Allarme rosso: é in arrivo la seconda ondata dello tsunami finanziari

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di Matthias Chang - 28/12/2009 Fonte: Arianna Editrice [scheda fonte]

L’onda sta acquistando forza e potrebbe abbattersi tra il primo e il secondo quarto del 2010

A partire dall’ultimo quadrimestre del 2008, si è scatenata una guerra monetaria senza quartiere, tra le economie chiave a livello globale, e durante questo scontro, anche quelle che prima non lo erano, si sono trasformate in forze antagoniste, perché le differenze tra loro risultano inconciliabili. Le sue conseguenze sull’economia mondiale saranno devastanti e per le persone comuni, una disoccupazione di massa e una forte insicurezza sociale saranno inevitabili. I politici di questi paesi, che si trovano di fronte al collasso totale dell’architettura finanziaria internazionale, hanno concluso che l’unica soluzione possibile sia una massiccia “iniezione di denaro” per salvare le banche “troppo grandi per fallire” e dare una boccata d’ossigeno alle loro economie in depressione. Questo atteggiamento si riflette perfettamente nell’affermazione di Bernanke, secondo la quale «il governo degli Stati Uniti possiede la tecnologia, chiamata “capacità di emissione” (oppure oggi, la sua equivalente elettronica), che ci permette di mettere in circolazione la quantità di dollari che desideriamo, praticamente a costo zero”.

Questo è il cuore del problema!

Le differenze inconciliabili

Circa due decenni fa, venne deciso, dalle elite finanziarie globali, che le caratteristiche del sistema economico globale, fossero le seguenti:

1) Un sistema finanziario basato sugli strumenti derivati, controllato dalla Federal Reserve, e dalle sue banche associate, situate nei paesi sviluppati; 2) La rilocalizzazione in Oriente, a discapito dell’Occidente, della produzione di beni, in particolar modo in Cina e in India, per “alimentare” le economie di quei paesi.

Venne basato l’intero sistema su un’unica base; cioè, sulla riserva di moneta gestita dalla FED, la quale avrebbe guidato la crescita dell’economia globale. Di fatto, questa è l’idea base dell’imperialismo economico. Una volta appurata questa semplice verità, l’affermazione di Bernanke, «gli Stati Uniti possono mettere in circolazione tutti i dollari che vogliono, praticamente a costo zero», assume un altro aspetto. Ho parlato con moltissimi economisti e quando ho chiesto loro quale fosse il cuore dell’attuale crisi finanziaria, tutti mi hanno risposto all’unisono che «si tratta dello squilibrio globale…l’Occidente consuma troppo; mentre, l’Oriente risparmia troppo, senza consumare a sufficienza». Questo concetto appare chiaro se si guarda all’enorme deficit nella bilancia commerciale degli Stati Uniti, da una parte, e al gigantesco surplus della Cina, dall’altro. Tutti citano questa massima, ripetendola all’infinito, come un mantra. Le conclusioni del recente vertice APEC non sono state molto differenti. Insieme a questo, un altro mantra viene recitato all’infinito: maggiore liberalizzazione degli scambi commerciali tra le varie nazioni. Si tratta di un’enorme bufala. Tutti i leaders dei principali paesi del mondo sono corrotti fino al midollo, e per questo non hanno alcuna intenzione di chiamare le cose col loro nome, e di smascherare le contraddizioni insite nell’attuale sistema finanziario globale. I tentativi di creare un sistema geopolitico multipolare sono inutili, se l’intero sistema finanziario globale rimane basato sulla riserva monetaria unipolare di dollari statunitensi. Questa è la vera contraddizione interna all’attuale sistema, e i problemi che ne derivano non possono essere risolti con i Diritti Speciali di Prelievo del Fondo Monetario Internazionale, come auspicato da diversi Paesi. Tale progetto è nato morto. I leaders della Cina, del Giappone, e dei Paesi produttori di petrolio del Medio Oriente maledicono continuamente l’attuale situazione; ma, non hanno il coraggio di spiegare ai propri cittadini che sono stati truffati dagli stregoni finanziari della FED, i quali agiscono secondo le direttive della Goldman Sachs. Ditemi quale leader politico ammetterebbe mai di aver svenduto la ricchezza della propria nazione, in cambio di carta igienica? Così, la pantomima della carta igienica spacciata per denaro continua… Attualmente, ci troviamo in una situazione di tregua, nella guerra monetaria globale, non molto diversa da quella in cui eravamo durante la Guerra Fredda, tra i paesi della NATO e quelli del Patto di Varsavia. Entrambe le parti in causa erano terrorizzate dalla MAD (Paura della Distruzione Reciproca), figlia della minaccia di una guerra nucleare. I costi per entrambi erano enormi e fu solo dopo che l’Unione Sovietica non fu più in grado di sostenere i costi necessari a rappresentare un deterrente nucleare, e finì in bancarotta, che l’equilibrio si spezzò a favore dei paesi della NATO. In realtà, si trattò di una vittoria di Pirro, per gli Stati Uniti e i loro alleati. Quello che ha consentito loro di mantenere il predominio militare ed economico sull’Unione Sovietica, è stato il diritto di stampare “moneta- carta igienica”, e l’accettazione da parte degli alleati di Washington del dollaro come valuta di riserva globale. Ma la domanda è: perché questi paesi hanno accettato lo status quo, durante la Guerra Fredda? La risposta è semplice! Sono tutti stati ingannati dalla propaganda che diceva loro che senza la protezione del Grande Fratello, e della sua potenza militare, sarebbero stati distrutti dalla minaccia comunista; così, sono stati ammaliati dalla melodia suonata da Washington. La grande domanda successiva è: come mai i cosiddetti paesi “liberati” dall’ex alleato sovietico, sono saliti sul carro del vincitore? La risposta è altrettanto semplice! Hanno tutti creduto all’illusione, creata dalle grandi banche internazionali, con la Goldman Sachs in prima linea, secondo la quale, scambiando le proprie merci e i propri servizi, in cambio della “valuta di riserva-carta igienica” statunitense, si sarebbero assicurati una ricchezza e una prosperità senza precedenti. La mossa strategica più importante si è, però, svolta in Asia. Il Giappone, dopo un decennio di recessione, a seguito dell’esplosione della bolla immobiliare, non era in grado di competere al nuovo gioco, come era stato previsto dagli strateghi finanziari della Goldman Sachs. La maggiore beneficiaria di tale situazione fu la Cina. Il gruppo dirigente della Goldman Sachs negoziò un accordo segreto con i leader cinesi, per il quale, in cambio della maggiore iniezione di dollari e una gigantesca rilocalizzazione di produzione di beni industriali, Pechino avrebbe investito il suo consistente surplus finanziario in “valuta-carta igienica” statunitense, in forma di fondi pensionistici e di altri strumenti del debito americani. Questa è stata la necessaria condizione per la creazione del casinò finanziario globale, che ha portato il gioco a un livello superiore. Perché?

