Usa, Fdic: in difficoltà 702 banche, l‘8,7% del totale

Usa, Fdic: in difficoltà 702 banche, l‘8,7% del totale Il numero di banche in difficoltà negli Stati Uniti è salito ai livelli massimi degli ultimi 17 anni...

Il numero di banche in difficoltà negli Stati Uniti è salito ai livelli massimi degli ultimi 17 anni. Il che potrebbe provocare un nuovo incremento dei fallimenti nel corso del 2010. A riferirlo è uno studio della Federal Deposit Insurance Corp., che ha anche aggiunto come il credit crunch attuale sia il peggiore degli ultimi sessant’anni.

La FDIC ha incluso nell’elenco degli istituti di credito in pericolo ben 702 banche, con complessivi 402,8 miliardi di dollari in asset. I dati si riferiscono al 31 dicembre scorso, e segnalano un aumento del 27% rispetto alla fine del trimestre precedente, quando il numero di banche si era fermato a 552, per 345,9 miliardi di asset. Complessivamente, il numero di istituti in difficoltà è pari all‘8,7% del sistema bancario statunitense. «È probabile che tale incremento si traduca in una crescita dei default nel prossimo futuro - ha spiegato il presidente della FDIC, Sheila Bair in una conferenza a Washington -, ed entrambi i fenomeni tenderanno a rallentare la crescita economica». Dall’inizio dell’anno, il numero di banche fallite negli Usa è stato pari a 20, e si prevede «un picco nel corso del 2010, che sarà da questo punto di vista peggiore rispetto allo scorso anno», ha proseguito Bair.

Il sistema bancario Usa ha registrato, complessivamente, nel 2009, ricavi netti per 12,5 miliardi di dollari (rispetto ai 4,5 miliardi del 2008 e i 100 miliardi del 2007). Contemporaneamente, la quantità di prestiti erogata a cittadini e imprese è scesa del 7,5%: il dato peggiore dal lontano 1942.

http://www.valori.it/italian/finanza-globale.php?idnews=2079

Soros il Filantropo. Se lo dice Lui...

di Ugo Gaudenzi - 23/02/2010 Fonte: Rinascita [scheda fonte]

George Soros, il Filantropo. George Soros il Buon Samaritano. Era d’obbligo, la parola spettava appunto a questo signore, il Regista per antonomasia della speculazione finanziaria internazionale, l’acquirente al ribasso delle valute considerate più deboli con il denaro anticipato dalla Goldman&Sachs (come aveva fatto per la lira svalutata nell’Italia del 1992 o nella Malesia del 1997. Premiato dall’Italia di Prodi con una laurea honoris causa e dalla Malesia di Mahatir con una condanna a morte…). Il nome di questo signore - definito dalla “libera” stampa “imprenditore”, “politico liberale”, “promotore di rivoluzioni colorate”, “filosofo” ungherese (ebreo) naturalizzato statunitense, e naturalmente “filantropo” - era stato citato nelle analisi sulla crisi monetaria innescata dal debito della Grecia. Si sussurrava sulla presenza della sua longa manus nell’iniziato rastrellamento dei titoli deprezzati del debito pubblico di Atene, da negoziare e rivendere poi allo stesso Stato ellenico appena pronto il “piano di risanamento” (decisione assurdamente posticipata al 15 maggio). Per rafforzare gli attacchi della finanza anglo-americana all’euro, (in specie ai “pigs”, di Portogallo, Italia, Grecia e Spagna) non è un caso che il Financial Times abbia lasciato la parola a costui. Dal titolo del suo commento in poi, è tutta una summa di “consigli del giaguaro” avanzati con voce virginea: “The euro will face bigger test than Greece”, (L’euro dovrà affrontare una prova maggiore rispetto a quella greca) e quindi... ponderati allarmi su un “euro che non ha una gestione politica della sua stabilità” e che non ha un organo di governo (lui lo chiama “il Tesoro”) capace di intervenire “in tempi di crisi”, di “insolvenza”. Dopo aver lucrato milioni e milioni di dollari grazie al patto scellerato contratto con quella banda di banksters europei che ha volutamente privato l’Ue di una guida politica, George Soros dunque fa finta di bacchettare i suoi antichi complici rei, dice, di “aver costruito l’Europa mettendo il carro (la moneta unica) davanti ai buoi (la gestione politica trainante). Ma qual è la ricetta sottintesa da Soros per il futuro dell’eurozona? La creazione di un governo dell’economia e della finanza dell’Ue capace di “intervenire”, di “imporre tasse” per risolvere le crisi. Già. Leggiamo quanto propone per risolvere il debito greco. Un indebitamento, si badi bene, quasi del tutto “interno” e quindi facilmente risolvibile perché non affetto da speculazioni esterne. “La soluzione” dovrebbe essere, secondo Soros “l’emissione congiunta – europea – e severamente garantita di eurobonds per il 75 per cento del debito in maturazione per il periodo di intervento”. Una soluzione, cioè, di fatto simile a quella già sperimentata dall’Italia degli Amato e dei Ciampi, dal ’93 in poi. Con tutta la serie di stangate fiscali conseguenti che hanno impoverito lo Stato (costretto a dimettere tutti suoi gioielli produttivi, dalle telecomunicazioni ai trasporti all’energia) e gli stessi cittadini italiani. E poi la bordata finale. Secondo il Filantropo, la Grecia potrà forse trovare una soluzione alla sua crisi ma cosa accadrà a “Spagna, Italia, Portogallo e Irlanda”? Come farà a sopravvivere la moneta unica? Insomma Soros e gli organi della City e di Wall Street proseguono la loro offensiva contro i “pigs”. I paesi “porci” o “fragili” dell’Ue. Lanciando tali allarmi tentano di renderli ancora più deboli. E frenando Germania o Francia da interventi in favore della Grecia, nessuno si muoverà certo in favore degli altri quattro Stati che la speculazione finanziaria ha deciso di spolpare. Un fuoco di sparramento preventivo, dunque. Così che nessuno si permetta di fare i conti con chi manovra la speculazione finanziaria internazionale o con i capisaldi veri dell’indebitamento occidentale: gli Stati Uniti d’America e la Gran Bretagna.

