GLI DO' RAGIONE E SCAPPO 2 SETTIMANE IL THAILANDIA!!!! (zio)
IL PEGGIO E' ALLE NOSTRE SPALLE RELOAD...
2 notizie in "leggera" controtendenza.... ;-)
Crisi, Confcommercio: 2009 si è chiuso con 20.000 negozi in meno
La crisi ha colpito in modo pesante il settore del commercio con il 2009 che si è chiuso con 20.000 negozi in meno. Lo ha detto Carlo Sangalli, presidente della Confcommercio a margine di un convegno a Napoli sulla criminalità organizzata. Continua a leggere questa notizia
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Sangalli ha auspicato che il governo guardi con attenzione al settore nel definire il decreto sugli incentivi previsto per questo mese.
"Noi ci auguriamo che ci sia un'attenzione per quelle realtà del commercio che soffrono, perché certamente gli incentivi vanno visti in un'ottica più generale", ha detto Sangalli.
"Questa crisi ha colpito in modo particolare l'economia dei servizi. Il nostro centro studi ci ha dato un dato che è preoccupante e che sottoponiamo al governo: il 2009 si chiuderà con 20.000 negozi in meno, nel senso che tra mortalità e natalità il 2009 si chiude con un saldo negativo di 20.000", ha aggiunto.
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CRISI: SCAJOLA, IL PEGGIO E' ALLE NOSTRE SPALLE (2) (ANSA) - ROMA, 20 GEN - ''Troppo spesso, consapevoli dei gravi problemi del nostro Paese - ha proseguito il ministro Scajola - ne dimentichiamo le straordinarie qualita'. La consapevolezza di quello che l'Italia sa fare deve essere forte stimolo per abbandonare polemiche sterili, come lei signor Presidente ha tante volte indicato - ha detto rivolgendosi al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano - e lavorare con rinnovato e concorde entusiasmo per il bene comune''. Il ministro ha ricordato i punti di forza del made in Italy che ha raggiunto posizioni di leadership a livello mondiale per oltre mille prodotti di nicchia. Il responsabile del dicastero dello Sviluppo economico ha indicato che occorre puntare sull'innovazione, ''vero motore dello sviluppo, la leva su cui agire per competere al meglio nel mondo post-crisi, creando un rapporto sempre piu' stretto tra imprese, universita', centri di ricerca, banche e pubblica amministrazione''. Scajola ha infine ricordato l'impegno del governo per fronteggiare i problemi congiunturali dell'economia e la stretta creditizia per le imprese e, in tale contesto nei giorni scorsi sono stati assegnati ulteriori 250 milioni di fondi comunitari al Fondo di garanzia per le pmi. (ANSA).
L'inflazione nella crisi
di Ilvio Pannullo
Il 2009 sarà ricordato come l'anno dell'inflazione più bassa degli ultimi cinquant'anni. Stando a quanto calcola l'Istat, nell'anno appena concluso i prezzi al consumo sono aumentati solo dello 0,8%: un record imbattuto dal 1959, quando l'inflazione fu pari a -0.4%. Allora il dato segnava l’inizio di una fase di espansione economica che sarebbe stata successivamente ricordata come uno dei periodi più felici nel dopoguerra italiano.
Dalla fine degli anni ’50, infatti, s’innescò in Italia una fase di rapida trasformazione delle strutture economiche e sociali. Fu un processo che in dieci anni trasformò la penisola da paese prevalentemente agricolo - sostanzialmente sottosviluppato - in un moderno paese industrializzato. Oggi la situazione appare decisamente diversa, nonostante il partito dell’amore, saldamente al governo, dispensi ottimismo per il presente e speranza per il futuro.
Stando ai dati rilasciati dall’Istituto nazionale di statistica nel mese di dicembre 2009, l'inflazione è aumentata di pochissimo: appena un + 0,2% su base congiunturale (rispetto a novembre 2009) mentre su base annua, l'aumento registrato è stato dell'1%. Sempre secondo l'Istat, nel 2008 l'inflazione era salita al 3,3%. Anche l'indice Ipca - quello utilizzato in sede europea ed ora utilizzato anche come base di riferimento per i rinnovi contrattuali (depurato però dei prezzi dei carburanti) - ha registrato un aumento dello 0,8% rispetto al 3,5% del 2008. Pare insomma che i dati descrivano una situazione più che positiva, con i prezzi al consumo stabili e le famiglie italiane pronte a cogliere l’opportunità fornita dall’aumento del loro potere di acquisto.
Peccato che nessuno sembra averlo notato. La statistica è, infatti, una materia molto delicata, una scienza non esatta i cui dati rappresentano più una tendenza che una precisa fotografia della realtà. Basti pensare che, in un'ipotetica società formata da due sole persone, di cui una è proprietaria di due telefoni mentre l'altra è nullatenente, secondo la statistica entrambe avrebbero un telefono a testa. Nell’ipotetica società, dunque, non si registrerebbe - questo almeno secondo i numeri - alcuna anomalia.
Quanto appena detto è necessario per comprendere come sia possibile che, dietro a un costo della vita basso come quello accertato dall'Istat per il 2009, si celi una riduzione del potere d’acquisto e del reddito per milioni di famiglie. Se nel dopoguerra l’inflazione zero segnava infatti l’inizio del boom economico, oggi lo stesso dato statistico descrive tuttavia una realtà completamente diversa. Allora il maggior impulso all’espansione economica venne proprio da quei settori che avevano raggiunto un livello di sviluppo tecnologico e una diversificazione produttiva tali da consentir loro di reggere l’ingresso dell'Italia nel Mercato Comune Europeo, in quegli anni ancora in costruzione. Il settore industriale, nel solo triennio 1957-1960, registrò un incremento medio della produzione del 31,4%. Assai rilevante fu anche l’aumento produttivo nei settori in cui erano presenti le grandi realtà industriali: le autovetture segnarono un più 89%; la meccanica di precisione un più 83%; le fibre tessili artificiali un più 66,8%. Oggi la realtà dell'economia italiana è purtroppo assai diversa.
La recessione che ha investito l'intera economia internazionale ha colpito gli italiani in modo eterogeneo: chi ha perso il lavoro ha avuto un tracollo del reddito e ha dovuto adattare il proprio stile di vita di conseguenza; i redditi fissi, invece, hanno beneficiato dei prezzi bassi guadagnando addirittura potere d'acquisto, un'occasione preziosa per recuperare gli effetti mai smaltiti dell'introduzione dell'euro. Dal 2001 a oggi, centinaia di prodotti - secondo quanto riportato su Milano finanza del 12 gennaio - hanno subito enormi rincari: si va dal 5% per 250 g di burro, il rincaro più basso, al 290% per un cono gelato, il rincaro più alto. Almeno questa è la teoria.
Nella pratica si osserva infatti che nonostante l'inflazione sia prossima allo zero il potere di acquisto delle famiglie italiane ha continuato a ridursi, come peraltro certificato dallo stesso Istituto nazionale per la statistica: nel periodo ottobre 2008-settembre 2009, il reddito disponibile in termini reali è diminuito dell'1,6% rispetto a un anno prima. La domanda dunque si pone spontanea: come si spiega questo mistero? Come’é possibile che a prezzi bassi corrisponda un potere d'acquisto in calo?
La risposta si trova guardando quelli che sono gli unici prezzi a salire in tempo di recessione. Per esempio tariffe e pedaggi, come nel caso delle Ferrovie dello Stato che a dicembre hanno rivisto al rialzo i prezzi dei biglietti, con punte del 20%. Similmente nel 2010 Autostrade per l'Italia, il gruppo acquistato a debito dalla famiglia Benetton, ha deciso un aumento dei pedaggi del 2,4%. E questi sono aumenti che colpiscono tutti e contribuiscono ad innescarne altri: "In un paese dove l'80% dei trasporti avviene su gomma - afferma la Coldiretti - l'aumento dei pedaggi pesa sui costi della logistica che incidono per quasi un terzo sui prezzi di frutta e verdura". E, per restare in tema di logistica, da marzo anche gli scali aeroportuali potranno applicare rincari compresi fra 1 e 3 euro, in base al volume degli investimenti e al numero di passeggeri di ogni scalo.
