La tragedia greca di Goldman

The new Goldman Sachs building downtown reflecting off buildings

Esistono due tipi di nazioni: quelle che controllano le loro finanze e quelle che “sono finanziate”. (Ezra Pound)

C’è bisogno di una sana ammissione da parte delle persone di buona volontà, di quei lavoratori che formano l’ossatura di una nazione con il loro sudore e con il loro risparmio, ed ammettere che siamo stati irrimediabilmente fregati. Ammettiamolo, perché è l’unico passo per una nuova economia, una nuova società, un nuovo corso degli eventi. La dimensione della truffa alla quale tutti noi siamo stati spettatori partecipi ed entusiasti, marionette da applausi comandati, si sta svelando poco a poco, cadendo sotto il peso della grande bugia che regge la nostra società: il debito inservibile.

Se ne è reso conto anche il New York Times (1), è quindi ora che ci sia una presa di coscienza collettiva. Sempre che il livello di anestesia generale non sia già arrivato allo stato comatoso vegetativo: allora saremmo già sconfitti e non avrebbero senso queste parole. La potente lobby finanziaria, capitanata da Goldman Sachs, ha aiutato Grecia, Italia e probabilmente anche la Francia, a truccare i propri bilanci per poter entrare nell’Unione Europea, attraverso un divertente giochino finanziario, chiamato Swap (2), che risultava invisibile nel bilancio presentato all’Unione Europea. Semplice vero? Immaginate se questo avvenisse con il vostro mutuo o la vostra rata dell’auto. Un giorno andate in banca e chiedete di rendere invisibile le vostre rate del mutuo.

Nella realtà sarebbe impossibile ma non nel fantastico mondo della finanza: l’importante è sapere a quali santi affidarsi e quale di essi è capace di fare i miracoli (rendere invisibili i debiti) ed il gioco è fatto. In questo modo i paesi caratterizzati da un alto deficit nell’Unione europea sono stati ammessi alla zona Euro e sono rientrati miracolosamente nei rigorosi standard di Maastricht (3% debito-Pil). Questo gioco non solo conveniva ai paesi con alto deficit, ma anche alla Germania, che oggi si lamenta e non vorrebbe salvare la Grecia, che ha cosi potuto imporre la sua moneta (l’euro è il marco europeo) favorendo le sue esportazioni in Europa.

In questo modo tutti hanno usufruito dei bassi tassi di interessi offerti dalla zona euro, che sono stati usati per indebitarsi fino all’insostenibile. La cosa più vergognosa di questa storia è la commistione fra interessi finanziari e politici che ha portato alla rovina dell’economia mondiale. I dirigenti della grandi banche, (JP Morgan, Goldman, Citigroup) hanno sempre una poltrona calda che li aspetta una volta che finiscono il loro mandato nelle enormi banche finanziarie. Non ci credete? I segretari del tesoro degli Usa degli ultimi anni provengono da Goldman Sachs: Rubin ha servito l’azienda per 26 anni, passando anche come dirigente di Citigroup per poi approdare al Tesoro USA nel 1995 e Paulson, il penultimo segretario del Tesoro era un uomo Goldman dal 1974. Il nostro intoccabile Mario Draghi, alla guida del Tesoro nel 1996, divenne Vice Direttore di Goldman nel 2002 (3) ed insieme a Prodi (altro consulente Goldman e poi scelto, guarda caso, alla guida della Commissione Europea) hanno fatto sparire i debiti grazie all’appoggio di Goldman proprio nel 1996. Poi a Draghi venne offerta la poltrona della Banca d’Italia nel 2006, dopo lo scandalo di Antonio Fazio. Altra casualità. Assistiamo impotenti allo spettacolo delle porte girevoli che collegano finanza e politica, che per anni sono state fatte girare sotto i nostri occhi, consumando il grande inganno pubblico con la speranza di ricchezza per tutti, benessere e profitto semplice per l’umanità. L’economia ha perso completamente il contatto con la realtà, e la finanza ha spolpato poco a poco i settori dell’agire umano: risparmi, immobili, pensioni, potere d’acquisto, tutto è stato cannibalizzato da questi signori delle porte girevoli. Ci aspettano tempi duri: Soros consiglia ancora più controllo ed assistenza istituzionale per salvare il mercato (4). Tradotto significa più potere alle burocrazie non elette e ai centri di potere invisibili. Il miliardario ungherese mette in dubbio anche il futuro dell’euro: memore delle sue battaglie contro la lira e la sterlina che riuscì a crollare in due giorni, starà già pensando a quello che succederà. In un caso o nell’altro può dormire sonni tranquilli: tanto se la Grecia riceverà gli aiuti sperati tanto se fallirà lui guadagnerà grazie ai CDS (Credit Default Swap) che lo coprono in caso di ripudio del debito ellenico. Però questo si, l’importante è che ci sia un governo mondiale, un organismo che vigili, più “controllo ed assistenza istituzionale”. Le care vecchie raccomandazioni del nonno buono.

