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Scritto da Carlo Stagnaro | |
mercoledì 20 gennaio 2010 | |
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L’obiettivo è ambizioso:
Saglia ha in mano diverse carte. Una è la proposta di riforma del mercato petrolifero che, però, appare inadeguata, perché pretende di ricalcare l’assetto del settore su quello di realtà strutturalmente diverse, cioè l’elettricità e il gas. L’altra è quella di una complessiva, e a lungo attesa, ristrutturazione della rete, che – basta guardare i numeri – è radicalmente diversa da quelle di altri paesi europei: abbiamo molti più distributori, con un erogato medio molto più basso e pochi o nessun profitto da prodotti non oil, oltre a una molto minore diffusione del self service (anche per pigrizia degli italiani, che preferiscono il servito). Su questo terreno, purché sgombrato dalle stanche accuse di cartello, si è registrata una importante disponibilità dell’Unione petrolifera. Il presidente, Pasquale De Vita, ha parlato del taglio di 5-6.000 impianti su 22.450 (tutti i dati si trovano nel Data Book dell’Up). I tasselli per muovere in questa direzione, teoricamente condivisa, sono molti. Anzitutto c’è un problema regolatorio: turni e orari sono ancora soggetti a pesanti interferenze normative, e resistono sostanziali barriere all’ingresso sul mercato (l’ultima moda è quella di imporre l’obbligo di costosi, e land-intensive, impianti per i carburanti eco-compatibili in tutte le nuove stazioni). Poi c’è il tema del superamento dell’attuale rapporto tra gestori e compagnie, che determina un ircocervo in virtù del quale i gestori non sono né veri dipendenti, né veri autonomi. Infine – e questa è la richiesta esplicita e nuova dell’Up, a fronte di un’apertura non scontata – la riforma della rete va inquadrata nel campo più ampio dell’assetto dell’industria petrolifera nazionale. Si legge nella nota dell’associazione: Il settore della raffinazionale nazionale al momento appare essere quello più in difficoltà con perdite che nel 2009 complessivamente a livello nazionale hanno superato il miliardo di euro. Insomma: i petrolieri sono disposti a cedere sulla rete – nella misura in cui sono direttamente interessati dalle riforme – ma chiedono al governo di farsi carico delle conseguenze sociali di tale manovra (chiudere 5-6 mila impianti vuol dire lasciare a casa 5-6 mila gestori ed eventuali dipendenti), e di metterla a sistema con la crisi oggettiva che l’industria sta attraversando. Cioè, accantonare le polemiche sui presunti extraprofitti e gli atteggiamenti alla Robin Hood, e prendere di petto le esigenze di un settore che, comunque, è cruciale rispetto al paese. Il che non significa accettare tutte le richieste dei petrolieri, ma almeno considerarle, capirle e trovare un arrangiamento. Mettendo da parte le pretese posticce e le proposte irricevibili, oltre che incompatibili con norme nazionali e comunitarie. E qui si arriva a Sambuco: a chi giova che un funzionario del ministero, tra l’altro smentendo i propositi dello stesso governo, se ne vada bel bello sul giornale di Confindustria a declamare propositi che tradiscono solo una cultura, teoricamente tramontata, dello Stato imprenditore? Nella sua intervista Sambuco dice alcune cose giuste – su turni e orari e sui prodotti non oil – ma calca la mano sull’impossibile. Di fatto ha in mente un regime di prezzi amministrati, indicizzato ai livelli europei, che prescinde totalmente dalla dimensione concorrenziale del business. Non è fattibile e non è auspicabile. Punto. Da:http://www.chicago-blog.it/ |
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