Ma non finisce qui: dopo un anno di ribassi sono salite le tariffe del gas (€ 26 in più all'anno); si è adeguato il canone Rai aumentato di € 1,5 in più rispetto al 2009; l'assicurazione auto obbligatoria costerà in media ad ogni famiglia € 130 in più all'anno; il ricorso al giudice di pace € 55; la bolletta dell'acqua € 18; la Tarsu (la tassa sui rifiuti solidi urbani) € 35; i servizi bancari € 30 e le rate dei mutui per l'aumento dello spread applicato dalle banche € 80, annullando o quasi il beneficio derivante dai bassi tassi di interesse a livello europeo. Insomma, un'apocalisse di rincari che secondo l’Adusbef e Federconsumatori ammonterà a € 660 annui. Aumenti - è bene ricordarlo - che non dipendono dall'andamento della domanda ma da decisioni quasi sempre di tipo amministrativo, come le tasse, o da rigide condizioni di mercato (come la Rca) o da quello del credito.
La conseguenza di tutto ciò sarà che chi ha un reddito fisso non riuscirà sostenere l'economia approfittando dei prezzi bassi, perché il suo "bonus da inflazione zero" finirà divorato dai vari aumenti delle tariffe, mentre chi avrebbe bisogno di un po' di respiro riceverà il colpo finale. Secondo Federconsumatori "ogni famiglia sarà colpita nel suo potere d'acquisto per mancati introiti dovuti a cassa integrazione, minori guadagni e disoccupazione, per un ammontare complessivo pari a € 565". Mancate entrate che, se sommate ai 660 euro di rincari significano, più o meno, 1000 Euro in meno all'anno. E, se riparte l'inflazione, sarà ancora peggio.
http://www.altrenotizie.org/economia/2961-linflazione-al-tempo-della-crisi.html
BERNASCONI
La lumaca sembra essere giunta in cima al ramo e non possedere molte alternative. Fermarsi, cadere o ritornare indietro da dove é venuta. Malgrado la chiusura a Wall Street su nuovi massimi non ci abbandoniamo all'entusiasmo. Riteniamo di essere in una fase di top a medio termine ed invitiamo alla prudenza. Abbiamo scartato la caduta e favoriamo una pausa ed un ritorno verso il basso.
In Borsa é giunto il momento di essere prudenti ed un cambiamento di tendenza potrebbe essere vicino. Anche per noi é arrivato il momento per fare dei cambiamenti. Dal 1. febbraio parte un nuovo servizio per la clientela privata. A questo scopo apriremo un nuovo sito: www.bernasconiconsult.com Nella rubrica "Il punto dolente" ottenete maggiori chiarimenti.
Ieri le Borse europee sono inizialmente cadute con perdite che superavano l'1%. Come al solito gli europei hanno dimostrato di agire impulsivamente, irrazionalmente e seguendo solo l'esempio di altri (in questo caso i mercati asiatici). Poi si sono riaperti i mercati americani ed é arrivato un'insperato reversal. Gli indici azionari europei hanno ribaltato la situazione chiudendo la seduta con plusvalenze intorno al +0.9%. Il rialzo é proseguito in America e l'S&P500 ha chiuso su un nuovo massimo a 52 settimane a 1150.23 punti (+1.25%). Se a questo punto qualcuno pensava che avessimo già abbandonato il nostro scenario negativo si sbaglia. Evidentemente questa buona seduta (advances/declines a 4583/1333) riapre la possibilità di una continuazione del rialzo ma non cancella il nostro scetticismo. A fronte di 1366 nuovi massimi a 20 giorni (buono ma non eccezionale) troviamo 470 nuovi minimi. Un dato preoccupante che segnala pressione di vendita. Di conseguenza evitiamo di passare dal pessimismo all'entusiasmo e manteniamo un'atteggiamento possibilista ricordandovi quanto scritto ad inizio settimana: "Il quadro generale si degrada e tra rottura dei supporti in Europa e peggioramento tecnico in America vediamo abbastanza nuvole all'orizzonte per indurci alla prudenza. Se tutto va bene i mercati azionari si bloccano in un movimento laterale con l'S&P500 tra i 1150 ed i 1120 punti. Ma l'alternativa é un'accelerazione al ribasso." Il nostro scenario di lunedì 11 gennaio resta valido: "Pensiamo che il potenziale di rialzo sia limitato ed i massimi del 2010 difficilmente superabili (massimi marginali possibili). Il prossimo movimento significativo dovrebbe essere verso il basso ma é ancora troppo presto - i ribassisti devono aver pazienza ed attendere il loro turno. Il trend di base resta rialzista." Ed infine ripetiamo un'avvertimento: "Sconsigliamo speculazioni al ribasso."
Il dollaro americano si rafforza. L'USD Index é salito a 77.50 punti. Il cambio EUR/USD stamattina é a 1.4270. Il rialzo del dollaro sembra riprendere e potrebbe sostenere un'eventuale ribasso delle borse. Notate la debolezza relativa dell'Euro! L'oro stamattina é a 1132 USD/l'oncia - pensavamo che il prezzo del metallo giallo dovesse scendere fino ai 1000 USD prima che il rialzo riprendesse ma forse ci siamo sbagliati. Per ora manteniamo la nostra previsione: "la correzione in atto ha il potenziale di far ridiscendere il valore del metallo giallo sotto i 1000 USD. Il trend a lungo termine é però rialzista ed i 1000 USD potrebbero costituire un'interessante livello d'acquisto."
Leggete il nostro avviso o visitate il nuovo sito !!!
Passiamo ora ad esaminare la situazione (charts a sei mesi) sui singoli mercati.
L'S&P500 (+1.25% a 1150 punti) é di nuovo salito sui 1150 punti, resistenza e massimo a 52 settimane. Non pensiamo che l'indice sia in grado di accelerare al rialzo ma evidentemente ora questa possibilità é concreta. Non abbandoniamo ancora il nostro scenario visto che strutturalmente il mercato non entusiasma: "L'S&P500 dovrebbe quindi bloccarsi in un movimento laterale tra i 1120 ed i 1150 punti."
Il Nasdaq100 (+1.66% a 1895 punti) si é comportato come l'S&P500 e si trova nella stessa situazione tecnica. Ripetiamo quindi la nostra previsione: "Supporto é a 1820 punti. Non abbiamo l'impressione che l'indice sia già pronto ad accelerare al ribasso e per i prossimi dieci giorni favoriamo un movimento laterale tra i 1820 ed i 1900 punti." Oggi non abbiamo neanche l'impressione che un'accelerazione al rialzo sia possibile...
L'Eurostoxx50 (+0.91% a 2984 punti) é prima caduto per poi recuperare con decisione senza ragione tecnica apparente. Questa volatilità ci ha sorpreso e siamo un pò perplessi. Il nostro scenario di base é corretto: "A medio termine vediamo un degrado della situazione. È possibile che l'indice si blocchi ora in un movimento laterale tra i 2940 ed i 3044 punti ma un'accelerazione al ribasso in direzione 2800 punti diventa possibile." ma a corto termine fatichiamo a seguire. Oggi l'apertura dovrebbe essere invariata e non sapppiamo cosa potrebbe succedere.