Pochi giorni fa è uscito anche l’ultimo numero del Leap 2020 (5), gli analisti francesi che fino a questo momento non hanno sbagliato un colpo nell’anticipare le tappe della crisi. Ritengono che il caso greco, altro non sia che “l’albero che cerca di nascondere il bosco”, ovvero che il caso del debito greco offre l’opportunità per distogliere l’attenzione dagli altri due debiti sovrani (USA e Inghilterra) che sono ben più ingenti e voluminosi. Inoltre in questo modo si riesce a debilitare l’Eurozona in un momento in cui attrarre i capitali sul mercato è sempre più difficile e pieno di competizione. Si profila una guerra economica, senza esclusione di colpi bassi tra gli Stati per poter ottenere l’ossigeno, ovvero i capitali, che permettono mantenere la testa nascosta sotto le montagne di debiti che sovrastano gli Stati Nazionali. Un piccolo aumento, seppur impercettibile, del tasso di interesse può provocare una reazione a catena di insolvenze statali, obbligando i grandi debitori ad uscire allo scoperto. Oggi la Grecia, domani il Portogallo, poi Spagna, Italia, Francia e cosi via. Assistiamo impotenti al crollo del grande inganno, perpetrato da banchieri e governi in combutta.

Il nuovo ordine che nascerà da queste macerie non sarà affatto indolore.

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1)http://www.nytimes.com/2010/02/14/business/global/14debt.html?pagewanted=2&sq=goldman%20sasch&st=cse&scp=6

2)http://blogs.reuters.com/felix-salmon/2010/02/09/how-greece-hid-its-borrowing-in-the-swaps-market/ ) Il debito è stato fatto sparire attraverso la trasformazione di quest’ultimo da yen e dollari in euro, con l’aiutino di un tasso di cambio fittizio ideato da Goldman, che permetteva alla Grecia di ottenere molto più credito che con il tasso reale, rendendo il tutto invisibile nel bilancio.

3)http://www2.goldmansachs.com/our-firm/press/press-releases/archived/2002/2002-01-28.html

4)http://www.cotizalia.com/noticias/soros-piensa-rescate-grecia-asegura-futuro-20100222.html

5)http://www.leap2020.eu/El-GEAB-N-42-esta-disponible!-Segundo-trimestre-de-2010-El-repentino-empeoramiento-de-la-crisis-sistemica-global_a4297.html

Basically, It's Over... A parable about how one nation came to financial ruin.

Charles Munger

In the early 1700s, Europeans discovered in the Pacific Ocean a large, unpopulated island with a temperate climate, rich in all nature's bounty except coal, oil, and natural gas. Reflecting its lack of civilization, they named this island "Basicland."

The Europeans rapidly repopulated Basicland, creating a new nation. They installed a system of government like that of the early United States. There was much encouragement of trade, and no internal tariff or other impediment to such trade. Property rights were greatly respected and strongly enforced. The banking system was simple. It adapted to a national ethos that sought to provide a sound currency, efficient trade, and ample loans for credit-worthy businesses while strongly discouraging loans to the incompetent or for ordinary daily purchases.