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Grillo - La fine della ricreazione

Un articolo del "The New York Times" del 13 febbraio è passato quasi inosservato in Italia. Eppure è la campanella che segna la fine della ricreazione per l'economia italiana. Il titolo "Wall St. helped to mask debt fueling Europe 's crisis ( http://www.nytimes.com/2010/02/14/business/global/14debt.html?pagewanted=all ) " (Wall Street ha aiutato a nascondere il debito pubblico europeo) riassume la tesi dei tre autori, L. Story, L. Thomas, N. Schwartz. Le banche americane e tra tutte la Goldman Sachs hanno permesso ad alcuni Paesi europei di nascondere il deficit di bilancio alla UE. La più esposta è la Grecia che ha sottoscritto con Goldman almeno due contratti di derivati "swaps ( http://it.wikipedia.org/wiki/Swap_%28finanza%29 ) " dai nomi mitologici Arianna ( http://it.wikipedia.org/wiki/Arianna_%28mitologia%29 = e Eolo ( http://it.wikipedia.org/wiki/Eolo ) nel 2000 e nel 2001 per fare subito cassa in cambio di ipoteche sugli incassi futuri dalle tasse aeroportuali e dalle lotterie. Il governo greco classificò i contratti come vendite e non come prestiti (rischiosi) a lunga scadenza. Nessuno sa quanti di questi contratti sono stati stipulati e per quale entità. Angela Merkel ha dichiarato che sarebbe uno scandalo se la Grecia avesse occultato il suo debito. Secondo l'agenzia Bloomberg ( http://www.businessweek.com/news/2010-02-22/greece-said-to-have-arranged-swaps-with-15-banks-update1-.html ) sono almeno 15 le banche che hanno accordato prestiti sotto forma di swap nei quali il rischio di controparte è a carico della Grecia. Con gli swap in sostanza vengono anticipate dalle banche delle somme di denaro in funzione di un evento che può o non può manifestarsi e (di solito) non si manifesta. Il cliente si ritrova quindi a dover ripagare il prestito con corposi interessi come sta avvenendo per molti Comuni italiani che si sono indebitati in questi anni. Lo swap serve a spostare più in avanti un debito che però, prima o poi, va pagato. E' come una carta di credito. Il problema si aggrava quando il debito non è dichiarato come tale e emerge all'improvviso dai bilanci degli Stati. La stessa cosa che avvenne con i subprime per le banche può avvenire con i derivati swap con gli Stati. Le banche sono sempre alla ricerca di ottimi affari e gli Stati in procinto di affogare lo sono. Lo scorso novembre, con la Grecia in piena crisi, la Goldman Sachs è tornata ad Atene sul luogo del delitto per proporre di spostare con l'ennesimo strumento finanziario il debito della sanità nel futuro. La Grecia non ha accettato o, forse, non ha potuto accettare. L'articolo cita anche l'Italia... "Gli strumenti sviluppati da Goldman Sachs, JP Morgan e da altre banche hanno permesso ai politici di mascherare i prestiti in Grecia, Italia e forse altrove" ... "Stati come l'Italia e la Grecia entrarono nella UE con un deficit superiore a quello permesso dal trattato che creò l'euro. Piuttosto che aumentare le tasse o ridurre la spesa, questi governi ridussero artificialmente il loro deficit con i derivati". Il debito pubblico della Grecia è di 298,5 miliardi di euro a fine 2009, un default greco trascinerebbe con sé anche molte grandi banche. L'economia greca vale comunque solo il 3% del PIL europeo. Un piano di intervento è possibile. La vera minaccia ( http://www.howestreet.com/articles/index.php?article_id=12557 ) alla stabilità economica europea secondo Robert Mundell ( http://www.robertmundell.net/ ), premio Nobel per l'Economia, è l'Italia. L'Italia ha circa 1.800 miliardi di euro di debito, sei volte la Grecia, un quarto dell'intero debito europeo e potrebbe essere oggetto di attacchi speculativi. Quanti sono i derivati sottoscritti dal Tesoro e con chi e a quali condizioni? Sul debito pubblico non dovrebbe valere il segreto di Stato. Tremorti, se ci sei , batti un colpo! Beppe Grillo Fonte: http://www.beppegrillo.it/ Link: http://www.beppegrillo.it/2010/02/la_fine_della_ricreazione/index.html>