Il DAX (+0.98% a 5976 punti) si é comportato come l'Eurostoxx50. Anche per questo indice lo scenario a medio termine é corretto con un punto di domanda per quel che riguarda i prossimi giorni: "Prossima forte resistenza é solo a 6150 punti, supporto é sui 5850 punti. Il trend é rialzista e per ora non esistono segnali per un cambiamento di tendenza. Noi però favoriamo a breve l'inizio di un periodo negativo ed attendiamo sviluppi in questo senso." Stamattina il DAX apre in leggero calo (-0.2%).
L'SMI (+0.46% a 6633 punti) si é comportato come il resto dell'Europa mostrando però meno volatilità. Probabilmente su questo indice si sono meno speculatori all'opera. Vi ricordiamo la previsione di lunedì 11 gennaio che restano valide: "Il trend é positivo e l'indice potrebbe salire verso la prossima resistenza a 6850-6890 punti. Come per gli altri indici e malgrado la mancanza di conferme tecniche, noi favoriamo però l'inizio di una fase negativa. Supporto é a 6500 punti." All'inizio di questa settimana abbiamo ristretto il range di oscillazione: "In teoria l'indice dovrebbe bloccarsi in un movimento laterale tra i 6500 ed i 6666 punti (massimo annuale)." e non abbiamo ancora ragioni per cambiare opinione.
Scenario 2010 Per i prossimi mesi prevediamo una sostanziale correzione delle borse dopo il rally di marzo - dicembre 2009. Probabilmento l'S&P500 toccherà nel corso di quest'anno un minimo tra i 740 ed i 820 punti. La performance annuale dovrebbe essere negativa e l'S&P500 dovrebbe terminare il 2010 intorno ai 900 punti. Gli analisti fondamentali stanno continuamente rivedendo le stime degli utili delle società. Ad un certo momento erano scesi fin sotto i 30 USD. Ora che la recessione sembra alle nostre spalle, le stime ufficiali per il 2009 (al 3 novembre 2009) sono risalite a 56.22 USD. Quelle per il 2010 sono addirittura al'incredibile livello di 74.99 USD. Capitalizzando gli utili 2009 con un P/E normale di 15/16 si arriva ad un valore teorico dell'S&P500 di 900 punti. In questi dati é però scontato un recupero marcato dell'economia ed un forte aumento degli utili delle imprese. Ricordiamoci che gli utili operativi 2008 delle società dell'S&P500 sono stati di 15.09 USD. Debitiamo inoltre che i dati relativi al 2010 siano realistici. Di conseguenze stimare ora correttamente gli utili delle società e determinare un giusto rapporto P/E per capitalizzare questo valore é un'impresa ardua. Troppe sono le variabili e le incognite. Se gli utili risalissero solo a 50 USD e la ripresa fosse anemica (come ritiene una buona parte degli economisti), un P/E di 12 sarebbe più adeguato portando il valore teorico dell'S&P500 a 600 USD. Riassumendo, tecnicamente e fondamentalmente i 1115 punti di S&P500 raggiunti a fine 2009 corrispondono secondo noi ad una sopravalutazione del mercato. La prossima dovuta sostanziale correzione ci dirà a quale punto si trova la congiuntura mondiale.
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Comunicare un licenziamento mica è facile. Ci vuole tatto, ci vuole umanità. E che tatto e quanta umanità ha avuto l’amministratore delegato della Fiat, Sergio Marchionne. Pochi giorni fa, Marchionne - per comunicare il licenziamento in tronco di tutti gli operai siciliani della fabbrica di Termini Imerese, in provincia di Palermo - si è limitato a dire che la chiusura del loro stabilimento arriverà puntuale nel 2012. E che questa decisione - quella di chiudere, appunto - è ormai, testuali parole, “irreversibile”. Un po’ come il coma che precede la morte. Amen. Con buona pace delle 1.300 e passa persone che ci lavorano dentro; e pure degli altri 800 operai che lavorano fuori (nelle aziende del cosiddetto indotto).
Duemila i (potenziali) licenziamenti, quindi. E mirabili le ragioni. Punto primo:
“La Fiat - ha detto Marchionne - è un’azienda e ha le responsabilità di un’azienda. Non ha le responsabilità di un governo, è il governo che deve governare. Siamo il maggiore investitore in Italia, ma non abbiamo la responsabilità di governare il paese”.
Tradotto: la Fiat mica è Babbo Natale e i disoccupati non sono affar suo.
Punto secondo:
«A livello globale - ha ricordato Marchionne - la nostra industria ha la capacità di produrre circa 94 milioni di auto all’anno, circa 30 milioni in più di quante se ne vendono. Un terzo di questo eccesso di capacità si trova in Europa (…). La ragione è semplice. I produttori europei semplicemente non chiudono gli impianti. E questo perché ricevono spesso fondi per non farlo. L’ultima volta che un impianto in Germania è stato chiuso, la Seconda Guerra Mondiale doveva ancora iniziare”. “Questo problema coincide con l’apparente determinazione a fare del settore automobilistico l’ultimo bastione del nazionalismo economico del continente. È passato più di mezzo secolo è passato da quando il Trattato di Roma è stato firmato, e i governi europei continuano ancora ad agire come se fossero le infermiere delle rispettive case automobilistiche nazionali, discriminandosi fra paesi“.
Che sempre tradotto, sembra volere dire: cari politici, siamo nel terzo millennio; dovreste proprio piantarla di preoccuparvi tanto e di riempire di soldi le vostre case automobilistiche.
Parole e concetti chiarissimi, per carità. Che fanno tanto imprenditore serio e libero mercato. Ma che sfortunatamente - e sfortunatamente per Marchionne, s’intende - cozzano con altre parole e altri concetti sempre usciti dalla bocca dell’amministratore delegato della Fiat. Perché: non era forse Marchionne quel signore col maglione blu che l’inverno scorso - e precisamente nel gennaio del 2009 - aveva chiesto a gran voce al governo Berlusconi di mettere mano al portafoglio e pagare una ricca messe di incentivi alla rottamazione, pena il licenziamento di 60mila persone? E non è stato sempre Marchionne - questo autunno, a settembre - a invocare con toni apocalittici una proroga dei soliti incentivi per la solita rottamazione, che se no sarebbe successo “un disastro”? E non è forse la Fiat guidata proprio dal signor Marchionne che da quattro anni a fila - quattro anni a fila: 2007, 2008, 2009 e con tutta probabilità 2010 - chiede e ottiene regolarmente gli incentivi di cui sopra, pagati con i soldi di tutti i contribuenti, anche di quelli che la macchina non la cambiano da lustri? Risposta: assolutamente, sì.
E va anche detto - a onor del vero - che Marchionne, nell’andare in giro con il cappello in mano, non ha fatto altro che seguire una consolidata tradizione di famiglia.
Dei Marchionne, cioè? No, degli Agnelli. Che di Fiat sono da sempre i proprietari. E infatti. Per chi avesse scarsa memoria: quattro anni fa - nel 2005, in una intervista a Repubblica - l’allora ministro del Welfare, Roberto Maroni si lanciò in un calcolo a cicche e spanne. E concluse che da quando la bonanima dell’Avvocato Agnelli aveva assunto la direzione dell’azienda, lo Stato aveva trasferito a Fiat - sotto varie voci - qualcosa come un milione di miliardi di vecchie lire. Pari a circa 500 miliardi di euro. Una cifra astronomica, che - disse sempre Maroni tanto per chiarire di quale montagna di soldi si trattasse - sarebbe bastata per comprare la statunitense General Motors. E non quella mezza fallita di oggi. Bensì quella florida di quattro anni fa, quando la General Motors era ancora la prima azienda automobilistica al mondo.