Moreover, almost no debt was used to purchase or carry securities or other investments, including real estate and tangible personal property. The one exception was the widespread presence of secured, high-down-payment, fully amortizing, fixed-rate loans on sound houses, other real estate, vehicles, and appliances, to be used by industrious persons who lived within their means. Speculation in Basicland's security and commodity markets was always rigorously discouraged and remained small. There was no trading in options on securities or in derivatives other than "plain vanilla" commodity contracts cleared through responsible exchanges under laws that greatly limited use of financial leverage.

In its first 150 years, the government of Basicland spent no more than 7 percent of its gross domestic product in providing its citizens with essential services such as fire protection, water, sewage and garbage removal, some education, defense forces, courts, and immigration control. A strong family-oriented culture emphasizing duty to relatives, plus considerable private charity, provided the only social safety net.

The tax system was also simple. In the early years, governmental revenues came almost entirely from import duties, and taxes received matched government expenditures. There was never much debt outstanding in the form of government bonds.

As Adam Smith would have expected, GDP per person grew steadily. Indeed, in the modern area it grew in real terms at 3 percent per year, decade after decade, until Basicland led the world in GDP per person. As this happened, taxes on sales, income, property, and payrolls were introduced. Eventually total taxes, matched by total government expenditures, amounted to 35 percent of GDP. The revenue from increased taxes was spent on more government-run education and a substantial government-run social safety net, including medical care and pensions.

A regular increase in such tax-financed government spending, under systems hard to "game" by the unworthy, was considered a moral imperative - a sort of egality-promoting national dividend - so long as growth of such spending was kept well below the growth rate of the country's GDP per person.

Basicland also sought to avoid trouble through a policy that kept imports and exports in near balance, with each amounting to about 25 percent of GDP. Some citizens were initially nervous because 60 percent of imports consisted of absolutely essential coal and oil. But, as the years rolled by with no terrible consequences from this dependency, such worry melted away.

Basicland was exceptionally creditworthy, with no significant deficit ever allowed. And the present value of large "off-book" promises to provide future medical care and pensions appeared unlikely to cause problems, given Basicland's steady 3 percent growth in GDP per person and restraint in making unfunded promises. Basicland seemed to have a system that would long assure its felicity and long induce other nations to follow its example - thus improving the welfare of all humanity.

But even a country as cautious, sound, and generous as Basicland could come to ruin if it failed to address the dangers that can be caused by the ordinary accidents of life. These dangers were significant by 2012, when the extreme prosperity of Basicland had created a peculiar outcome: As their affluence and leisure time grew, Basicland's citizens more and more whiled away their time in the excitement of casino gambling. Most casino revenue now came from bets on security prices under a system used in the 1920s in the United States and called "the bucket shop system."

The winnings of the casinos eventually amounted to 25 percent of Basicland's GDP, while 22 percent of all employee earnings in Basicland were paid to persons employed by the casinos (many of whom were engineers needed elsewhere). So much time was spent at casinos that it amounted to an average of five hours per day for every citizen of Basicland, including newborn babies and the comatose elderly. Many of the gamblers were highly talented engineers attracted partly by casino poker but mostly by bets available in the bucket shop systems, with the bets now called "financial derivatives."

Many people, particularly foreigners with savings to invest, regarded this situation as disgraceful. After all, they reasoned, it was just common sense for lenders to avoid gambling addicts. As a result, almost all foreigners avoided holding Basicland's currency or owning its bonds. They feared big trouble if the gambling-addicted citizens of Basicland were suddenly faced with hardship.

And then came the twin shocks. Hydrocarbon prices rose to new highs. And in Basicland's export markets there was a dramatic increase in low-cost competition from developing countries. It was soon obvious that the same exports that had formerly amounted to 25 percent of Basicland's GDP would now only amount to 10 percent. Meanwhile, hydrocarbon imports would amount to 30 percent of GDP, instead of 15 percent. Suddenly Basicland had to come up with 30 percent of its GDP every year, in foreign currency, to pay its creditors.