Santoro replica. Povero Travaglio…

Angela Azzaro

Nell’articolo pubblicato lunedì scorso dal Fondo sullo scontro Travaglio-Santoro [vedi di seguito a questo], avevo sbagliato su due valutazioni. Ero convinta che Santoro sarebbe stato molto più morbido nel rispondere a Travaglio e avevo sottovalutato la piccolezza del giornalista del Fatto. Sì, certo, avevo scritto che non accettando le polemiche nei suoi riguardi si era dimostrato incapace di vivere sulla sua pelle le stesse pressioni e critiche a cui lui sottopone i suoi avversarsi, ma non avevo pensato che arrivasse a dimostrarsi piccolo così.

Alla lettera di Travaglio pubblicata sabato sul Fatto, in cui il giornalista si diceva offeso perché Santoro non lo aveva difeso dagli attacchi di Nicola Porro del Giornale, il conduttore di Annozero ha risposto, come promesso, questa mattina sullo stesso quotidiano. Ma non ha tentato di conciliare. Ha bensì detto: «Se lasci non sarebbe una catastrofe irreparabile». Di più. Ha messo in discussione la santità presunta e pretesa del giornalista e principale animatore del Fatto. Leggete qui. «Hai saputo – scrive Santoro – schivare e anche incassare molti colpi bassi ma questa volta è bastata una banalissima insinuazione di Porro (e non un’aggressione squadristica) per farti perdere il lume della ragione. Hai frequentato un sottufficiale dell’Antimafia prima che venisse condannato per favoreggiamento. Scusa, qual è il problema morale?». Poi il colpo finale: «Se la televisione è perfino peggiorata non è solo colpa di Berlusconi e dei suoi trombettieri ma di chi avrebbe dovuto contrastarlo e anche di quelli che scelgono di battersi pensando di essere gli unici a farlo con coerenza».

Il riferimento alla presunzione dell’ex amico è evidente. Così come è evidente la presa di distanza da un comportamento che potremmo definire infantile se dietro non ci fosse un vero e proprio sistema politico-giornalistico. Cioè la convinzione, finora assoluta, che al cosiddetto nemico si può dire tutto impunemente, mentre per se stessi si pretendono prove e atteggiamento garantista.

Davanti alla durezza della replica di Santoro, del resto pari alla durezza della richiesta, ci saremmo aspettate un Travaglio all’altezza del ruolo prescelto di martire. Invece ha subito fatto marcia indietro. E ha risposto: resto. Anzi, per la precisione, ha scritto: «Non lascio Annozero. La darei vinta a quei personaggi e al loro padrone». Insomma davanti alla possibilità di perdere soldi e pubblico, ha fatto subito marcia indietro, rimettendosi in carreggiata. Non senza, però, rinunciare all’arte che conosce meglio, quella dell’insulto. Come altro definire il modo in cui definisce «quei personaggi e il loro padrone»? Il riferimento è appunto a Porro e anche a Maurizio Belpietro direttore di Libero. Il padrone è chiaramente Berlusconi. Un’accusa per un giornalista infamante. La peggiore insinuazione che si possa fare. E allora, ancora una volta ci chiediamo: dove sono le prove? Non basta dire che il Giornale è di proprietà della famiglia Berlusconi per poter dire che un giornalista prende i soldi da qualcun altro a mo’ di servo. E’ una diffamazione da querela. Ma soprattutto, lo ripetiamo, è un modo di fare giornalismo che non fa bene a nessuno. Men che mai a chi pensa che Berlusconi vada sì battuto, ma su un altro piano e nel rispetto delle regole e delle libertà.

http://www.mirorenzaglia.org/?p=12257

TELECOM TI TAGLIA?