Soldi - bisogna aggiungere - che però la Fiat ha sempre reinvestito. Soprattutto all’estero. Per esempio a Belo Horizonte, in Brasile. Dove - come ha ricordato il Corriere della Sera, domenica scorsa (in un articolo purtroppo non disponibile on line) - la casa torinese ha da tempo una fabbrica da 9.400 dipendenti che produce ben 730mila auto all’anno. E ancora in Polonia. Dove sempre per esempio e sempre Fiat ha un altro stabilimento a Tichy che scodella altre 650mila vetture, ogni dodici mesi. Il risultato? Oggi Fiat produce più macchine in Polonia e Brasile che in Italia (1,4 milioni contro solo 650mila effettivamente made in Italy). E in futuro andrà peggio. Perché Termini Imerese dovrebbe chiudere, e a quel punto rimarranno sull’italico suolo soltanto quattro fabbrichette (a Torino, Cassino, Pomigliano d’Arco e Melfi). E perché una buona fetta dei quattrini guadagnati negli ultimi anni - anche grazie agli incentivi pagati dai contribuenti italiani - sono stati pure loro regolarmente reinvestiti. Ma in Serbia. Lì, Fiat ha deciso di comprare una storica fabbrica di automobili, la Zastava (costo: circa 700 milioni di euro, secondo “il Corriere della Sera”). E - corentemente con il nuovo corso stile “imprenditori del terzo millennio” e “avanti tutta con il libero mercato” - la casa torinese, per l’occasione, ha pure scelto un socio di eccezione, che sarà partner di Fiat con una quota del 33%. Lo Stato serbo.
Dulcis in fundo, gli Stati Uniti. Nella culla del libero mercato, la nuova Fiat targata Marchionne è sbarcata da poco, ma è risucita subito a farsi riconoscere. Fiat, nel 2009, ha messo le mani su uno storico marchio a stelle e strisce: la Chrysler. Cosa nota ai più anche perché ben strombazzata dai mass media tricolori. Meno noto è che la Chrysler “Fiat style” - secondo il “New York Times” - ha già ottenuto 6,6 miliardi di dollari di fondi dallo Stato. Stato (americano, questa volta) che ha anche un ruolo tutto particolare: quello di azionista - assieme a Fiat e ai sindacati - di Chrysler.
Perché, sapete com’è?, il libero mercato è il futuro. Ma per costruire il futuro c’è sempre tempo. E perché siamo tutti liberisti nel “core”. Ma con il portafoglio degli altri.
FINANZA/ I fondi avvoltoi ora volteggiano su Haiti
mercoledì 20 gennaio 2010
Obama fa scuola. Il ministro delle Finanze svedese, Anders Borg, ha proposto all'Ecofin di «discutere la possibilità di introdurre una tassa sulla stabilità» nell'Unione europea, sul modello di quanto fatto dagli Stati Uniti. «Il sistema finanziario dovrebbe pagare per i costi reali che impone alla società e ai contribuenti sotto forma di garanzie statali implicite per le banche con importanza sistemica», ha scritto Borg in una lettera al presidente dell'Ecofin, la spagnola Elena Salgado.
«Una tassa pagata dalle istituzioni finanziarie darebbe un contributo ai nostri sforzi verso il consolidamento finanziario, ma accrescerebbe anche la legittimità delle nostre misure nei confronti del settore finanziario nella pubblica opinione», ha aggiunto Borg, osservando che «inoltre una tassa sulla stabilità aiuterebbe a risolvere il problema delle banche con importanza sistemica e il problema delle “too big to fail” (troppo grandi per fallire) che viene discusso ampiamente in numerosi forum internazionali».
Ovviamente questo non accadrà mai, visto che non siamo nemmeno riusciti a imporre un sacrosanto stress test a livello europeo per le banche continentali, le quali hanno continuato bellamente a nascondere nei bilanci i titoli tossici e a giocare con gli off-balance-sheets come se rimandando la risoluzione dei problemi questi sparissero magicamente da soli.
C'è però un problema ulteriore: Obama, con la sua decisione di chiedere il conto ai giganti di Wall Street, sta giocando una pericolosa mano di poker contro il proprio destino politico. Interpellato dalla Cnbc, Richard Bove, analista della Rochdale Securities, ha infatti definito quanto posto in essere dal presidente Usa «un'espropriazione in stile venezuelano», di fatto accomunando Obama a Chavez e bollandolo di comunismo.
Non è un'accusa da poco negli Usa, tanto più che già la riforma sanitaria ha fatto terminare l'inquilino della Casa Bianca nel mirino degli oppositori con accuse da maccartismo in piena regola. Da almeno dieci giorni diciamo che è in atto una campagna per destabilizzare l'amministrazione Usa, questa è certamente una parte sostanziale di essa.
Il mondo del business più sfrontato non vuole che la crisi diventi l'occasione per porre un argine alla speculazione più bieca e alle pratiche più inaccettabili. Come ad esempio quella di Goldman Sachs, pronta ad annunciare un bonus multi-milionario per i propri dipendenti. Oppure Deutsche Bank, intenzionata ad alzare gli stipendi dello staff. Oppure Citigroup, che festeggia i propri risultati in linea con quanto previsto dagli analisti - una perdita di quasi otto miliardi di dollari, 33 cents ad azione contro i 30 previsti - e dà una spinta alle Borse nonostante il crollo delle revenues: va bene così, sono un mondo a parte e vogliono restare tali. Non fatevi abbindolare dalle notizie come vengono vendute: purtroppo la crisi ha reso solo un certo tipo di capitalismo più aggressivo di prima, poiché ne ha esposto i limiti e quindi creato le condizioni per un suo superamento. Obama, almeno così si vocifera a Londra in ambienti finanziari, era pronto a mettere mano alle dark pools e alle contrattazioni over-the-counter, ma qualcuno gli avrebbe suggerito di lasciar perdere: meglio non toccare troppo gli interessi di Wall Street. La crisi non li ha cambiati, li ha solo resi peggiori. Prendiamo la cronaca di questi giorni. Il Club di Parigi - l'organizzazione che raggruppa i principali Paesi creditori - ha chiesto anche alle altre nazioni di annullare il debito di Haiti, dopo il violento terremoto che ha colpito martedì scorso la capitale Port-au-Prince causando decina di migliaia di morti. «Tenuto conto delle spese finanziarie che Haiti dovrà sostenere per al ricostruzione, il Club di Parigi chiede agli altri creditori di annullare la totalità del debito haitiano», si legge in un comunicato dell'organizzazione, che da parte sua ha già cancellato i 214 milioni di dollari dovuti da Port-au-Prince ai Paesi membri. Fino al settembre del 2008 il debito estero totale di Haiti ammontava a 1,88 miliardi di dollari: oltre ai Paesi membri del Club di Parigi i principali creditori sono Venezuela e Taiwan. Quel debito non sarà mai annullato: verrà comprato dalle banche, le quali poi gireranno il tutto ai vulture funds - i fondi avvoltoi - pronti a battere cassa, non appena l'impegno internazionale avrà rimesso in sesto il paese, con tassi di interesse da usura. È normale, è sempre andata così. Solitamente, occorre essere onesti, alcuni paesi del Terzo Mondo “meritano” le attenzioni dei vulture funds per far conoscere al mondo regimi di satrapi che vivono nel lusso mentre i propri concittadini muoiono letteralmente di fame nonostante miliardi di dollari di aiuti dei paesi sviluppati, in questo caso però siamo alla speculazione pura su una tragedia: a New York come a Londra, si stanno mettendo in pratica strategia per speculare su quei palazzi sbriciolati dal terremoto. Certamente non è core business, qualche biliardino per gonfiare le tasche e garantirsi dividendi più alti: i bonus che le banche, d'affari e non, stanno pagando ai loro manager in questi giorni sono immorali allo stesso modo. Non perché chi produce ed è bravo non meriti un riconoscimento, anzi. Ma perché se ci troviamo in queste condizioni lo dobbiamo alle banche, grandi e medie, non certo ai fondi speculativi che sulla crisi hanno gravato per meno del cinque per cento e come loro abitudine non scatenano tempeste ma salgono in giostra a cose fatte, guadagnano e scappano. Il fatto che in attesa della trimestrale di Citigroup le Borse stessero crollando e, nonostante le perdite del colosso Usa, il fatto di aver buttato al vento “solo” otto miliardi di dollari le abbiamo risollevate un po' dovrebbe farci riflettere su un sistema completamente malato: c'è troppa liquidità sul mercato, troppi soldi facili e a basso costo che governi e istituzioni finanziarie devono smettere di pompare, il prima possibile, puntando anche a un graduale innalzamento dei tassi. La Gran Bretagna pagherà caro, nella seconda metà di quest'anno, la politica di quantative easing disinvolta della Bank of England e anche gli abusi del Tarp statunitense non faranno che portare a logiche perverse come quelle dei bonus accoppiati alle accuse di comunismo ad Obama: il sistema è fuori controllo, o il G20 interviene d'urgenza oppure il peggio potrebbe essere davvero alle porte. La crisi potrà anche terminare, l'economia globale ripartire ma questa logica che sottende il capitalismo in salsa rapace non farà altro che creare le condizioni per altre crisi: ovviamente, vista la debolezza sistemica, sempre più pericolose.