How was Basicland to adjust to this brutal new reality? This problem so stumped Basicland's politicians that they asked for advice from Benfranklin Leekwanyou Vokker, an old man who was considered so virtuous and wise that he was often called the "Good Father." Such consultations were rare. Politicians usually ignored the Good Father because he made no campaign contributions.

Among the suggestions of the Good Father were the following. First, he suggested that Basicland change its laws. It should strongly discourage casino gambling, partly through a complete ban on the trading in financial derivatives, and it should encourage former casino employees - and former casino patrons - to produce and sell items that foreigners were willing to buy. Second, as this change was sure to be painful, he suggested that Basicland's citizens cheerfully embrace their fate. After all, he observed, a man diagnosed with lung cancer is willing to quit smoking and undergo surgery because it is likely to prolong his life.

The views of the Good Father drew some approval, mostly from people who admired the fiscal virtue of the Romans during the Punic Wars. But others, including many of Basicland's prominent economists, had strong objections. These economists had intense faith that any outcome at all in a free market - even wild growth in casino gambling - is constructive. Indeed, these economists were so committed to their basic faith that they looked forward to the day when Basicland would expand real securities trading, as a percentage of securities outstanding, by a factor of 100, so that it could match the speculation level present in the United States just before onslaught of the Great Recession that began in 2008.

The strong faith of these Basicland economists in the beneficence of hypergambling in both securities and financial derivatives stemmed from their utter rejection of the ideas of the great and long-dead economist who had known the most about hyperspeculation, John Maynard Keynes. Keynes had famously said, "When the capital development of a country is the byproduct of the operations of a casino, the job is likely to be ill done." It was easy for these economists to dismiss such a sentence because securities had been so long associated with respectable wealth, and financial derivatives seemed so similar to securities.

Basicland's investment and commercial bankers were hostile to change. Like the objecting economists, the bankers wanted change exactly opposite to change wanted by the Good Father. Such bankers provided constructive services to Basicland. But they had only moderate earnings, which they deeply resented because Basicland's casinos - which provided no such constructive services - reported immoderate earnings from their bucket-shop systems. Moreover, foreign investment bankers had also reported immoderate earnings after building their own bucket-shop systems - and carefully obscuring this fact with ingenious twaddle, including claims that rational risk-management systems were in place, supervised by perfect regulators. Naturally, the ambitious Basicland bankers desired to prosper like the foreign bankers. And so they came to believe that the Good Father lacked any understanding of important and eternal causes of human progress that the bankers were trying to serve by creating more bucket shops in Basicland.

Of course, the most effective political opposition to change came from the gambling casinos themselves. This was not surprising, as at least one casino was located in each legislative district. The casinos resented being compared with cancer when they saw themselves as part of a long-established industry that provided harmless pleasure while improving the thinking skills of its customers.

As it worked out, the politicians ignored the Good Father one more time, and the Basicland banks were allowed to open bucket shops and to finance the purchase and carry of real securities with extreme financial leverage. A couple of economic messes followed, during which every constituency tried to avoid hardship by deflecting it to others. Much counterproductive governmental action was taken, and the country's credit was reduced to tatters. Basicland is now under new management, using a new governmental system. It also has a new nickname: Sorrowland.

www.slate.com

Liquidating the Empire

Patrick J. Buchanan

A decade ago, Oldsmobile went. Last year, Pontiac. Saturn, Saab and Hummer were discontinued. A thousand GM dealerships shut down.

To those who grew up in a "GM family," where buying a Chrysler was like converting to Islam, what happened to GM was deeply saddening.

Yet the amputations had to be done - or GM would die.

And the same may be about to happen to the American Imperium.

Its birth can be traced to World War II, when America put 16 million men in uniform and sent millions across the seas to crush Nazi Germany and Japan. After V-E and V-J Day, the boys came home.