Alessandro Cappelletti

Il 25 febbraio verrà presentato il nuovo piano industriale di Telecom Italia. Un appuntamento molto atteso in ambito finanziario, politico e sindacale. Dovrebbero svelarsi infatti i dettagli sul futuro rapporto con il socio spagnolo di Telefonica e, di conseguenza, sul futuro stesso dell’azienda.

Attualmente girano le voci più disparate, difficile stabilire a quale dare retta o quale considerare la più attendibile: forse tutte e nessuna… si sa solo che il Governo Berlusconi non ha posto veti politici sulla cessione della quota di maggioranza appartenente ai soci italiani.

Ciò significa che uno degli scenari possibili, forse il più probabile, sarà quello dello scorporo della Rete dalla Gestione Clienti. Ovvero: le infrastrutture che ci permettono di comunicare con il telefono di casa e con il cellulare (per i clienti Tim), verranno gestite da una società, mentre la gestione dei clienti finirà a un’altra società, dividendo in due tronconi, o forse più, ciò che da sempre è stata un’unica Azienda.

Impresa Semplice, verrebbe spontaneo da dire? No, per nulla, perchè Telecom non è un’azienda qualunque, è un colosso che tratta una merce piuttosto delicata, quella delle comunicazioni telefoniche e digitali, su rame, fibra ottica, gsm, umts, voip, da cui dipendono quasi tutti gli accessi telefonici di casa (anche se il vostro contratto è con un altro gestore, l’accesso diretto alla rete di trasmissione/ricezione, salvo rari casi, è sempre con Telecom Italia) oltre ad essere editrice e proprietaria dei canali tivù LA7 ed MTV.

Si pongono quindi diversi interrogativi, di carattere economico, politico e sociale.

Prima però qualche numero per capire di cosa stiamo parlando.

Telecom è un’azienda privata che al 30 giugno 2009 dichiarava tredici mila milioni di Euro di ricavi, un utile netto di 964 Milioni, un EBTDATA di 5.670 MLN (11.367 MLN al 31 dicembre 2008). In Italia, le linee TIM (ovvero, il numero di schede SIM in circolazione) sono 32,6 milioni, di cui si stima che almeno un terzo sia effettivamente funzionante (le altre sono le cosiddette “linee dormienti”, ovvero schede fornite con i cellulari nuovi che spesso finiscono dimenticate in un cassetto). Sul telefono fisso parliamo di circa 15 milioni accessi cosiddetti “retail” (al dettaglio, residenziali-privati) e circa 6 milioni accessi “whosale” (all’ingrosso, aziendali). L’offerta Alice Casa (45€ al mese) conta 350.000 clienti (lo fate voi il calcolo del guadagno mese/anno?). Il personale in servizio per gestire questo colosso è di circa 60 mila dipendenti. (Quando Telecom era ancora un’azienda di Stato, erano circa il doppio).

Poteva un’azienda come questa rimanere esente dalle brame dei soliti poteri finanziari? Certo che no…

Telecom Italia SPA nasce ufficialmente nel 1994 dalla fusione di 5 aziende: SIP, Italcable, Iritel, Telespazio e SIRM. Nel 1995 viene decisa la scissione della Divisione Radiomobile che porta alla nascita di TIM e poco dopo viene deciso di fondere la STET con Telecom Italia, in previsione della privatizzazione avvenuta nel 1997, sotto la Presidenza Prodi, con la quotazione alla Borsa Italiana che porterà il 6,62% delle azioni collocate in mano ad un gruppo con a capo la famiglia Agnelli.

Il cosiddetto “nocciolo duro” si rivelerà in realtà un ventre molle ed infatti meno di due anni dopo, Telecom cambierà padrone a seguito della famosa OPA di Tecnost, società guidata da Colaninno, dietro al quale si stagliava nitida l’ombra lunga di De Benedetti. Il Governo Italiano avrebbe potuto bloccare l’operazione grazie alla cosidetta “Golden Share”, che avrebbe permesso al Tesoro di porre il veto su un’operazione non proprio trasparente, soprattutto perché non si capiva come un gruppo di imprenditori poco conosciuti potesse mettere le mani su un’azienda enorme come Telecom, ma D’Alema, che nel frattempo era succeduto a Prodi a capo del Governo e indicato come referente politico dell’operazione, si guardò bene dal mettere i paletti nelle ruote dei “capitani coraggiosi”, motivando il fatto che l’Unione Europea non avrebbe accettato tale decisione. Fu così che nel giugno del 99, Tecnost, con un’operazione da 60 mila miliardi di allora Lire, acquistò il 51% della Società che controllava Telecom. Tralasciamo, per carità di patria, le successive operazioni finanziare adottate per consolidare il controllo dell’azienda, perchè non ne usciremmo vivi, e passiamo direttamente al capitolo successivo, ovvero la cessione a Tronchetti Provera avvenuta nel 2001 con l’acquisto della maggioranza del capitale da parte della Finanziaria Olimpia, partecipata da Pirelli, Benetton, Banca Intesa e Unicredito e la Hopa Di Gnutti.