Il Nuovo Gioco

Gli strateghi finanziari della Goldman Sachs avevano un progetto ambizioso – assumere il controllo del sistema finanziario mondiale. Lo strumento utilizzato per ottenere questo enorme potere finanziario è stato il “Sistema Bancario Ombra”, che ha dato vita al mercato degli strumenti finanziari derivati e la cartolarizzazione degli assetes, reali o virtuali. I guadagni ottenuti in questa maniera furono enormi, stimabili in centinaia di trilioni di dollari, e il modo in cui i mercati vennero trasformati fu possibile solamente alzando il livello del gioco, in tutti i settori finanziari. Il fatto è che esiste un fattore di debolezza insito in questo progetto - la minaccia di inflazione, più precisamente dell’iperinflazione. Questa enorme quantità di liquidità nel sistema, causa inevitabilmente la svalutazione della riserva monetaria, e di conseguenza, fa crollare la fiducia nell’intero sistema. Di qui, la necessità di ideare un metodo per tenere sotto controllo l’inflazione dei prezzi e creare l’illusione che sia possibile continuare a mantenere saldo il potere d’acquisto della “valuta- carta igienica” di riserva. E’ qui che entra in gioco Cina; una volta che essa è diventata la “fabbrica del mondo”, il problema è risolto. Quando per produrre una giacca prima era necessario spendere 600 dollari, ora bastano meno di 100 dollari, e un paio di scarpe meno di 5 dollari, i registi occulti conclusero che non vi erano più ostacoli alla più grossa speculazione finanziaria della storia. La Cina acconsentì allo scambio, avendo miliardi di bocche da sfamare e centinaia di milioni di posti di lavoro da trovare, per far sì che il sistema potesse reggere. La differenza è che Pechino è stata abbastanza pragmatica da creare due “sistemi economici” – uno interno basato sullo yuan e uno per le esportazioni basato sul dollaro – con la speranza che i profitti e i benefici ottenuti dall’economia per l’esportazione avrebbe permesso di trasformare il mercato interno, rendendo stabile, in modo che, nel tempo, possa sostituire un’economia ormai totalmente dipendente dalle esportazioni. Si trattò di un patto col diavolo; ma, in quel momento storico non vi erano alternative concrete; soprattutto, dopo il collasso dell’Unione Sovietica.

Il successivo livello del gioco

Il livello successivo del gioco coincise con la trasformazione della “riserva monetaria- carta igienica” in realtà letteralmente virtuale – attraverso un semplice click di un mouse dei computer delle banche internazionali. I grandi capi della Goldman Sachs, e delle altre grandi banche, erano ben contenti di lasciare il sistema precedente, degno di Las Vegas, per sposarne uno degno della mafia, e trasformare i loro miliardi in utili. Si trattò di una manovra finanziaria che andò ogni oltre ogni loro più audace desiderio. Tra di loro si autodefiniscono anche i “Signori dell’Universo”. Creare un’ enorme massa di debito fu il nuovo gioco, che permise a questi signori di aumentare i loro guadagni di oltre 40 volte. Gli assets vennero foraggiati da enormi quantità di liquidità. Il problema è che gli stregoni finanziari hanno fallito nel calcolare, o forse hanno sottostimato, i capitali necessari per partecipare a questo gioco. Hanno resuscitato l’ingegneria finanziaria – la cartolarizzazione dei capitali. E quando i capitali reali erano insufficienti, ne crearono dei virtuali. Molto presto, titoli tossici vennero considerati come strumenti legittimi per partecipare al gioco, tanto che diventò presto possibile utilizzarli, senza riuscire a risalire ai loro originali creatori. Per un certo periodo sembrò che gli stregoni finanziari avessero trovato il modo di finanziare adeguatamente il casinò finanziario globale. Purtroppo, la giostra si è fermata e la bolla è esplosa! E come si suol dire il resto è storia.

Il rimedio della Goldman Sachs

Quando le perdite sono calcolabili in trilioni di dollari, e quando i capitali rimasti ammontano invece a milioni di dollari, si ha un enorme problema – un buco nero finanziario. Il rimedio preferito dai padroni della Goldman Sachs fu quello di creare un’altra illusione – se le banche internazionali crollassero, causando il collasso dell’attuale sistema finanziario, ci sarà una vera e propria Apocalisse. Queste banche “troppo grandi per poter fallire” hanno avuto bisogno di ingenti iniezioni di denaro virtuale per ricapitolarizzarsi e per far scomparire i titoli tossici dai loro bilanci. Tutte le banche centrali dei principali paesi sviluppati si sono accodati al coro della Goldman Sachs, sostenendo qualunque teoria, pur di legittimare questo piano di salvataggio. In sostanza, quello che è accaduto è un semplice trasferimento di denaro dalla tasca sinistra a quella destra, con un’evidente torsione della realtà, cioè sostenendo che erano le banche in realtà a salvare i governi dalla crisi. La FED e le altre più importanti banche centrali, decisero di prestare “denaro virtuale” a queste banche “troppo grandi per fallire”, a tasso zero, o quasi zero, ottenendo in cambio che questi istituti lo depositassero presso i loro forzieri, a tassi concordati. Queste transazioni avvengono, ovviamente, puramente sulla carta. Altri “prestiti” da parte della FED e delle maggiori banche centrali (nuovamente a tasso zero, o quasi zero) sono stati elargiti a fronte dei debiti pubblici dei vari stati, i quali li hanno utilizzati da stimolo per rilanciare l’economia reale e creare posti di lavoro, a fronte di una disoccupazione in continua crescita. In sostanza, queste banche hanno prestato denaro, a costo zero, ai governi, a fronte di tassi concordati in precedenza, senza alcun rischio. E’ un inganno! Non si tratta di denaro “reale”; bensì, di movimenti virtuali. Quindi, quando la FED inietta nel sistema bancario trilioni di dollari, in realtà, non fa altro che addebitare tale cifra sui conti che queste banche “troppo grandi per fallire” hanno presso di essa. Quando questo sistema viene applicato al commercio internazionale, lo stesso avviene per pagare le merci che vengono prodotte in Cina, in Giappone, ecc. Per il resto del mondo, quando si acquistano beni commerciati in dollari, quei paesi devono produrre beni e servizi, venderli in cambio di dollari, allo scopo di poter acquistare materie necessarie alle loro economie; quindi, devono produrre beni concreti, per ottenere ciò di cui necessitano. Di contro, tutto quello che gli Stati Uniti devono fare è creare denaro dal nulla e utilizzarlo per pagare le loro importazioni. Washington può utilizzare tale strategia perché ha una capacità militare tale da poter creare e rafforzare tale inganno. Come affermato in precedenza, tale status quo è stato accettato passivamente, specialmente durante la Guerra Fredda, e con qualche riluttanza dopo il crollo dell’Unione Sovietica; ma con la previsione che gli Stati Uniti sarebbero diventati i “consumatori finali del mondo”. Questa idea era di conforto a molti paesi produttori; infatti, coloro che avevano venduto le loro merci agli Stati Uniti, sarebbero stati in grado di utilizzare i dollari così guadagnati per comprare altri beni dagli altri paesi, soprattutto per il fatto che l’ 80% delle merci mondiali viene commerciato in dollari, compreso il petrolio greggio, la linfa vitale del sistema economico globale. Con gli Stati Uniti in bancarotta, e i loro cittadini (i maggiori consumatori al mondo) incapaci di reperire ulteriore denaro per acquistare beni di consumo dalla Cina, dal Giappone, e dal resto del pianeta, la domanda di dollari è evaporata. Lo status di dollaro come valuta di riserva mondiale, e, di conseguenza, la sua indispensabilità, è stato seriamente messo in discussione.