But with the Stalinization of half of Europe, the fall of China, and war in Korea came NATO and alliances with Japan, South Korea, Taiwan, the Philippines, Thailand, Pakistan and Australia that lasted through the Cold War.

In 1989, however, the Cold War ended dramatically with the fall of the Berlin Wall, the retirement of the Red Army from Europe, the break-up of the Soviet Union and Beijing's abandonment of world communist revolution.

Overnight, our world changed. But America did not change.

As Russia shed her alliances and China set out to capture America's markets, Uncle Sam soldiered on.

We clung to the old alliances and began to add new allies. NATO war guarantees were distributed like credit cards to member states of the old Warsaw Pact and former republics of the Soviet Union.

We invaded Panama and Haiti, smashed Iraq, liberated Kuwait, intervened in Somalia and Bosnia, bombed Serbia, and invaded Iraq again - and Afghanistan. Now we prepare for a new war - on Iran.

Author Lawrence Vance has inventoried America's warfare state.

We spend more on defense than the next 10 nations combined.

Our Navy exceeds in firepower the next 13 navies combined. We have 100,000 troops in Iraq, 100,000 in Afghanistan or headed there, 28,000 in Korea, over 35,000 in Japan and 50,000 in Germany. By the Department of Defense's "Base Structure Report," there are 716 U.S. bases in 38 countries.

Chalmers Johnson, who has written books on this subject, claims DOD is minimizing the empire. He discovered some 1,000 U.S. facilities, many of them secret and sensitive. And according to DOD's "Active Duty Military Personnel Strengths by Regional Area and by Country," U.S. troops are now stationed in 148 countries and 11 territories.

Estimated combined budgets for the Pentagon, two wars, foreign aid to allies, 16 intelligence agencies, scores of thousands of contractors in Iraq and Afghanistan, and our new castle-embassies: $1 trillion a year.

While this worldwide archipelago of bases may have been necessary when we confronted a Sino-Soviet bloc spanning Eurasia from the Elbe to East China Sea, armed with thousands of nuclear weapons and driven by imperial ambition and ideological hatred of us, that is history now.

It is preposterous to argue that all these bases are essential to our security. Indeed, our military presence, our endless wars and our support of despotic regimes have made America, once the most admired of nations, almost everywhere resented and even hated.

Liquidation of this empire should have begun with the end of the Cold War. Now it is being forced upon us by the deficit-debt crisis. Like GM, we can't kick this can up the road any more, because we have come to the end of the road.

Republicans will fight new taxes. Democrats will fight to save social programs. Which leaves the American empire as the logical lead cow for the butcher's knife.

Indeed, how do conservatives justify borrowing hundreds of billions yearly from Europe, Japan and the Gulf states - to defend Europe, Japan and the Arab Gulf states? Is it not absurd to borrow hundreds of billion annually from China - to defend Asia from China? Is it not a symptom of senility to borrow from all over the world in order to defend that world?

In their Mount Vernon declaration of principles, conservatives called the Constitution their guiding star. But did not the author of that constitution, James Madison, warn us that wars are the death of republics?

Under Bush II, conservatives, spurning the wisdom of their fathers, let themselves be seduced, neo-conned into enlisting in a Wilsonian crusade that had as its declared utopian goal "ending tyranny in our world."

How could conservatives whose defining virtue is prudence and who pride themselves on following the lamp of experience have been taken into camp by the hustlers and hucksters of empire?

Yet, now that Barack Obama has embraced neo-socialism, Republicans are about to be given a second chance. And just as Rahm Emanuel said liberal Democrats should not let a financial crisis go to waste, but exploit it to ram through their agenda, the right should use the opportunity of the fiscal crisis to take an axe to the warfare state.

Ron Paul's victory at CPAC may be a sign the prodigal sons of the right are casting off the heresy of neoconservatism and coming home to first principles.

February 23, 2010

Patrick J. Buchanan [send him mail] is co-founder and editor of The American Conservative. He is also the author of seven books, including Where the Right Went Wrong, and A Republic Not An Empire. His latest book is Churchill, Hitler, and the Unnecessary War. See his website.