Nel 2005, Telecom rientra in possesso di TIM. Nello stesso anno apprendiamo dal Bilancio che l’indebitamento dell’azienda ammonta a 40 miliardi di euro. L’11 settembre 2006 (guarda un po’ le coincidenze….) il consiglio d’amministrazione dell’azienda decide di riorganizzare Telecom Italia in quattro settori:

- Telecom Italia (telefonia fissa)

- Telecom Italia Mobile (telefonia mobile)

- Telecom Italia Rete (la rete telefonica)

- Telecom Italia Net (Tin.it , internet e media)

Il 15 settembre 2006, dopo l’annuncio dello scorporo di TIM, Marco Tronchetti Provera in polemica con Prodi, passerà la presidenza in mano a Guido Rossi, uomo di fiducia del Premier già ai tempi della prima privatizzazione. Lo scorporo rientrò e TIM rimase solo un marchio. Ormai il Gruppo Olimpia era in balia delle tempeste finanziarie e politiche, a seguito anche del famoso “scandalo delle intercettazioni”. Il 28 aprile del 2007, una cordata italo-spagnola composta da Mediobanca, Assicurazioni Generali, Intesa Sanpaolo, Sintonia e Telefónica rileverà la quota di Pirelli in Olimpia, attraverso la società Telco, arrivando al controllo del 23% circa di Telecom Italia e diventando quindi l’azionista di riferimento del Gruppo. Lo stesso anno fu approvato il piano industriale 2007-2009 che verrà, appunto, rinnovato il 25 febbraio.

Telecom Italia è, oggi, un’azienda impoverita dai continui cambi di proprietà che non hanno saputo garantire la necessaria solidità economica al Gruppo. Sotto la gestione di Tronchetti Provera, ha pure visto la svendita dei propri immobili. Resta solo una base clienti imponente, il monopolio “de facto” del fisso, una redditività immensa a fronte di una montagna di debiti finanziari che pregiudicano, tra le tante cose, lo sviluppo e la modernizzazione delle infrastrutture di Rete.

La paura è che quindi dal nuovo piano industriale venga fuori la solita logica finanziaria e non una vera strategia imprenditoriale, con la necessità di liberarsi dei pesi considerati inutili dai grandi teorici del liberismo, ovvero gli stipendi delle “risorse umane”, attraverso esternalizzazioni, cessioni di rami d’azienda, lo strumento della mobilità, che già oggi coinvolge circa 10.000 dipendenti, e i contratti di solidarietà, già applicati a circa 1000 lavoratori del vecchio “12″.

Come al solito, il rischio è che siano i lavoratori a pagare per le speculazioni finanziarie dei soliti “pirati”…

Telecom Italia è, infatti, un’azienda che produce utili, quantità enormi di utili. Industrialmente parlando è un’azienda fiorente come poche ce ne sono in Italia e nel mondo, eppure è sepolta di debiti.

I nodi, però, stanno venendo al pettine perché siamo di fronte al declino finale di un impero che ha fatto la storia dell’economia e del progresso della nostra nazione. Probabilmente a breve assisteremo a un nuovo cambio di proprietà con la probabile cessione della base clienti a Telefonica, lo scorporo totale di Open Acces (Rete) in società autonoma e una robusta ristrutturazione di tutto il Gruppo, così che l’ultima azienda di telecomunicazioni rimasta a maggioranza italiana, verrebbe a scomparire. Un ulteriore impoverimento della nostra economia e della nostra storia.

Al di là dello sciovinismo nazionalista, che non ci appartiene, è fuori discussione che questa sarebbe una sconfitta economica e politica tremenda per l’Italia, l’ultimo frutto delle scellerate privatizzazioni degli anni ’90, che hanno portato alla rovina decine di altre aziende. E Telecom sarà solo l’ultima, senza che ci sia stato nessun colpevole “morale”, nemmeno un indagato “morale”, dello strazio compiuto in soli dieci anni di privatizzazione. Una privatizzazione disgraziata, creata solo per favorire le solite logiche liberiste che favoriscono i soliti personaggi, nata male, che finirà probabilmente in peggio, con lo spezzatino alla italo-spagnola e qualche decina di migliaia di lavoratori “esternalizzati” ad aziende di dubbia solidità senza che nessuno venga chiamato a rispondere delle proprie responsabilità.