Single e bamboccioni: in crisi è la relazione tra uomini e donne
In qualche città italiana, cominciando da Milano, il numero delle persone che vivono da sole, i cosiddetti single, ha ormai superato quello di chi vive in coppia, o in famiglia. In Italia, oltre un quarto delle famiglie è costituita da una sola persona. Sarebbe però affrettato spiegarlo solo con la «crisi della famiglia». Questo fenomeno, che forse si avvia a riprodurre in Italia lo scenario di città come New York, Chicago, Boston, rappresenta tendenze assai diverse tra loro. Nell’aumento dei single compaiono varie tipologie. Dagli immigrati regolari, che inizialmente si registrano per solito come singoli, alle donne, che vivono più a lungo e si ritrovano spesso sole dopo lunghe convivenze familiari, ad altri e diversi fenomeni. Il nucleo più forte della singleness è però sicuramente costituito dalle aumentate difficoltà nella relazione tra uomo e donna. È a questa fatica di stare insieme che si deve il crescente numero di coppie che si lasciano: ormai circa una su due nelle zone più ricche del Paese, sempre più spesso per iniziativa della donna. Ed è ancora questa difficoltà a far sì che molti giovani (soprattutto donne), decidono di metter su casa da soli, magari dopo aver tentato una convivenza o un matrimonio non riusciti. A tutti costoro va poi aggiunto il vero e proprio esercito di giovani che rimangono in famiglia per opportunità economiche o di «servizio» (le cure della mamma, per esempio). Sono i cosiddetti bamboccioni di cui parlano le cronache. Meno responsabili, per solito, dei veri e propri single, essi uniscono spesso alla condizione di sostanziale solitudine una forte dipendenza verso la famiglia, in particolare verso la figura materna. Sono i classici pazienti degli psicoanalisti, noti al grande pubblico dalle caricature spietate che ne fa Woody Allen in molti suoi film. Deplorati dai ministri dell’Economia, per i quali rappresentano un peso morto, i bamboccioni sono però assai popolari, in Italia, presso alcuni giudici, che spesso condannano i padri a mantenere a vita questi figli, anche se non lavorano né si laureano. Come ha fatto di recente il Tribunale di Bergamo che ha ingiunto a un artigiano trentino di 60 anni di pagare gli alimenti alla figlia di 32 anni, fuoricorso da 8 alla facoltà di Filosofia, avuta dalla prima moglie dalla quale aveva divorziato. Il papà, che ora provvede a una nuova famiglia, l’ha mantenuta fino a 29 anni, e poi ha smesso perché non si decideva a laurearsi (forse sperando di spingerla a farlo). Anche questa figlia, per sentenza del Tribunale a carico del padre, fino a quando non accetterà di mantenersi da sola, fa parte del variopinto esercito single. Una massa sempre più importante nel paese, e, come abbiamo visto dai volti assai diversi. Con però qualche tratto comune. Uno, assente in qualche raro caso (come quello delle vedove, o degli immigrati in attesa di congiungersi alla famiglia in arrivo), è un livello più o meno alto di conflitto, o almeno di diffidenza, tra uomini e donne. Questo tratto è presente anche nel caso della figlia trentaduenne che fa condannare il padre: vicende simili sono spesso, anche, una tardiva vendetta a favore della madre. Osservando bene si vede come la condizione di single si sviluppi nelle smagliature (prima ancora che della famiglia) del rapporto tra uomini e donne, che stentano a intendersi, ad amarsi, a fidarsi l’uno dell’altro. Oggi Adamo ed Eva si allontanano dal giardino dell’Eden ognuno per conto proprio, non sapendo bene che farsene l’uno dell’altro. Con molte paure, a stento mascherate da un’affettività senza entusiasmi e senza gioia.
Le implicazioni per la politica estera americana del voto in Massachusetts
di Mauro Gilli
I risultati delle elezioni in Massachusetts per il seggio di Ted Kennedy hanno portato ad un imprevedibile e largamente inaspettato risultato: la vittoria del candidato repubblicano Scott Brown. Un destino baro per Kennedy. Alfiere della riforma sanitaria per tutta la sua carriera politica, proprio la sua morte, avvenuta alcuni mesi fa, potrebbe aver impedito a questa riforma epocale di venire portata avanti così come i democratici la vorrebbero.
Perdendo in Massachusetts, come tutti i mezzi di informazione stanno ribadendo, i Democratici hanno infatti perso la maggioranza a prova di “filibustering” che li proteggeva dall’opposizione repubblicana al Senato. Non vogliamo però concentrarci su questi dettagli, quanto piuttosto allargare la discussione a quali potrebbero essere le implicazioni di questa elezione per la politica estera americana.
Guns vs Butter? Crediamo infatti che l’effetto delle elezioni in Massachusetts sia particolarmente importante proprio su questo fronte. Alcuni mesi fa, Charles Krauthammer si impegnò in un lungo attacco alla politica estera di Obama, affermando che “il declino è una scelta”. Quell’articolo era viziato da vizi di sostanza, e salti logici – che su Epistemes avevamo allora illustrato. Uno di questi problemi si trovava nell’accusa fatta da Krauthammer all’amministrazione di sottrarre risorse al settore militare per lanciare il piano di assicurazione sanitaria nazionale. In altre parole, nella scelta “guns vs. butter“, gli Stati Uniti andavano verso il secondo proprio quanto – secondo l’opinionista del Washington Post – avrebbero dovuto optare per il primo. Inoltre, scriveva ancora, questa scelta avrebbe causato un aumento del debito, e quindi un futuro peggioramento del tasso di cambio, così creando eventuali ulteriori ostacoli alla mobilizzazione di risorse per la difesa.
Ciò che Krauthammer aveva scritto è teoricamente corretto. Il problema, però, è che la scelta “guns versus butter” non è un vero e proprio trade-off intra-temporale, ma piuttosto uno inter-temporale, visto che le guerre si finanziano generalmente con il ricorso al debito (si veda questo recente lavoro di Scheve e Staavage e anche quelli più datati, ma non meno importanti di Domke et al. e di Chan). Inoltre, per via del particolare sistema finanziario internazionale, gli Stati Uniti hanno una capacità privilegiata di ricorrere al credito a tassi agevolati (si veda il saggio di Fergusson e anche quello di Steil e Litanì). Dunque, ai problemi che Krauthammer identificava, per quanto esistenti, non può essere attribuita la portata che egli assegna loro.