La mano finale

Gli effetti dell’attuale crisi possono semplicemente essere così riassunti: Un Paese in bancarotta (gli Stati Uniti) dovrebbe essere in grado di utilizzare denaro creato dal nulla per pagare beni prodotti con sudore e lacrime da parte dei cittadini dei paesi esportatori? Aggiungendo il danno alla beffa, gli stessi dollari sono ora richiesti molto meno di prima; quindi, qual è a questo punto il vantaggio di venire pagati con valuta che si svaluta continuamente e a grande velocità? D’altra parte, gli Stati Uniti stanno dicendo al mondo, specialmente ai cinesi, che se non piace lo status quo, niente impedisce loro di vendere agli altri paesi, accettando le loro valute; ma, se vogliono vendere i loro beni agli statunitensi, devono per forza accettare la loro “valuta-carta igienica”, e il loro diritto a creare denaro dal nulla! Si tratta della mano di poker definitiva, al termine della quale i perdenti subiranno gravi perde e terribili conseguenze finanziarie. Ma chi ha in mano le carte vincenti? Sicuramente non gli Stati Uniti; ma, nemmeno la Cina le ha. Questa situazione commerciale a livello internazionale non potrà durare ancora a lungo; di conseguenza, qualunque carta, Washington o Pechino, mettano sul tavolo, per godere di vantaggi strategici, qualunque risultato otterranno, produrrà benefici solo sul breve periodo e sarà vano, in quanto, sul lungo periodo non saranno in grado di risolvere positivamente le contraddizioni sistemiche di fondo. Quando la sopravvivenza dell’intero sistema dipende dalla disponibilità del credito (cioè, dalla possibilità di accumulare sempre maggiori debiti) è solo una questione di tempo, prima che sia i creditori che i debitori giungano alla conclusione inevitabile che quel debito non potrà mai essere pagato; di conseguenza, se il creditore vuole incassare comunque il suo avere, deve obbligatoriamente ricorrere a strumenti drastici. Sarebbe curioso ritenere che gli Stati Uniti accettino senza fare una piega di essere esclusi dalla partita. Quando arriveremo a quel punto, la guerra mondiale sarà inevitabile, e gli schieramenti saranno: USA- Gran Bretagna- Israele contro il resto del mondo.

Il preludio alla partita finale

L’economia statunitense entrerà in una spirale fuori controllo, nei prossimi mesi, raggiungerà il punto critico alla fine del primo quadrimestre del 2010, per implodere nel secondo quadrimestre. Le iniezioni da trilioni di dollari hanno mancato l’obiettivo di rilanciare l’economia reale. Pur tenendo il paziente in vita, ci sono diversi segnali che molti organi vitali stanno smettendo di funzionare. Ci sarà un’altra ondata di sfratti e requisizioni di appartamenti e di attività commerciali, tra dicembre di quest’anno e l’inizio del 2010; inoltre, le proprietà espropriate nel 2009 faranno crollare il valore degli immobili, una volta messe all’asta. I bilanci delle banche segneranno pesanti deficit, che i “guadagni record” degli ultimi due quadrimestri del 2009 non riusciranno a coprire. Data questa situazione, la FED sarà in grato di continuare ad acquistare titoli garantiti da mutui, allo scopo di sostenere i mercati? La FED ha già speso trilioni di dollari per acquisire i mutui di Fannie Mae e di Freddie Mac, senza acquirenti potenziali all’orizzonte. Al momento, il suo bilancio contiene titoli “tossici”, proprio come quelli delle banche “troppo grandi per fallire”, che ha salvato. In questa situazione, non ha alcun senso affermare che il peggio è passato, e che l’economia globale è sulla strada per uscire dal tunnel. Il chiaro segnale che non stia andando tutto per il meglio, è rappresentato dal recente discorso del presidente della Federal Reserve di New York, William Dudley, tenuto a Princeton, nel New Jersey, nel corso del quale ha affermato che la FED fronteggerà il rischio futuro di mancanzad i liquidità, fornendo una “moratoria” per quelle aziende insolventi, che siano in grado di esibire sufficienti garanzie. Questo avvertimento, che è al contempo una rassicurazione, merita qualche riflessione. Primo, è un’evidente contraddizione affermare che aziende insolventi, con sufficienti garanzie, possano imbattersi in una crisi di liquidità tale da aver bisogno del soccorso della FED; infatti, rappresenta un’ammissione del fatto che le banche non sono sufficientemente capitalizzate, e che quando la seconda ondata dello tsunami finanziario le colpirà nuovamente, saranno incapaci di reagire. Dudley ha anche affermato che «la banca centrale potrebbe trasformarsi nel prestatore finale…(cosa che ridurrebbe) il rischio di diffusione del panico, che colpisce gli istituti di credito, a causa dell’incertezza di ciò in cui credono gli altri creditori». Per tradurre “alla brutta” queste parole, sta dicendo che la FED si adopererà per evitare nuovi episodi come il crollo della Bear Sterns, della Lehman Bros. e della AIG; inoltre, significa che le altre grandi banche sopravvissute sono in grossa difficoltà. E’ altresì da rilevare che un’indagine di Bloomberg riportava, a inizio novembre, che la Citigroup Inc. e la JP Morgan Chase hanno attivi di cassa. La prima ha quasi raddoppiato la propria liquidità di cassa, fino a 244,20 miliardi di dollari; per la seconda, la cifra è di 453,60 miliardi. Tuttavia, nonostante questo aumento di liquidità, da parte delle principali banche, la Federal Reserve di New York ha dovuto rassicurare la comunità finanziaria, circa il fatto che sarà pronta a iniettare liquidità in modo massiccio, per sostenere il sistema. A questo punto, non dovrebbe sorprendere il fatto che il dollaro si stia rapidamente svalutando. Quando una moneta si svaluta, la volatilità dei mercati cresce; ma, i guadagni non valgono i rischi, e coloro che sono ancora sul mercato, verranno spazzati via durante il primo quadrimestre del 2010. Il tasso S&P è effettivamente salito di oltre il 25%; ma, tale incremento è quasi interamente dovuto alla salita del prezzo dell’oro. I guadagni sono rimasti al di sotto dell’aumento del tasso di inflazione negli Stati Uniti; cioè, un rendimento al netto dell’inflazione, al di sotto del 25%. Quando Meredith Whitney osserva che «non capisco cosa stia succedendo sui mercati; tutto ciò non ha senso, secondo me», questo significa che è il momento di uscire rapidamente dai mercati. In un rapporto, inviato ai propri clienti, la Societè Generale ha avvertito che il debito pubblico sarà enorme, nei prossimi due anni – il 105% in Gran Bretagna, il 125% negli USA e in Europa, e il 270% in Giappone. Il debito globale raggiungerà l’impressionante cifra di 45 trilioni di dollari. Ad un certo punto, questo debito dovrà essere ripagato. Come sarà possibile? Se la strategia di Bernanke proseguirà, la soluzione sarà quella di stampare ulteriore “valuta-carta igienica” per ripagarlo. Come risultato, la svalutazione della moneta continuerà ad aumentare, e questo non farà altro che alimentare ulteriormente le tensioni tra le economie antagoniste, e quando i creditori saranno stanchi di accettare questa “spazzatura”, aspettatevi reazioni estremamente violente!