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La Repubblica degli Evasori

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February 23rd, 2010 by Leonardo

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di Silvano, IHC

Periodicamente ritorna in auge sulla stampa la figura dell’ evasore fiscale (vedi solo a titolo di esempio il recente leitmotiv " un italiano su quattro non paga le tasse "); sempre periodicamente rispunta il dibattito " pagare meno per pagare tutti, o pagare tutti per pagare meno? ".

Viene comunemente dato per assodato che l’Italia sia tra i paesi con un’elevata evasione poiché ha una consistente fetta della propria economia “sommersa”. Tuttavia nessuno si sogna di affermare che è fuorviante lo stesso concetto di economia sommersa. Il cosiddetto “nero” è in realtà quella fetta di transazioni economiche, poste volontariamente e liberamente in essere tra soggetti diversi al fine di trarre un’utilità reciproca, che sfuggono al controllo e/o al prelievo forzoso dell’erario. È semplicemente un ambito economico in cui lo Stato non riesce ad esercitare il monopolio della forza . Niente di più. Altrimenti dovremmo concludere che l’economia termina e coincide con il raggio di azione dei ministeri competenti .

Esistono due gruppi di metodi capziosi per stimare l’evasione ed il sommerso: il primo gruppo è costituito da coloro che la rapportano al PIL, il secondo gruppo invece da quelli che producono stime sul gettito ipotizzando che tutti gli attori economici si comportino come soggetti passivi di imposta nel rispetto dei modi e delle intenzioni del legislatore. Se rapportare l’evasione al PIL è per certi aspetti prossimo alla tautologia, dato che spesso gli uffici di statistica nel determinare il PIL nominale includono una stima aprioristica del sommerso , definire invece l’evasione sulla base di quanto il legislatore pianifica equivale a determinare il mio tasso di onanismo sulla base del numero di donne con cui vorrei, ma non riesco, a congiungermi carnalmente. Sotto un profilo più strettamente economico: molte transazioni, se impostate secondo i dettami legislativi, semplicemente non avverrebbero per vari motivi, sia di costo, sia di tempo, sia di regolamentazione. Non è l’economia italiana ad essere "sommersa". È lo Stato italiano ad essere arrogante e velleitario, a pretendere assai più di quanto può escutere.

Veniamo alla struttura dell’imposizione fiscale in Italia: chi non ha mai sentito discorsi del tipo "le tasse le pagano solo i lavoratori e i pensionati" scagli la prima pietra. Ora, in primo luogo i pensionati non pagano tasse sul reddito : sono i beneficiari netti di trasferimenti di ricchezza e i prelievi IRPEF non sono altro che partite di giro tra INPS e Ministero delle Finanze che in assenza di prelievo fiscale sui ceti produttivi non potrebbe nemmeno aver luogo. Lo stesso dicasi per il pubblico impiego. Nel pubblico impiego il dipendente ha un accredito pari ad una cifra X che corrisponde esattamente all’esborso di cassa da parte dell’erario . È solo nel settore privato che l’esborso del datore è pari ad un flusso di cassa Y superiore allo stipendio x ricevuto dal lavoratore. Sociologicamente parlando chi subisce un sostituto di imposta è un sottomesso, non paga di propria sponte, non ha alcuna presunta superiorità etica a rispetto a chi cerca di non patire tale imposizione. I dipendenti nel momento in cui diventano consumatori e fruitori di servizi se ne fregano delle fatture se queste non hanno alcuna utilità per loro (ex. riduzioni fiscali, prova di avvenuto pagamento, etc.); ceteris paribus, sono lieti di pagare meno il dentista, l’idraulico, l’elettricista o il conto al ristorante. Soltanto un idiota è felice di pagare la benzina alla pompa quasi il triplo del suo costo industriale. Qualunque essere umano normodotato che per volontà o necessità debba utilizzare un’autovettura no.