Ricchezza e Potere Militare Piuttosto, la riforma sanitaria così come altre eventuali riforme del welfare state negli Stati Uniti avrebbero avuto – a nostro giudizio – un altro, possibilmente più importante effetto. Stiamo parlando di come avrebbe influenzato gli incentivi al lavoro della popolazione americana. Così come all’inizio dell’età moderna (si vedano per esempio i lavori di Gilpin, McNeill, North e Thomas, e Spruyt), per via della globalizzazione dell’economia, e i vincoli che essa impone agli stati (Strange), il fattore determinante in politica internazionale diventa la capacità degli stati di promuovere e mantenere un alto livello di produttività e quindi di crescita economica (Gilpin). In questo modo, infatti, un paese si può garantire le risorse necessarie ad acquistare i “fattori di produzione della guerra”: gli uomini, e le macchine. Per i paesi – come gli Stati Uniti – che hanno abbandonato il servizio militare obbligatorio, è infatti necessario pagare stipendi competitivi e offrire benefits considerevoli per attrarre i giovani nella carriera militare. Analogamente, per poter disporre di armi tecnologicamente sofisticate e avanzate, gli stati hanno bisogno di laute risorse, così da poter sostenere la ricerca tecnologica alla base dei mezzi progettati, il loro acquisto e la loro manutenzione.
Tutte queste “necessità” potrebbero essere messe in forse da una riforma estesa del sistema sanitario nazionale americano e più in generale da un eventuale allargamento (che per ora è stato solo auspicato da alcuni) del welfare state. Se il welfare state americano diventasse più simile a quello europeo, gli incentivi al lavoro verrebbero modificati sensibilmente. Ciò comporterebbe due significativi cambiamenti. In primo luogo, lavorando di meno, gli americani farebbero “avvicinare” (leggi: diminuire) la crescita economica americana ai livelli europei (si veda questo articolo di un giovane studente di dottorato all’università di Chicago). E così, gli americani perderebbero buona parte della loro capacità di dotarsi del più forte esercito al mondo, avendo meno risorse a disposizione. Analogamente, cambiando gli incentivi interni al mondo del lavoro, molti giovani che oggi entrano nell’esercito, potrebbero avere dei ripensamenti se il beneficio marginale di arruolarsi nell’esercito diminuisse rispetto a quello di eventuali altre opzioni disponibili. (Relativamente a questi temi, si vedano i lavori di Cindy Williams e Curtis Gilroy, in partcolare i seguenti: 1, 2, 3).
Differenze tra America ed Europa Gli americani lavorano più degli europei. Sono le maggiori ore di lavoro negli Stati Uniti che spiegano la maggiore crescita economica rispetto all’Europa (insieme ad altri fattori quali il maggiore afflusso di capitali esteri, il maggiore e più avanzato livello della ricerca tecnologica e la maggiore crescita della popolazione). Ma come mai gli americani lavorano più che gli europei? Non meno importante: come mai, malgrado le enormi possibilità che l’economia americana offre, tanti giovani americani si arruolano nell’esercito, correndo il rischio di morire in guerra?
Robert Kagan, in un famoso saggio “Power and Weakness” (e nel successivo pamphlet Paradise and Power) cercò di dare delle risposte a queste domande. Uno degli argomenti centrali del libro era che gli Europei, avendo preferito la comodità offerta dai loro sistemi di protezione sociale alla durezza del mondo hobbesiano che contraddistingue le relazioni tra gli stati hanno largamente abbandonato il loro interesse per gli affari internazionali. Secondo Kagan, gli europei erano entrati così nel loro “paradiso Kantiano”, un mondo “post-moderno” di pace e tranquillità. Kagan lasciava poi la risposta finale a queste domande ad una celebre, quanto non specificata affermazione: la differenza tra europei e americani si troverebbe nel fatto che i primi vengono da Venere, mentre i secondi da Marte.
Crediamo che Kagan avesse largamente ragione, anche se non specificò in modo chiaro il meccanismo causale che spiegherebbe la differenza di approccio verso il mondo (gli americani lavorano di più degli europei) e verso la guerra (gli americani sono più favorevoli degli europei). A meno di non voler finire in tesi pseudo etnocentriche, la teoria di Kagan rimane monca – anche se probabilmente corretta. L’anello mancante della teoria di Kagan – a nostro modo di vedere – è dato dagli incentivi che i due diversi sistemi politico-sociale-economico nelle due sponde dell’atlantico forniscono.
Veniamo alla prima domanda che abbiamo posto: come mai gli Americani lavorano più degli Europei? Gli Americani lavorano più degli Europei perché devono farlo, e basta. Gli alti tassi di immigrazione, sia di manodopera non qualificata (messicani e centroamericani, per esempio) che di manodopera altamente qualificata (ingegneri e medici indiani e cinesi, per esempio) rendono la competizione nel mercato del lavoro particolarmente serrata. In altre parole, i rapporti di forza non sono dalla parte dei lavoratori – come dimostra l’assai limitata rilevanza dei sindacati (con l’eccezione di alcuni settori protetti dalla competizione internazionale). In secondo luogo, la limitata presenza di forme di garanzie sociali promuove un approccio verso il mondo del lavoro che possiamo descrivere crudamente come “darwiniano”. Così come poteva essere per i nostri nonni o bisnonni, negli Stati Uniti si deve lavorare sodo, specialmente nei settori più avanzati. Questi due fattori non sono sicuramente esaustivi: ve ne sono altri che spiegano le differenze tra Americani ed Europei, come ad esempio il livello di tassazione, la cultura, etc. In generale, però, questi due non giocano un ruolo secondario.
Veniamo ora alla seconda domanda. Come mai tanti giovani soldati entrano nell’esercito? La domanda non è meno difficile della prima. E anche in questo caso, vi è una molteplicità di fattori che congiuntamente produce questo risultato. E’ inevitabile notare, però, che l’assenza di alcuni particolari tipi di servizi sociali giochi un ruolo importante nell’incentivare alcuni gruppi della popolazione ad entrare nell’esercito. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, nell’esercito americano non entrano gli strati più disagiati della popolazione. I requisiti minimi di entrata (IQ prima di tutto) li tengono al di fuori. Non entrano però nemmeno quelli più privilegiati. Prevalentemente, chi si arruola nell’esercito appartiene alla classe media (anche se alla parte povera della classe media). Perché parlare di welfare state allora? Il welfare state è, per metterla in modo molto banale, una redistribuzione di ricchezza all’interno della classe media (si veda questo lavoro che compara il sistema europeo a quello americano. Per quanto metodologicamente non perfetto, fornisce alcuni dati utili e interessanti). Questo è sicuramente vero per i paesi europei. E la portata assai più limitata del sistema di servizi sociali forniti dal governo americano rispetto a quelli europei non è sicuramente irrilevante nella scelta di molti giovani di entrare nell’esercito (si veda questo articolo sul New York Review of Boosk. Sebbene non fornisca conclusioni generalizzabili, in quanto basato su un campione ristretto e selezionato, suggerisce alcune importanti riflessioni. Inoltre, le conclusioni che trae sono in linea con gli studi di Cindy Williams e Curtis Gilroy – il capo della sezione personale al Pentagono. Illustra, per esempio, come le borse di studio per pagare i costosi college americani e l’assicurazione sanitaria siano spesso molto importanti nell’influenzare la scelta di arruolarsi).