Fonte: www.globalresearch.ca Traduzione: Manuel Zanarini

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Il futuro frugale che ci aspetta

di Mario Deaglio - 29/12/2009 Fonte: La Stampa [scheda fonte]
I sistemi economici non muoiono per malattie economiche, le Borse non possono continuare a cadere per sempre: dopo un certo periodo, la caduta produttiva si arresta e qualche forma di crescita riprende a seguito della pressione delle esigenze vitali della popolazione. Dopo le guerre e le più dure crisi finanziarie, i peggiori crolli di produzione e Borse sono stati nell’ordine del 40-50 per cento. Nella crisi attuale le autorità monetarie e di governo hanno fatto tesoro delle esperienze degli Anni Trenta e sono riuscite, «pompando» immani risorse nel sistema finanziario, ad arrestare, nella maggior parte dei Paesi avanzati, la contrazione del prodotto interno al 5-6 per cento e quella della produzione industriale al 15-25 per cento. Gli indici di Borsa, precipitati per un brevissimo periodo circa un anno fa, sono oggi di circa il 20-25 per cento sotto i massimi storici e continuano timidamente a risalire. Tutto ciò può sembrare un discorso consolatorio di fine anno sulla bravura di chi governa le principali economie mondiali, e invece proprio non lo è. Non c'è, infatti, molta relazione tra la bravura necessaria per tenere in vita il malato e quella per farlo guarire. Un medico bravo nel primo caso non è necessariamente bravo nel secondo e qualche segno di scarsa abilità nel gestire un rilancio credibile a livello mondiale sta cominciando ad affiorare. I più importanti di questi segni sono la scarsa attenzione, anche politica, al peso che potrà avere la disoccupazione e, per contro, l’eccessiva attenzione statistica al momento in cui la ripresa comincia a manifestarsi e la trascuratezza per le garanzie effettive che uno-due trimestri di ripresa molto pallida possano consolidarsi. Si è largamente sperato che, come altre volte in passato, una volta ripartita, la produzione rimbalzasse rapidamente all'insù come un elastico, secondo l'immagine usata da Friedman. Queste speranze per ora sono andate deluse. Almeno tre alternative oggi trascurate (apparentemente pessimistiche ma purtroppo realistiche) per l’evoluzione del prossimo anno vanno esaminate con serietà: la prima è che l’economia globale possa continuare a vegetare invece di tornare a crescere, portandosi dietro un numero crescente di affamati, oggi già più di un miliardo; la seconda è che le sue prospettive di crescita possano risultare stabilmente modificate in peggio dopo un ingannevole guizzo di ripresa; la terza è che la massa di risorse finanziarie messe in circolazione possa trasformarsi in altrettanto «veleno» e stimolare una grave inflazione planetaria. E ce n’è abbastanza per essere molto cauti. Per questo, in un finale d’anno ancora segnato dall’incertezza nonostante i progressi compiuti, oltre alla cautela è necessario un allargamento della visuale rappresentata dagli indici di Borsa di breve periodo. L’economista oggi non può chiudersi nel suo ufficio a macinare su un computer numeri - spesso di dubbia validità - né tanto meno lo può fare l’analista finanziario. Occorre invece ampliare il campo di osservazione estendendolo ai segnali extra-economici che possono interferire con l’economia. Nel cercare di fare previsioni, non possiamo chiudere gli occhi di fronte allo spettacolo di un’amplissima area, che va dall’Afghanistan e dal Pakistan fino alla Somalia, dove la globalizzazione è sulla difensiva e non sta certo accumulando vittorie né economiche né militari; il che proietta un’ombra sulla stabilità dei vitali rifornimenti di petrolio provenienti da quell’area e sul prezzo delle altre materie prime. E nascondiamo la testa nella sabbia se dimentichiamo che, in questo inverno duro e anomalo, i prezzi di molte materie prime agricole hanno già ripreso a salire fortemente: tè, cacao e zucchero fanno registrare record storici e tale tendenza potrebbe diventare generale sotto la spinta della crescente domanda dei Paesi emergenti e delle difficoltà, legate anche all’instabilità climatica, di espandere in maniera sensibile l’offerta. Un altro potente segnale di instabilità deriva dall’attentato a un aereo americano nel giorno di Natale. Per quanto fisicamente fallito, ha raggiunto l’obiettivo di far dirottare immediatamente ulteriori risorse dalla produzione alla sicurezza. Rispetto a una settimana fa, oggi viaggiare in aereo costa di più in termini di tempo (in America per ottemperare alle nuove misure l’aspirante passeggero deve arrivare all’aeroporto quattro ore prima della partenza) e sicuramente tra poche settimane l’aumento nei costi di prevenzione degli attentati si ripercuoterà sul prezzo dei biglietti. Si noti bene che accettiamo non solo di pagare di più ma anche di essere meno liberi: chi vuol volare in America deve acconsentire a farsi fiutare dai cani, essere disposto a togliersi le scarpe e quant’altro e i cittadini americani hanno già accettato che la loro corrispondenza elettronica possa essere legalmente letta dai servizi di sicurezza. Tutto ciò deve indurre a un atteggiamento più sobrio e più responsabile al posto di una fiducia quasi caricaturale in una ripresa indolore e con pochi problemi che ci riporti al precedente Regno di Bengodi. E’ degno di nota che alcuni operatori finanziari hanno prefigurato un «futuro frugale» (Merrill Lynch) e una «nuova normalità» (la Pimco, società di gestione di fondi), ossia un assetto sociale che sostanzialmente non può più permettersi le sicurezze e le opulenze di qualche anno fa. The Economist e altri periodici di grande influenza discutono in termini non certo trionfalistici su ciò che può avvenire dopo la tempesta. Tutto ciò trova un contrappunto in numerose, autorevoli voci non economiche che parlano di «sobrietà» necessaria nei Paesi ricchi e non solo in campo economico; in questo contesto occorre segnalare, tra le altre, le parole del Presidente della Repubblica e quelle del Pontefice. Insomma, non se ne può proprio più dell’attenzione spasmodica a listini azionari che rappresentano sempre meno la realtà dell’economia e a dati statistici destinati a essere corretti, in genere in peggio, nel giro di poche settimane. Si può però ragionevolmente sperare che il Nuovo Anno porti a nuove cautele e più ampi orizzonti, a nuovi progetti di crescita mondiale da attuarsi in tempi medio-lunghi, meno squilibrati di quelli di un passato recente.
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IL CASO/ Chi vincerà la guerra tra Ryanair ed Enac?

martedì 29 dicembre 2009

Nuove turbolenze nel mercato aeronautico italiano: Ryanair, primo vettore per passeggeri trasportati sulle rotte internazionali da/per l’Italia e secondo, dopo la nuova Alitalia, sulle rotte domestiche, ha comunicato la sospensione dal prossimo 23 gennaio di tutti i voli sulle rotte interne italiane in reazione alla richiesta dell’Enac, l’ente di regolazione tecnica del trasporto aereo, che impone a Ryanair di accettare una molteplicità di documenti per l’identificazione dei passeggeri al momento dell’imbarco.

La questione, in sintesi, è la seguente: Ryanair, che effettua check in solo online, richiede per l’imbarco su voli nazionali la stessa tipologia di documenti prevista a livello comunitario per quelli internazionali, cioè carta d’identità o passaporto, mentre l’Enac, applicando una norma nazionale che fu approvata con ben altri intenti (quello di semplificare i rapporti tra cittadino e P.A.), richiede che tutti i vettori accettino anche altre tipologie, quali ad esempio le patenti di guida, le patenti nautiche e, sembrerebbe, persino le licenza di pesca.

