profitti viene sistematicamente gonfiata. Se un giorno gli investitori aprissero gli occhi si renderebbero conto che una oggettiva valutazione dell'S&P500 con i tassi d'interesse sul USTB a 10 anni al 3.70% (stato ad inizio marzo 2010) é sui 790 punti (nostro calcolo). Immaginatevi cosa potrebbe succedere se i tassi d'interesse aumentassero! Ammettiamo che stimare ora correttamente gli utili delle società e determinare un giusto rapporto P/E per capitalizzare questo valore é un'impresa ardua. Troppe sono le variabili e le incognite. La nostra valutazione tecnica e fondamentale é però che i 1150 punti di S&P500 raggiunti a gennaio 2010 corrispondono ad una sopravalutazione. La prossima dovuta sostanziale correzione ci dirà a quale punto si trova la congiuntura mondiale.
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