Chissà, magari la prossima volta che farete il 119 o il 191 o il 187 (ma succede anche con i call center di Wind, Tre, ecc ecc) , pensando di parlare con un operatore di Tim / Telecom, vi troverete in realtà dall’altra parte un dipendente di Telecontact, di Comdata, di Phonemedia-Omega, di Abramo o di chissà quale altra azienda di Call Center non meglio identificata, così simili a quell’azienda descritta da Paolo Virzì in un suo recente film.

Già succede, più di quanto possiate immaginare, senza che nessuno se ne accorga … E’ il mercato, baby…

http://www.mirorenzaglia.org/?p=12223

Il carry trade brasiliano, i Rothschild e il BRIC

23 febbraio 2010 (MoviSOl) - Negli scorsi anni, il Brasile ha sviluppato un enorme carry trade che ha consentito a molte banche europee di darsi un'aura di solvibilità. Oltre alle implicazioni finanziarie, questo sistema ha una dimensione geopolitica significativa che interessa la Russia, la Cina e l'India, e cioè quei paesi che LaRouche ha designato, assieme agli Stati Uniti, quali potenziali alleati in una combinazione di potere forte abbastanza da poter imporre una sostituzione dell'attuale sistema finanziario della globalizzazione.

L'impero (britannico) della globalizzazione ha cercato di sabotare questo approccio promovendo un blocco alternativo chiamato BRIC (Brasile, Russia, India e Cina) basato sulla illusoria promessa che una volta crollato completamente il sistema americano, prevarrà quello britannico con l'aiuto, appunto, del carry trade brasiliano (cfr. Strategic Alert 6/10).

Un elemento chiave dietro questa operazione è, non sorprendentemente, il principale banchiere dell'Impero Britannico nei secoli: la famiglia Rothschild. I rapporti tra i Rothschild e il Brasile sono così profondi che il sito web dell'Archivio Rothschild contiene una pagina speciale sul Brasile, l'unica nazione a ricevere queste attenzioni particolari. Vi si legge che "i legami tra NM Rothschild & Sons e la nazione brasiliana risalgono ai tempi del fondatore della banca", nel primo decennio del XIX secolo.

Oggi colui che Lord Jacob Rothschild chiama "il mio quarto figlio", e cioè il finanziere di Sao Paolo Mario Garnero, ha una forte influenza sul governo di Lula da Silva assieme al Banco Santander, istituto nominalmente spagnolo ma in realtà britannico. Quando si verificò una fuga di capitali dal Brasile durante la campagna elettorale del 2002, motivata dai timori che un governo Lula avrebbe portato al caos o ad azioni contro le banche, Santander decise di rinnovare le sue linee di credito al Brasile, mentre Garnero organizzò un viaggio in USA per i consiglieri di Lula, facendoli incontrare con esponenti di Wall Street e della Casa Bianca.

Garnero opera dal 1975 tramite il gruppo che ha fondato e guida ancor oggi, Brasilinvest. Esso ha funto da battistrada per la privatizzazione e la globalizzazione dell'economia brasiliana. Descrivendosi come la prima banca d'affari brasiliana, Brasilinvest poggia su alleanze con la tradizionale finanza anglo-veneziana, ben rappresentata nel suo consiglio d'amministrazione: da Nat Rothschild al Banco Santander, da Hong Kong and Shanghai Banking Corporation al Monte dei Paschi di Siena, da Carlo de Benedetti alla Societé Generale.

Garnero è finito nell'inchiesta Cirio, per cui si sta celebrando il processo di bancarotta fraudolenta. Ricordiamo che le banche che avevano usato la Cirio per fare il loro "carry trade", hanno venduto i bonds ai risparmiatori sapendo che la Cirio era insolvente.

Nel 2004, il Consiglio Internazionale di Brasilinvest tenne la sua riunione annuale a Londra. Tra i partecipanti vi erano due finanzieri chiave per l'operazione BRIC: il re russo dell'alluminio Oleg Deripaska e l'immobiliarista cinese David Tang (DWC Tang Development). Garnero non solo presentò a Lula Deripaska, ma anche il capo del fondo di investimento cinese CITIC.