Ryanair si rifiuta, sostenendo che tali tipologie abbasserebbero gli standard di sicurezza, e ha conseguentemente sospeso tutti i suoi voli nazionali dal prossimo 23 gennaio, interrompendo le prenotazioni e comunicando la decisione ai passeggeri già prenotati. Ryanair ritiene illegittima la posizione di Enac ed è pur vero che accanto alla motivazione ufficiale vi è probabilmente anche il fatto che non intende accollarsi i costi per adeguare le sue procedure, ma si tratta di una posizione ragionevole per un vettore che ha fatto dei voli a prezzi stracciati il suo cavallo di battaglia e ha reso il trasporto aereo alla portata di tutte le tasche. L’Enac d’altra parte si affida alle norme italiane per giustificare la propria posizione.

Chi ha ragione? Da un punto di vista strettamente normativo sicuramente l’Enac, dato che se c’è una legge in tal senso va rispettata. Tuttavia non ci si può sottrarre a un esercizio di valutazione della norma: la legalità è il rispetto delle leggi, ma le leggi che vogliono farsi rispettare dai cittadini debbono anche essere eque e razionali, come già Aristotele aveva ben chiaro nell’Etica Nicomachea: “È giusto sia ciò che è legale sia ciò che è imparziale, è ingiusto sia ciò che è illegale sia ciò che è iniquo”.

Rispettare la legge è giusto, ma anche la legge che rispettiamo deve essere equa e razionale. Ci si attende quindi che se una legge ha contenuti non più attuali, perché divenuti nel tempo controproducenti o assurdi, dovrebbe essere cambiata al più presto e che un ente di regolazione dovrebbe, sulla base della sua competenza tecnica, chiedere con urgenza tali modifiche al legislatore anziché correre il rischio che l’applicazione delle norme generi effetti non previsti e non desiderati dallo stesso legislatore che le aveva emanate.

Nel caso specifico è lecito dubitare che il legislatore, abilitando una pluralità di documenti all’identificazione delle persone, avesse in mente di favorire la sicurezza dei voli nazionali dopo i tragici eventi dell’11/09/2001. Che i documenti “alternativi” prima ricordati abbiano una minore affidabilità è indubbio e quindi se sulla forma ha ragione Enac, sulla sostanza ha sicuramente ragione Ryanair.

La stessa patente di guida è un documento che non permette il riconoscimento certo delle persone, dato che viene rinnovata ogni decennio tramite l’applicazione di un bollino ma conserva la foto applicata al momento dell’emissione. È quindi usuale che un adulto e perfino un anziano abbiano sulla loro patente una foto risalente all’epoca della loro maturità.

Ci si sarebbe aspettato in conseguenza che l’Enac, istituzionalmente tenuto a garantire la massima sicurezza dei voli, chiedesse al legislatore di rimuovere tali documenti da quelli utilizzabili per l’imbarco anziché ostinarsi a esigere che i vettori li accettino. Perché non lo ha fatto?

I passeggeri delusi dalla sospensione dei voli Ryanair e dalle mail di annullamento ricevute, tra i quali anche molti studenti che grazie ai vettori low cost si possono permettere l’Erasmus e fanno parte della prima vera generazione di cittadini europei, sospettano che sia l’ennesimo aiutino in favore di una nota compagnia nazionale, già pubblica e di bandiera. Intanto si iscrivono in massa al gruppo Facebook di protesta “Non chiudete Ryanair - Mobilitazione on-line” che ha superato in pochissimi giorni i 30 mila iscritti.

Ma cosa prevede esattamente la controversa norma all’origine del duello Ryanair-Enac? Dovrebbe trattarsi (il condizionale è d’obbligo quando si pesca nel mare della normativa nazionale) dell’art. 35, comma 2, del D.P.R. 445/2000 (Testo unico sulla documentazione amministrativa), il quale così recita: “Sono equipollenti alla carta di identità il passaporto, la patente di guida, la patente nautica, il libretto di pensione, il patentino di abilitazione alla conduzione di impianti termici, il porto d’armi, le tessere di riconoscimento, purché munite di fotografia e di timbro o di altra segnatura equivalente, rilasciate da un’amministrazione dello Stato”.

Come si può osservare, si tratta di un elenco non chiuso dato che qualsiasi amministrazione dello Stato può rilasciare tessere di riconoscimento. In conseguenza il vettore aereo, che è tenuto ad adempiervi per le sole rotte nazionali, dovrebbe conoscere tutte le possibili tipologie di documenti e accettarli per l’imbarco, consentendone l’inserimento online dei relativi dati.

Dovrebbe ovviamente conoscere in via preliminare tutte le amministrazioni dello Stato e le caratteristiche di ogni possibile documento di riconoscimento da esse emesso. Cosa dovrebbe fare, inoltre, un vettore aereo nell’ipotesi che tutti o molti paesi dell’Unione godano di una “semplificazione amministrativa” simile alla nostra?

Ci sembra pertanto ragionevole che O’Leary preferisca sospendere i voli della sua compagnia, con grave danno per i consumatori italiani, per il settore turistico e per il nostro Pil, piuttosto che trasformarsi in una sorta di Indiana Jones alle prese con la giungla della nostra burocrazia. La questione Ryanair-Enac sembra più una storia di ordinaria assurdità burocratica che un problema aeronautico.

È ben strano un paese nel quale un provvedimento finalizzato alla semplificazione amministrativa anziché ridurre solo a 1-2 i documenti validi per l’identificazione, uniformandoli allo standard europeo, li moltiplica potenzialmente all’infinito come le scope nel cartoon di Topolino apprendista stregone. Non ci dobbiamo in conseguenza stupire del fatto che noi italiani ci salviamo da norme assurde semplicemente ignorandole e disapplicandole.

Chi scrive non conosceva questa norma “pluralista” sui documenti e non l’ha mai applicata nell’identificare gli studenti agli appelli d’esame; fortunatamente neanche gli studenti la conoscevano (o forse sono dotati di maggiore razionalità del legislatore) e non si sono mai presentati muniti di licenza di pesca o porto d’armi (col rischio nel primo caso di far pensare a una presa per i fondelli e nel secondo a una forma di pressione).

Non si comprende proprio perché si debba fare una guerra patriottica a Ryanair per difendere il diritto a imbarcarsi di un’esigua minoranza di cacciatori, pescatori, piloti nautici e addetti alla conduzione di impianti di riscaldamento dotati della rispettive patenti e tesserini ma privi di passaporto e carta d’identità. Almeno per una volta potremmo essere un po’ più seri.

http://www.ilsussidiario.net/News/Economia-e-Finanza/2009/12/29/IL-CASO-Chi-vincera-la-guerra-tra-Ryanair-ed-Enac-/58537/

I livelli della crisi

di Mario Seminerio

Nei giorni scorsi è stato pubblicato un Occasional Paper della Banca d’Italia, intitolato “La crisi internazionale e il sistema produttivo italiano: un’analisi su dati a livello di impresa“, di Matteo Bugamelli, Riccardo Cristadoro e Giordano Zevi. Il lavoro esamina le conseguenze per il sistema produttivo italiano della crisi economica e finanziaria internazionale iniziata nel 2007 con un approccio contemporaneamente macro e micro, utilizzando cioè sia dati aggregati di contabilità nazionale che informazioni a livello d’impresa desunte dall’indagine sulle imprese industriali e di servizi (Invind) condotta annualmente dalla Banca d’Italia. Tra le risultanze della ricerca, ne spicca soprattutto una: i livelli della produzione industriale italiana sono tornati indietro, a causa della crisi, di quasi 100 trimestri.