Conclusioni Come si collega tutto ciò all’elezione del Massachusetts? Come abbiamo visto, un cambiamento del sistema di welfare state potrebbe avere ricadute molto importanti per gli Stati Uniti. L’assicurazione sanitaria nazionale (tricare) offerta ai soldati gioca un ruolo molto importante sia nel convincere molti ad entrare nell’esercito (enlistment) che a convincerli a rimanere (reenlistment). Estendere la copertura sanitaria nazionale a tutti i cittadini (ovviamente, non verrebbe estesa a tutti, ma non è qui nostro interesse entrare nei dettagli della riforma proposta), avrebbe importanti implicazioni per gli Stati Uniti, e in particolare per la loro capacità di arruolare e mantenere un numero di soldati sufficientemente alto da poterli impegnare là dove necessario. Non meno importante, secondo alcuni, la riforma del sistema sanitario americano sarebbe solo il preludio per un più vasto ripensamento del welfare state.
Come abbiamo scritto, l’era unipolare sta volgendo al suo termine (qui: 1 e 2). Questo trend è indipendente dalle politiche americane, presenti e passate. La crescita della Cina, dell’India e del Brasile, ma anche della Russia e l’avanzamento del processo di integrazione europea pongono le basi per un mondo multipolare in futuro. Quando ciò avverrà, però, è impossibile da dire. Se la Cina cadesse vittima della sua politica economica, e dei disordini sociali dovessero seguire, il suo cammino verso lo status di superpotenza verrebbe bruscamente interrotto. Simili considerazioni possono essere fatte per tutti gli altri paesi, con forse l’unica eccezione dell’India.
Le scelte interne agli Stati Uniti possono accelerare o ritardare questo trend – ceteris paribus, si intende. In questo articolo abbiamo spiegato quali potrebbero essere gli effetti della riforma sanitaria e di una eventuale (e alquanto improbabile, al momento) riforma del welfare più in generale. E’ per questo motivo che il risultato delle elezioni in Massachusetts è particolarmente importante. Perdendo la maggioranza a prova di filibustering, i Democratici non potranno più get it alone.
Proteste in Grecia, agricoltori e trattori un anno dopo
Nuove proteste in Grecia, agricoltori e trattori Nel nostro paese la notizia è passata sotto silenzio. Nella giornata di lunedì, gli agricoltori greci sono scesi in piazza per manifestare dopo quasi un anno dalle ultime grandi manifestazioni. Anche questa volta, la tecnica prescelta è quella molto immediata ed efficace del blocco stradale. I trattori hanno invaso strade ed autostrade ed hanno bloccato 20 principali collegamenti, oltre naturalmente ad aver bloccato l’autostrada principale Atene-Salonicco, già parzialmente inagibile causa smottamenti nelle ultime settimane. Fermo anche il valico di Promachonas al confine con la Bulgaria. Sofia minaccia di chiedere una compensazione per ogni giorno di blocco delle sue merci che restano ferme anzichè transitare verso Italia e Spagna, se il blocco non sarà tolto entro mercoledì. Le proteste si sono estese all’intera nazione dopo essere iniziate il 15 gennaio, con il “solo” blocco di alcune arterie principali e sembrano essere tuttora in corso. Le ragioni della protesta: prezzi all’ingrosso e prezzi al dettaglio “Soldi” Avremmo potuto spendere mille parole e fior di post per le ragioni della protesta, ma preferiamo usare una sola parola, cruda ed immediata. Effettivamente gi agricoltori chiedono al governo aiuto finanziario a causa del crollo dei prezzi di prodotti come il grano, cotone e......... http://informazionescorretta.blogspot.com/2010/01/proteste-in-grecia-agricoltori-e.html
Carburanti. Bye Bye Mr Prezzi
Scritto da Carlo Stagnaro | |
mercoledì 20 gennaio 2010 | |
Non c’è dubbio: questo è il caso in cui ti si nota di più se non ci sei. Dopo la tonante intervista di domenica sul Sole 24 Ore, il Garante dei prezzi, Roberto Sambuco, oggi non ha “potuto” partecipare all’incontro presso il ministero dello Sviluppo economico con le compagnie petrolifere e le associazioni dei consumatori. Presenti il sottosegretario con delega all’energia, Stefano Saglia, il capo del dipartimento per l’impresa, Giuseppe Tripoli, e il capo del dipartimento per l’energia, Guido Bortoni. Al di là delle solite posizioni sbracalate dei consumatori, Saglia ha colto l’occasione per porre – correttamente – la questione del differenziale dei prezzi nell’ottica della concorrenza.
L’obiettivo è ambizioso:
Saglia ha in mano diverse carte. Una è la proposta di riforma del mercato petrolifero che, però, appare inadeguata, perché pretende di ricalcare l’assetto del settore su quello di realtà strutturalmente diverse, cioè l’elettricità e il gas. L’altra è quella di una complessiva, e a lungo attesa, ristrutturazione della rete, che – basta guardare i numeri – è radicalmente diversa da quelle di altri paesi europei: abbiamo molti più distributori, con un erogato medio molto più basso e pochi o nessun profitto da prodotti non oil, oltre a una molto minore diffusione del self service (anche per pigrizia degli italiani, che preferiscono il servito). Su questo terreno, purché sgombrato dalle stanche accuse di cartello, si è registrata una importante disponibilità dell’Unione petrolifera. Il presidente, Pasquale De Vita, ha parlato del taglio di 5-6.000 impianti su 22.450 (tutti i dati si trovano nel Data Book dell’Up). I tasselli per muovere in questa direzione, teoricamente condivisa, sono molti. Anzitutto c’è un problema regolatorio: turni e orari sono ancora soggetti a pesanti interferenze normative, e resistono sostanziali barriere all’ingresso sul mercato (l’ultima moda è quella di imporre l’obbligo di costosi, e land-intensive, impianti per i carburanti eco-compatibili in tutte le nuove stazioni). Poi c’è il tema del superamento dell’attuale rapporto tra gestori e compagnie, che determina un ircocervo in virtù del quale i gestori non sono né veri dipendenti, né veri autonomi. Infine – e questa è la richiesta esplicita e nuova dell’Up, a fronte di un’apertura non scontata – la riforma della rete va inquadrata nel campo più ampio dell’assetto dell’industria petrolifera nazionale. Si legge nella nota dell’associazione: Il settore della raffinazionale nazionale al momento appare essere quello più in difficoltà con perdite che nel 2009 complessivamente a livello nazionale hanno superato il miliardo di euro. Insomma: i petrolieri sono disposti a cedere sulla rete – nella misura in cui sono direttamente interessati dalle riforme – ma chiedono al governo di farsi carico delle conseguenze sociali di tale manovra (chiudere 5-6 mila impianti vuol dire lasciare a casa 5-6 mila gestori ed eventuali dipendenti), e di metterla a sistema con la crisi oggettiva che l’industria sta attraversando. Cioè, accantonare le polemiche sui presunti extraprofitti e gli atteggiamenti alla Robin Hood, e prendere di petto le esigenze di un settore che, comunque, è cruciale rispetto al paese. Il che non significa accettare tutte le richieste dei petrolieri, ma almeno considerarle, capirle e trovare un arrangiamento. Mettendo da parte le pretese posticce e le proposte irricevibili, oltre che incompatibili con norme nazionali e comunitarie. E qui si arriva a Sambuco: a chi giova che un funzionario del ministero, tra l’altro smentendo i propositi dello stesso governo, se ne vada bel bello sul giornale di Confindustria a declamare propositi che tradiscono solo una cultura, teoricamente tramontata, dello Stato imprenditore? Nella sua intervista Sambuco dice alcune cose giuste – su turni e orari e sui prodotti non oil – ma calca la mano sull’impossibile. Di fatto ha in mente un regime di prezzi amministrati, indicizzato ai livelli europei, che prescinde totalmente dalla dimensione concorrenziale del business. Non è fattibile e non è auspicabile. Punto. Da:http://www.chicago-blog.it/ |
TOP SECRET: MANIPOLAZIONI GENETICHE!