Lyndon LaRouche ha ripetutamente ammonito i dirigenti russi, cinesi e indiani contro questa truffa che sembra venire dal Brasile, ma è in realtà made in London. Nel giugno 2002, quattro mesi prima dell'elezione di Lula, LaRouche fu invitato in Brasile a discutere con rappresentanti politici, economici e militari, mentre infuriava il dibattito sulla globalizzazione. L'economista statunitense invitò i brasiliani a non cadere nel tranello ma di battersi per sviluppare il potenziale scientifico, tecnologico ed economico del paese. Lula scelse la via opposta, quella di trasformare il Brasile in una pedina degli interessi finanziari centrati a Londra.

http://www.movisol.org/10news040.htm

Italia, svegliati: i soldi di Bruxelles sono a rischio!

Inchiestadi Carlo Cipiciani (Comicomix)
pubblicato il 23 febbraio 2010 alle 10:30 dallo stesso autore - torna alla home

Per aiutare lo sviluppo e per dare una mano all’economia in tempi di congiuntura negativa ci sarebbero anche i fondi strutturali dell’Unione europea. Che nel nostro Paese si spendono troppo lentamente. E l’Europa potrebbe riprenderseli

L’Italia rischia seriamente di perdere i fondi stanziati dall’Unione europea per le politiche di sviluppo e coesione. L’allarme è stato lanciato da un gruppo di eurodeputati di tutti gli schieramenti politici dopo l’incontro con Michele Oasca Raymondo, direttore generale commissione europea per la politica regionale per discutere dello stato di attuazione della hedge money.mini Italia, svegliati: i soldi di Bruxelles sono a rischio!programmazione dei fondi strutturali 2007-2013.

I FONDI STRUTTURALI – I Fondi Strutturali sono lo strumento finanziario che l’Unione Europea ha attivato per aumentare la coesione economica e sociale. Sono risorse impiegate per ridurre il divario tra le regioni e le categorie sociali dell’Unione, riequilibrando le disparità esistenti a livello di sviluppo economico e di tenore di vita. I Regolamenti relativi ai Fondi Strutturali adottati dal Parlamento e dal Consiglio UE prevedono due strumenti: il FESR (Fondo Europeo di Sviluppo Regionale) che finanzia interventi per ricerca, innovazione, protezione dell’ambiente, oltre agli investimenti in infrastrutture nelle regioni più povere e il FSE (Fondo Sociale Europeo), per lo sviluppo delle risorse umane in coerenza con la strategia europea per l’occupazione. C’è anche il Fondo di Coesione, ma non riguarda l’Italia, perché agisce solo nei nuovi Stati membri, in Grecia, Portogallo e – in fase transitoria – Spagna. L’attuazione della politica di coesione in Italia avviene con il Quadro Strategico Nazionale (QSN), che ha fissato i macro-obiettivi e le priorità di attuazione. Per il periodo 2007-2013 la quota di Fondi Strutturali assegnata all’Italia ammonta a 28,8 miliardi di euro, a cui va aggiunto il cofinanziamento nazionale, circa 32 miliardi di euro C’è anche il FAS, Fondo per le aree sottoutilizzate, originariamente 64 miliardi, poi ridotti in varie occasioni da Tremonti per finanziare le varie emergenze (ne abbiamo parlato altre volte).

IL DISIMPEGNO AUTOMATICO –I 28,8 miliardi di euro provenienti da Bruxelles e il cofinanziamento nazionale, che va utilizzato di pari passo, vanno spesi in base ad una serie di priorità in interventi che sono declinati nei Programmi Operativi, attuati o dal livello nazionale (PON) o da quello Regionale (POR). Per incentivare un’attuazione rapida dei programmi, l’Unione Europa ha previsto un meccanismo chiamato “disimpegno automatico”. In base ad esso i soldi assegnati da Bruxelles relativi ad un certo anno vanno spesi entro i due anni successivi, altrimenti Bruxelles se li riprende, assegnandoli ad un altro Paese. Per i primi due anni di attuazione le risorse assegnate a Bruxelles per l’Italia sono pari a 4 miliardi di euro nel 2007 e altrettanti nel 2008. Ad essi vanno naturalmente aggiunti i cofinanziamenti nazionali, arrivando così ad oltre 1Eastern%20Box%20Turtle Italia, svegliati: i soldi di Bruxelles sono a rischio!6 miliardi di euro nel biennio. Gli altri soldi sono suddivisi negli anni successivi, tra 2009 e 2013. In base alle annualità di spesa previste nei piani finanziari, ed al netto di un anticipo che viene comunque concesso dalla Ue, e tenuto conto dei ritardi con cui è partita la programmazione comunitaria, in Italia andavano spesi entro il 2009 3,4 miliardi di euro, mentre gli altri (a spanne, 13 miliardi) andranno spesi entro il 2010.