Come scrivono gli autori del paper,

Rispetto ai massimi toccati all’inizio del 2008, nel secondo trimestre dell’anno in corso l’indice della produzione ha segnato una diminuzione cumulata prossima al 25 per cento, con il risultato che, nella scorsa primavera, il volume delle merci prodotte si era riportato al livello della metà degli anni Ottanta. Nella media dell’area e nei suoi principali paesi, il calo, pur assai pronunciato, è stato inferiore.

Nello specifico, e rimandando il lettore alle tavole 1 e 2 del paper, il livello di produzione industriale italiana è tornato al secondo trimestre 1986, quello tedesco al quarto trimestre 1999, quello francese al primo trimestre 1994. Come si nota, quello italiano è un autentico crack, che conferma (se mai ce ne fosse stato bisogno) che affermare che il nostro paese ha navigato in questa crisi meglio dei nostri concorrenti è una fallacia assoluta. Dal lato più generale del Pil, l’Italia in questa crisi è tornata indietro di 34 trimestri, contro i 13 e 12 rispettivamente di Germania e Francia. Naturalmente la notizia è rimasta sepolta nella cronaca natalizia, e forse è meglio così, visto quanto è inquietante.

Uno degli errori più comuni commessi dalla stampa e dai commentatori politici è quello di considerare solo le variazioni di una grandezza, non i suoi livelli. In tal modo l’analisi finisce col perdere profondità prospettica. Sono ancora e sempre troppo pochi quelli che riescono a realizzare che, quando una grandezza perde il 50 per cento, necessiterà di una ripresa del 100 per cento solo per tornare al livello di partenza. Non sorridete, in questo paese abbiamo un disperato bisogno di partire dalle nozioni di base. Per una migliore comprensione della differenza esistente tra livelli e variazioni è utile leggere gli esempi fatti da Menzie Chinn e Paul Krugman.

E soprattutto è utile smettere di dire che l’Italia ne uscirà meglio di altri.

http://epistemes.org/2009/12/28/i-livelli-della-crisi/

Facciamo il punto sulla tempesta perfetta

Ho impiegato alcune settimane per cercare di riflettere con più calma su quello che sta davvero accadendo nei mercati finanziari, uno sforzo non da poco dopo i devastanti ventotto mesi di tempesta perfetta che hanno provocato perdite e lutti alla flotta delle entità a diverso titolo operanti nel mercato finanziario globale. Si è trattato in ogni caso di una pausa salutare dopo due anni di impegno quotidiano che hanno trasformato il Diario della crisi finanziaria nel giornale di bordo non autorizzato del maggiore sommovimento nei mercati finanziari mai registrato dalla crisi del 1929, anche se, e non solo il solo a pensarla a questo modo, sotto molti aspetti la magnitudo dei fenomeni che stiamo ancora vivendo è stata addirittura maggiore di quella registrata ottanta anni orsono. Ma quello che rende difficoltoso fare il punto della situazione è rappresentato dalla domanda che pongo quasi incessantemente da oltre due anni: quale è la vera dimensione della montagna di titoli più o meno tossici della finanza strutturata ancora in circolazione e quale è l’esatta distribuzione degli stessi tra le diverse entità protagoniste del mercato finanziario globale? Dopo la recente restituzione operata da Citigroup, si può dire che quasi tutte le maggiori banche statunitensi hanno saldato il proprio debito nei confronti dello Stato, liberandosi così dalle limitazioni sui compensi imposti dall’amministrazione Obama, ma sorte analoga non sono destinati ad avere i titoli che sono stati graziosamente sollevati dai loro bilanci e i cui relativi rischi gravano ancora sulle entità pubbliche che se ne sono fatte carico. L’altro corno del dilemma, rappresentato dalla situazione del mercato immobiliare, non presenta maggiori punti di chiarezza, a meno di non fermarsi al rimbalzo delle vendite stimolate dagli sgravi fiscali e dai prezzi di assoluto realizzo degli immobili, una condizione quest’ultima destinata a continuare alla luce del crescente numero di procedure di foreclosure. Ma vi è un terzo aspetto della tempesta perfetta che sta togliendo il sonno agli investitori ed è quello connesso alle pesanti tosature cui sono sottoposti i detentori di obbligazioni tradizionali emesse da entità o entrate in procedura fallimentare o in difficoltà nella restituzione, come nel caso della Dubai World, che ha chiesto una moratoria di sei mesi sulla restituzione sia degli interessi che dei bonds in scadenza. Queste tre criticità spiegano il sostanziale arresto della crescita dei tre principali indici statunitensi dopo una corsa del 60 per cento circa dai rispettivi minimi toccati nel corso del mese di marzo, una battuta di arresto che dovrebbe preludere, almeno secondo il giudizio di uno dei più importanti gestori del mondo, il chief executive officer di PIMCO, Mohammed El-Erian, a un ribasso in tempi brevi del dieci per cento del rappresentativo Standard & Poor’s 500. D’altra parte, una ripresa sostenuta in larga misura dall’elevatissimo deficit spending governativo e dai tassi prossimi allo zero non è destinata ad avere vita lunga e sostenibile né a produrre quei tassi di crescita che potrebbero consentire quel significativo riassorbimento del tasso di disoccupazione che potrebbe segnalare una vera inversione di tendenza.
http://diariodellacrisi.blogspot.com/2009/12/facciamo-il-punto-sulla-tempesta.html

Il clamoroso conflitto d’interesse dei certificatori

home_banking_feature1Uno degli aspetti più odiosi messi a suo tempo in luce dallo scandalo della Enron e da altri casi analoghi dei primi anni del nuovo millennio era stato il ruolo perverso svolto nelle vicende di allora dalle società internazionali di certificazione dei bilanci. Si era così scoperto nel corso delle indagini che, tra l’altro, esse approvavano qualsiasi cosa che volessero le imprese, che in particolare la Arthur Andersen - una delle più grandi del settore - era stata nel tempo complice attiva nei reati venuti fuori con il caso Enron (per tali fatti la società di auditing fu alla fine giustamente costretta a chiudere i battenti) e che una delle vie attraverso le quali passavano normalmente le combine società di auditing-imprese certificate era costituita dalla presenza di vaste attività di consulenza che le stesse società di revisione svolgevano per le imprese clienti.

Usciva così alla luce un grande e strutturale conflitto di interessi, che non ha mancato certo di dare poi con il tempo i suoi frutti perversi. Con la chiusura della Arthur Andersen e con il manifestarsi inoltre nel settore di importanti processi di fusione ed acquisizione interni, le grandi società di certificazione internazionale sono rimaste alla fine soltanto in quattro e segnatamente la PricewaterhouseCoopers, la KPMG, la Ernst & Young e la Deloitte. Si è creata quindi una situazione di oligopolio ristretto, con la minaccia concreta inoltre che, in un prossimo futuro, il numero dei protagonisti si possa ridurre ulteriormente.

Lo scoppio della crisi economica e finanziaria in atto non aveva sino a questo momento portato a notizie particolari sul fronte delle società del settore. Ma ora, un articolo apparso sul settimanale The Observer del 20 dicembre ci informa di nuovi sviluppi in proposito non proprio edificanti e forieri probabilmente di ulteriori problemi. Le informazioni riportate nell’articolo si riferiscono specificamente al caso britannico, ma esse hanno delle implicazioni più vaste dal punto di vista geografico.