Era più o meno la primavera del 2008, e avvicinandoci sempre più all'occhio del ciclone, abbiamo avuto l'occasione di scoprire la leggendaria commissione consultiva Boskin:
" Illuminante è al riguardo un articolo apparso su Finanza & Mercati a firma Fabrizio Russo che ci spiega come nel 1995 la commissione consultiva Boskin, nata per studiare l'aumento dei prezzi sul bilancio federale abbia suggerito al BLS l'applicazione di un calcolo geometrico dell'indice CPI, anzichè aritmetico.Questa volta non è crollata la carne di struzzo, forse come suggeriva la commissione Boskin, oggi per la benzina và di moda la media geometrica e non quella aritmetica e la componente edonistica del petrolio non è richiesta, in fondo è un miglioramento qualitativo e non quantitativo, quel pensiero un pò core che mi suggerisce due considerazioni.
Con le mie parole entro nei dettagli:
a) Se la carne passa da 100 a 161 in 5 anni, la media aritmetica è il 12 % ma quella geometrica il 10 %, quindi indicizzare al 10 piuttosto che al 12 % cambia la vostra pensione.
b) Se la carne di maiale sale e quella di struzzo scende, basta cambiare menù e l'inflazione non c'è più!
c) Ultima magia fu quella di considerare gli "aggiustamenti edonistici"; quindi se un'auto aumenta in media del 10 % in un anno e l'8 % è dovuto al miglioramento qualitativo dell'automobile, la crescita considerata è solo del 2 %, il resto è edonismo puro non richiesto!
Russo prosegue poi con il riferimento al PIL in quanto se dal PIL nominale, sottraiamo l'inflazione ci resta il PIL reale, e qui torniamo al mio amato deflattore che come i lettori sanno, spesso richiamo.
Senza ripetere, per non urtare la sensibilità del pensiero ufficiale e mediatico , che l'economia americana è in recessione, è chiaro che utilizzando la fantasia Boskin persegue una meravigliosa vita virtuale, che solo di tanto in tanto viene interrotta dalla noiosa esperienza del pagamento della spesa alla cassa di un supermercato, ma non vale la pena lamentarsi, prosegue Russo, l'importante è che tutti credano che la festa continua, anche se i musici se ne sono andati a casa da un pezzo.
Forse qui si sbaglia Russo, sul Titanic, sono ancora li che stanno suonando, sulla plancia della nave che affonda, ma suonano ancora!
Un mese circa più tardi e precisamente nel giugno del 2008, suggerii in Cucù,cucù e l'inflazione non c'è più ...
O l'economia americana è alla vigilia di una deflazione o meglio di una "Stagdeflation " oppure le esalazioni del petrolio stanno modificando il buon senso e la consapevolezza.
Ebbene, puntuale come un'orologio svizzero il professor Boskin della Stanford University, facente parte del Council of Economic Edvisers sotto la presidenza di George H.W.Bush, (...non avevo alcun dubbio al riguardo, visto il gruppo di "illuminati" che ha guidato l'economia americana in quel periodo...) torna alla ribalta sul WSJ con un articolo dal titolo " Don't Like the Numbers? Change 'Em ".
Sia ben chiaro nessuna sorpresa, in fondo in questa crisi in nome del rischio sistemico, si sono cambiate parecchie carte in tavola, regole contabili o indicatori magici. La fantasia ha trasformato la realtà, nella stessa maniera nella quale la " Grande Bolla " giapponese degli anni novanta fu trasformata in un doppio decennio perduto.
Ora il discorso del professor Boskin sarebbe ampiamente condivisibile, se non fosse che il pulpito da cui viene la predica è lo stesso di coloro che hanno contribuito ha modificare la realtà con la loro fantasia.
Richiamando lo scomparso Samuelson, Boskin, sottolinea come le misure che conducono alla rilevazione del PIL e dell'inflazione, sono tra i più grandi "successi" del ventesimo secolo, eppure la politica dall'Europa al Sud America, chiede a gran voce un'alternativa.
Dalla proposta Sarkozy di un indicatore alternativo, al PIL emblema di un complotto capitalista di Hugo Chavez, dalle due visioni economiche della Russia di Mikhail Gorbachev all' Argentina del presidente Néstor Kirchner al qual non piaceva le misure di inflazione trasformandola ad immagine e somiglianza. Forse che l'Istat, non ne sappia qualcosa...
Dalle manie di cospirazione contro il governo da parte del Bureau of Labor Statistics, che accompagnavano il presidente americano Nixon, ai milioni di posti di lavoro potenzialmente persi, ma salvati, urlati dall'amministrazione Obama.
Noi di Icebergfinanza, conosciamo bene le magie del modellino statistico stagionale CES/NET BIRTH/DEATH, ne abbiamo conosciute nel corso della navigazione a centinaia, eppure il professor Boskin, predica bene ma razzola male.
Come abbiamo visto e come ci ricorda Barry Ritholtz , Boskin è l'economista che ha contribuito a falsare ufficialmente, l'indice CPI, sino a renderlo meno utile come misura di rilevamento dell'inflazione. La Commissione Boskin, è stata un atto di frode, un metodo ufficiale, per sopprimere il Social Security Cost, ovvero l'adeguamento del costo della vita.
I lettori di Icebergfinanza sanno di cosa sto parlando, nel post UNA SORPRESA IMMOBILIARE dedicato a chi ha contribuito o vorrà contribuire alla nostra navigazione, abbiamo intravisto come la commissione Boskin, aiutò Greenspan ad alimentare la leggenda dell'immobiliare, consentendoli di tenere il livello dei tassi a livelli assurdi, in quanto dopo la modifica, l'indice CPI non fu più in grado di riflettere gli aumenti a doppia cifra in maniera particolare ad opera della follia immobiliare.
Non dimenticate la relazione affitti/prezzi delle abitazioni, è la chiave di volta misteriosa, per comprendere la dinamica dei tassi!
Punti di forza della tecnica della commissione Boskin, sono la " SOSTITUZIONE " ( affitti/prezzi delle abitazioni ) e l' " ADEGUAMENTO EDONISTICO " come abbiamo appena visto.
Queste perle della commissione Boskin, non solo hanno contribuito a nascondere l'inflazione, negli anni passati, ma hanno pure falsato il dato relativo al PIL americano.
Chiaro no, se il costo della bistecca aumenta, il consumatore sostituisce la bistecca, con sorgenti di proteine meno care, pollo o hamburger e quindi l'inflazione non esiste in quanto il prezzo della bistecca anche se sale si sostituisce al volo con quello dell'hamburger o del pollo. Semplice no e cucù, l'inflazione politica, non c'è più!
Per il resto confermo, la mia visione di un' economia reale, che si sta incamminando sempre più, verso un periodi deflativo, periodo che si accompagnerà per tutto il tempo necessario al naturale riassorbimento dell'eccesso di indebitamento e produzione, presente nella stessa economia. Nei prossimi giorni condivideremo un'analisi dettagliata per cercare di comprendere la dinamica in atto.
Fermatevi un ISTAT..nte e riflettete gente, meditate gente, meditate.
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Icebergfinanza come un cantastorie che si esibisce nelle strade e nelle piazze delle città!
La "filosofia" di Icebergfinanza resta e resterà sempre gratuitamente a disposizione di tutti nella sua "forma artigianale", un momento di condivisione nella tempesta di questi tempi, lascio alla Vostra libertà, il compito di valutare se Icebergfinanza va sostenuto nella sua navigazione attraverso le onde di questo cambiamento epocale!
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Postato da: icebergfinanza a gennaio 20, 2010 06:43 | link | commenti (6)
inflazione e deflazione, boskin commissione
http://icebergfinanza.splinder.com/post/22079386/TOP+SECRET%3A+MANIPOLAZIONI+GENE