L’ATTUAZIONE NEL 2009 – Purtroppo in Italia, le procedure amministrative sono lente, e raggiungere i target di spesa fissati da Bruxelles non è cos’ agevole. Il rapporto strategico nazionale elaborato recentemente dal Ministero per lo Sviluppo economico non nasconde le difficoltà: “La spesa a valere sui Programmi operativi al 30 settembre 2009 si presentava ancora molto modesta, per i ritardi di avvio in parte comuni anche ai programmi degli altri Stati membri in quanto derivanti dalla sovrapposizione con le attività di chiusura del ciclo 2000-2006. Tuttavia, il fortissimo recupero registrato ha consentito la integrale certificazione dell’importo in scadenza pari, complessivamente a 3,4 miliardi di euro, superando anzi in alcuni casi la soglia per evitare il disimpegno automatico delle risorse con la sola eccezione del POR FSE Sicilia che infatti ha” perduto” poco meno di 55 milioni di euro di risorse comunitarie”. Insomma, ce l’abbiamo fatta, ma per il rotto della cuffia. Ma per spendere i primi 3,4 miliardi di euro abbiamo avuto quasi 2 anni.

LE DIFFICOLTA’ PER IL 2010 - Ora, abbiamo solo 12 mesi per spendere il resto, circa 13 miliardi considerando i cofinanziamenti nazionali. Questa somma va spesa tutta entro 3bruxelles segnali ripresa1 Italia, svegliati: i soldi di Bruxelles sono a rischio!fine 2010, e circa 6 miliardi di euro sono Fondi strutturali. Se non riusciremo a certificare la spesa totale, Bruxelles se li può riprendere. Sembra un’impresa molto difficile, per varie ragioni. Perché dobbiamo assicurare il cofinanziamento nazionale (7 miliardi circa), e quindi dobbiamo avere i soldi in cassa per poterli spendere. Perché le procedure “ordinarie” italiane sono lente, e da anni nessuno provvede a riformarle. Perché le pubbliche amministrazioni, oltre ai Fondi strutturali devono attuare anche i programmi per l’agricoltura, finanziati dal FEASR, il Fondo per lo sviluppo rurale. Sono circa 41 miliardi di euro per la rete rurale nazionale a cui si aggiungono altri miliardi di euro distribuiti alle diverse regioni per i cosiddetti Piani di Sviluppo rurale. Anche qui vale il principio del disimpegno automatico e anche qui ci sono ritardi nell’attuazione, con l’AGEA (organismo che gestisce i pagamenti a livello nazionale) che ritarda i pagamenti agli agricoltori, sia per le procedure complesse sia per “problemi di cassa”. In totale è una massa di risorse che – se ben spese – sarebbero utili al rafforzamento dell’economia italiana e anche un aiuto – in questi tempi di magra – al sistema economico alle prese con la crisi.

APPELLO ALL’ITALIA – Ma nessuno se ne occupa. Questa faccenda sembra una fastidiosa incombenza per tutti, forze economiche e sociali, media, politica. Invece servirebbe, come hanno ricordato gli eurodeputati italiani di tutti gli schieramenti politici, “un impegno comune affinché siano utilizzate le risorse comunitarie disponibili e siano raggiunte le soglie stabilite per evitare i rischi di disimpegnomime blackbery Italia, svegliati: i soldi di Bruxelles sono a rischio!. Ovviamente, anche spendendo bene le risorse. Servirebbe “responsabilizzare e mobilitare tutta la macchina politica ed amministrativa che interviene nell’attuazione dei programmi e velocizzare le procedure di selezione dei nuovi progetti impegnando risorse per una quota rilevante entro la fine di febbraio, cioè prima della fine della legislatura dove si svolgeranno le elezioni regionali, verificando anche la possibilità di rivedere i vincoli del patto di stabilità interno”. Si misura così la distanza tra le chiacchiere, gli show mediatici e la cultura emergenziale e il fare le necessarie riforme della Pa e delle normative sugli appalti. Adesso, emergenza per emergenza, darsi da fare subito per non perdere i fondi 2010. Invece l’Italia sembra ferma. La responsabilità è di chi governa. A Roma, ma anche a livello locale, specialmente nel sud, dove i ritardi sono più sensibili. Perdere questi soldi europei (che non sono un grazioso regalo:vengono dalle tasse pagate dai cittadini europei, quindi anche da noi) per farli spendere in Germania, o in Spagna, o nei paesi dell’est, dove l’amministrazione è più efficiente, non sarebbe un peccato. Sarebbe un delitto.

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