L’Office of Fair Trade del paese sta svolgendo indagini sul fatto che, almeno in Gran Bretagna, si ripropone oggi il problema che le società di auditing svolgono anche attività di consulenza per le aziende per le quali espletano le certificazioni di bilancio. In particolare, le cifre mostrano come tali società abbiano svolto nel 2008 attività di certificazione per quanto riguarda il perimetro delle 100 imprese britanniche più importanti - incidentalmente, risulta che solo una di tali società non è revisionata dalle quattro grandi - per un valore di circa 545 milioni di sterline e contemporaneamente come esse abbiano anche fatturato alle stesse società, sempre nel 2008, circa 264 milioni di sterline per attività di consulenza. In ben 26 casi, poi, la stessa attività di consulenza ha superato in termini quantitativi quella di revisione dei bilanci.

Naturalmente, le società di certificazione si difendono, affermando che esse, tra l’altro, hanno eretto dei muri di separazione netta, dal punto di vista organizzativo, tra le due attività. Intanto, comunque, le indagini procedono. Nel frattempo le stesse società di certificazione si stanno preparando, in Gran Bretagna come in altri paesi, compresi gli Stati Uniti, per le battaglie legali che certamente scoppieranno in un prossimo futuro in merito al loro eventuale ruolo nel fallimento e nelle difficoltà finanziarie di molte banche, grandi e piccole. Non risulta che in alcun caso le imprese di revisione abbiano in qualche modo segnalato, negli scorsi anni, dei problemi e delle irregolarità contabili in tali istituzioni. Tra l’altro, viene sottolineato da qualche parte come ci sia un concreto pericolo che le dispute legali correlate a tale questione potrebbero condurre al fallimento di qualche altra società del settore della revisione, ciò che aumenterebbe il grado di controllo sul business da parte di un numero ristretto di società, con tutti i correlati pericoli di intese occulte tra le stesse a danno del mercato della certificazione.

http://www.finansol.it/?p=3155

Ben Bernanke “uomo dell’anno”, mentre si attende l’iperinflazione e un governo mondiale

29/12/2009 10:28 ASIA di Maurizio d'Orlando La decisione del settimanale Time è troppo precoce: la ripresa non c’è o è solo frutto di contrazioni di spese e drastici tagli di personale. La galoppante disoccupazione negli Usa e in Cina. Il debito pubblico americano rischia di essere “sanato” solo con l’iperinflazione che metterà in crisi il sistema mondiale.

Milano (AsiaNews) - Il settimanale statunitense Time ha eletto “Uomo dell’anno” Ben Shlomo Bernanke, il governatore della Federal Reserve americana. A prima vista la scelta può avere diversi livelli di lettura. Si potrebbe infatti attribuire la scelta al ritorno dei mercati azionari ed obbligazionari mondiali verso livelli di quasi normalità: fenomenale in particolare è stato il rimbalzo della borsa americana, risalita quasi del 60 % negli ultimi nove mesi.

In tale ottica, dedicando la propria copertina a Bernanke, il Time avrebbe una motivazione ben chiara, proprio quella in effetti dichiarata. Sarebbe cioè un riconoscimento all’uomo che, dopo il quasi fallimento di Bear Stearns, il salvataggio di Fannie Mae e Freddie Mac, GMAC e di AIG[1], e dopo l’isolato, ma traumatico fallimento della banca d’affari Lehman Brothers, ha salvato – con fondi pubblici [2] – il grosso del sistema bancario americano (Citibank, Bank of America, ecc.) e mondiale dal rischio di un’imminente sbriciolamento (o meglio dalla certezza di un’inarrestabile evaporazione). Non vi potrebbe essere impresa e risultato maggiore nel curriculum – non punteggiato da altri specifici e notevoli contributi teorici e pubblicazioni – di un comune professore di Princeton diventato il governatore della maggiore banca centrale del mondo. Bernanke, dunque, sarebbe, come Ettore o Achille in tempi epici, un eroe della finanza, un eroe della nostra epoca, che epica certo non è, dato che tutto basa sul calcolo economico e sul predominio della pecunia.

La ripresa economica è stentata, forse inesistente

Se questa è l’ipotesi corretta, si può dire come minimo che il riconoscimento da parte del Time è un po’ troppo precoce. La ripresa della borsa americana non ha molto senso perché, tranne pochissime eccezioni, la ripresa economica delle imprese è a dir poco stentata, se non inesistente, negli Usa come nel resto del mondo. Non sono ancora disponibili i bilanci delle imprese, ma di certo non saranno a tal punto brillanti da giustificare un così deciso rimbalzo borsistico.

In particolare, nei paesi più sviluppati, quei settori industriali che non hanno beneficiato di sussidi statali hanno registrato forti cali di fatturato, in media anche del 20 - 30 % – ed in certi casi anche del 50 % [3]. Pur con ogni possibile acrobazia contabile, è difficile supporre perciò che nell’economia reale vi siano grossi utili, tali da giustificare le attuali quotazioni dei mercati finanziari. Laddove le imprese, in casi specifici, avranno pur potuto contenere in qualche modo i danni, nella maggior parte dei casi il risultato è stato ottenuto non grazie ad un aumento delle vendite, ma comprimendo i costi. Infatti la domanda aggregata – cioè delle famiglie, delle imprese e della pubblica amministrazione – è diminuita e negli Usa si stima un calo del 20 % dei consumi per le classi di reddito medio ed inferiore [4].

Disoccupazione negli Usa e in Cina

Ridurre i costi significa che le imprese hanno potuto contenere le perdite riducendo gli investimenti per la ricerca e l’innovazione di prodotto e di processo, ma non solo. Spesso il contenimento delle “spese” è stato ottenuto soprattutto con riduzioni del personale. Di fatti, nonostante il pacchetto di stimolo senza precedenti storici, voluto con tanta enfasi da Obama, la disoccupazione americana è ancora in forte crescita: è oltre il 9 % secondo i dati ufficiali, oltre il 20 % se si adottano i più realistici criteri econometrici in vigore prima dell’era Clinton.

Non diversa è la situazione in molti altri Paesi. In Cina, ad esempio, i lavoratori migranti, che più di chiunque altro nel Paese hanno subito il peso della crisi, non ne hanno tratto beneficio nemmeno in termini di livelli di occupazione. Il loro impiego era e resta legato all’esportazione drogata dal tasso di cambio dello yuan renminbi – la valuta cinese fortemente sottovalutato rispetto al dollaro ed alle altre valute convertibili[5].

Si può dire che i due maggiori pacchetti di stimolo economici del 2009, quello americano e quello cinese, non hanno sortito alcun effetto reale, per lo meno in termini di occupazione, che era l’obbiettivo preannunciato.

Era logico che così fosse perché i due Paesi vivono di una simbiosi speculare: uno produce, è la “fabbrica del mondo” grazie al cambio arbitrariamente fissato dal Partito Comunista Cinese; l’altro consuma: il 70 % del Pil Usa è dato dai consumi in deficit da vari decenni, fra cui deficit del commercio estero, del bilancio pubblico, del risparmio delle famiglie e del debito estero delle imprese americane.

Era logico che così fosse perché, al di là delle apparenze superficiali – il colore della pelle del nuovo presidente americano o i grattacieli e la “modernizzazione” del regime cinese – e delle speranze, o meglio delle illusioni generate dalle rispettive propagande, nessuno aveva ed ha intenzione di cambiare le distorsioni di fondo del sistema.

Era logico che così fosse perché la globalizzazione non poteva che produrre un sistema di interdipendenze squilibrate: è la sintesi hegeliana di due “moderne” contrapposizioni del secolo scorso, eredità ancora dell’ottocento, di due opposti, ma in pari misura strutturalmente squilibrati materialismi.

Lo spettro dell’iperinflazione

Se la ripresa della borsa americana da un lato non ha molto senso, dall’altro lato un senso ce l’ha. Purtroppo però è un senso davvero sinistro perché ci indica che i mercati finanziari si attendono e scontano il sopraggiungere dell’iperinflazione. Per chiarirci, il valore di un’azienda non è dato solo dalla sua capacità di produrre utili futuri, ma anche da quello intrinseco del suo patrimonio tangibile, ad esempio terreni, capannoni industriali e simili. Allo stesso modo la quotazione in borsa di un titolo non esprime solo gli utili attesi, ma i mezzi propri, i suoi averi. Se è difficile ipotizzare un incremento medio del 60 % dei profitti aziendali nel prossimo futuro è evidente che il rimbalzo di borsa può aver senso solo se si pensa che aumenti il valore dei beni delle aziende per effetto dell’inflazione. In tal caso, se le ipotesi sono corrette e le quotazioni di borsa adeguate, l’inflazione attesa è piuttosto forte, ben superiore al 60 % perché si devono scontare le perdite di esercizio di questo e dei prossimi anni. Dal punto di vista più generale dell’economia, se ne deduce che agli effetti di una fase - quella attuale - di grande depressione si andrebbero perciò a cumulare quelli di un inflazione a due o tre, anche quattro cifre. Gli economisti la chiamano iperinflazione, uno dei fenomeni più socialmente distruttivi. Dagli archivi della storia rispuntano quindi gli spettri della Repubblica di Weimar, che in Germania spianò la strada ad Hitler; da quelli della cronaca si riaffacciano i disastri dello Zimbabwe. Non è, non vuole essere, gratuito catastrofismo, ma solo un modo leggere in maniera razionale un rimbalzo borsistico che difficilmente è spiegabile in termini di andamento degli utili netti aziendali.

Si può certo ipotizzare che gli attuali valori di borsa negli Usa sono soltanto troppo gonfiati rispetto al probabile livello degli utili e di conseguenza dedurne un prossimo nuovo forte crollo.

L’abisso del debito pubblico americano

Anche se AsiaNews non ha pretese di essere un bollettino di previsioni finanziarie, questa seconda ipotesi non appare però convincente, pur ammettendo come probabile un forte saliscendi di borsa. La ragione sta nel livello davvero abnorme dell’indebitamento del sistema americano, includendo in tale definizione sia il debito formalmente emesso che gli impegni debitori. Nel settembre 2008 ad AsiaNews dopo i salvataggi finanziari effettuati fino ad allora da Bernanke - includendo nell’indebitamento pubblico anche quello delle amministrazioni locali e l’esposizione debitoria di enti a capitale pubblico - avevamo calcolato “debito pubblico americano” pari a59.300 miliardi di dollari, e cioè 200.060 dollari pro capite di debito pubblico, inclusi vecchi, malati e bambini: il 429,37 % del Pil [6]. Secondo altri economisti – John Williams – la cifra oggi è ben maggiore, circa 75:000 miliardi di dollari[7] ,ben oltre cinque volte il Pil americano.

Se consideriamo che il debito delle famiglie americane è uno dei più alti al mondo, circa il 99 % del Pil; che il debito delle aziende Usa è anch’esso il maggiore del mondo, più del 300 % del Pil; che oltre il 95 % del debito estero statunitense è detenuto da residenti esteri, di cui circa il 50 % è detenuto da Giappone e Cina, l’ipotesi che il Tesoro americano non possa far fronte ai propri impegni mediante le imposte e che debba perciò ricorrere ad emettere sempre più moneta non è fantascientifica, ma probabile. In tali condizioni ci sono tutte le premesse dell’iperinflazione. Un qualsiasi evento politico, anche minimo, basterebbe come innesco[8]. È dunque difficile che ci si possa sottrarre a tale esito, e le conseguenze politiche saranno a dir poco epocali non solo negli Usa, ma anche in Europa, in Asia e nel resto del mondo.

La “salvezza” di un governo bancario mondiale

Quella attuale non è perciò solo una crisi peggiore di quella del ’29 - ’33. L’iperinflazione, quando la si lasci scatenare, azzera il debito pubblico ed il risparmio privato, ma soprattutto sradica ogni precedente struttura istituzionale. Forse è questo il segreto scopo dei vari governatori della Federal Riserve - tra cui Bernanke - che nel corso degli ultimi 20 anni[9] hanno posto le premesse dell’iperinflazione: da un mondo prima bipolare, all’epoca dell’Unione Sovietica, e poi unilaterale, il segreto proposito, il loro vero intento nel porre le premesse dell’iperinflazione, era far in modo che si imponesse la costituzione di una banca centrale mondiale e di conseguenza pervenire ad un governo mondiale. Con più di sei miliardi di abitanti nel mondo, l’instaurazione di un impero mondiale significa che potremo ben presto dire addio ad ogni residua parvenza di democrazia e libertà. Il sogno di Serse di ordine, tolleranza e concordia mondiale si potrebbe forse concretizzare ai nostri giorni, a meno di nuove, forse improbabili, Termopili.

Questa – è però improbabile – potrebbe forse essere una seconda lettura della decisione del Time di dedicare la copertina a Bernanke. In altri termini l’onore tributatogli è così palesemente paradossale da far ipotizzare che sia un modo per lanciare un avvertimento in un mondo caduto sotto il dominio della falsità.

[1] Sono le società a capitale privato ma di interesse nazionale che dall’epoca del presidente Roosevelt, settant’anni fa, hanno garantito i mutui immobiliari USA, oltre che la società (la AIG) che assicurava i rischi sui prestiti dei mercati finanziari. [2] Secondo Neil Barofsky, ispettore generale cui è stato affidato il compito di supervisione sui molti programmi di salvataggio finanziario, il relativo costo sarà in totale pari a 23.700 miliardi di dollari, un po’ meno del 165 % del Pil Usa.

[3] La logica conseguenza è che se delle singole aziende possono aver registrato un calo di fatturato del 30 % altre possono aver avuto una diminuzione del 70 %. Un calo di fatturato di tale genere a equivale ad un livello di perdite che rende nella maggior parte dei casi inevitabile la chiusura o il fallimento di un’azienda.

[4] Vedi : l’ultimo rapporto Gallup sull’andamento dei consumi: al roseo titolo: "Upper-Income Spending Reverts to New Normal" Ritorna di nuovo normale la spesa nel segmento di reddito superiore corrisponde nel testo un ben più sobrio contenuto (Still, consumer spending by both income groups middle and lower-income continues to trail year-ago levels by 20 per cent) – Ciononostante, la spesa di entrambe le classi di reddito, medio ed inferiore, continua a rimanere indietro del 20 % rispetto ad un anno fa.

[5] In termini di parità del potere d’acquisto interno cinese, vedi AsiaNews.it, 07/07/2009, I titoli tossici e le tossicodipendenze di Usa e Cina

[7] Vedi l’intervista a John Williams su Fairfield County Weekly del 31/12/2009 We're Screwed!

[8] Nel caso della Repubblica di Weimar, il detonatore fu l’occupazione della Ruhr nel marzo del 1921 da parte della Francia e del Belgio, motivata dalla mancato pagamento delle riparazioni stabilite con il trattato di pace di Versailles dopo la 1a Guerra mondiale.