Premesso questo, sintetizzo brevemente i motivi per cui in Italia l’evasione fiscale può ritenersi confinata nei limiti del fisiologico, dove per fisiologico si deve ritenere il livello entro il quale i costi dell’enforcement delle leggi tributarie sono inferiori ai benefici per lo stato ed il ceto politico.

1) Qualsiasi persona impiegata, percettore di redditi anche marginali, è soggetto a significativi prelievi di natura fiscale e contributiva; anche nel caso di un manovale generico, di un commesso piuttosto che di un magazzinIere tali prelievi difficilmente scendono sotto il 25-30% del costo del lavoro ; ciò non accade o accade assai raramente in paesi similari al nostro, dove le fasce di esenzione sono più ampie e le aliquote inferiori.

2) Comparare i redditi da lavoro dipendente con quelli da lavoro autonomo è fazioso : i primi, in buona sostanza, sono tassati sui ricavi (il salario) mentre i secondi sull’utile (ovvero i ricavi meno i costi sostenuti) ; raffrontare i primi con i secondi è come paragonare le mele con le pere; non c’è da stupirsi quindi che in Italia vi sia un proliferare di partite IVA e lavoratori autonomi rispetto agli altri paesi: vi è un fortissimo incentivo fiscale in tal senso e di questo la ragione ultima va cercata nel legislatore stesso.

3) È necessario operare una distinzione tra il gettito desiderato e quello realizzabile: mediamente, assumendo anche tassi di evasione del 50-60 %, i lavoratori autonomi in Italia versano all’erario cifre del tutto analoghe a quelle dei loro concittadini europei ; ovvero, anche si attenessero letteralmente ai codici tributari, in Austria, Germania, Francia, Regno Unito, etc. pagherebbero imposte simili a quelle che già pagano nel nostro paese "evadendo". È lecito presupporre pertanto che l’amministrazione finanziaria difficilmente sarebbe in grado di estrarre di più da questi soggetti . Certo è possibile obiettare che così la spalmatura del prelievo non risponde ai criteri di equità enunciati nelle intenzioni, ma queste sono appunto intenzioni. In pratica lo Stato (ogni Stato) reperisce i fondi dove è più facile farlo ai minori costi possibili (ivi inclusi quelli di natura politica) così come il proprietario di una miniera comincia ad estrarre dove è più semplice e dove è più conveniente farlo. Delle buone intenzioni è lastricata la via per l’inferno ed ogni buon liberale ha prova grande timore quando lo Stato proclama “buone intenzioni” (dalla cosiddetta giustizia sociale, all’esportazione della democrazia).

A prescindere da considerazioni di carattere economico (ovviamente negative) si può concludere che l’interventismo statale in Italia è assai efficace e coerente con le sue possibilità di espansione. Per dirla terra terra: lo Stato mette le mani nelle tasche dei cittadini quasi al massimo delle sue possibilità in relazione sia all’applicabilità fattuale delle norme che ai costi necessari per l’applicazione stessa ed in virtù di ciò è in grado di operare fortissime distorsioni nelle attività dei privati cittadini.

http://ideashaveconsequences.org/la-repubblica-degli-evasori/leo

Montagne di monnezza elettronica. Di chi?

Feb 1023

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Pubblicato da Debora Billi alle 19:22 in Scenari

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Avverte uno studio dell'ONU: i Paesi in via di sviluppo, se continuano con questo andazzo, saranno nel giro di pochi anni sommersi dai rifiuti elettronici. Cellulari, computers, e gadget di ogni sorta che contengono anche materiali tossici.

Tali oggetti vengono trattati in modo improprio, senza alcun recupero di materie prime e con inceneritori primitivi in Cina e in India. Per il 2020, si prevedono aumenti dei rifiuti elettronici nell'ordine del 500%, 18 volte più cellulari gettati via in India, il doppio o il triplo di televisori e frigoriferi in Cina, e così via.

Preoccupante? Sicuramente. Ma dando un'occhiata al report si scopre una significativa frasetta, la seguente:

Malgrado Paesi come Cina e India ricevano grandi quantitativi di rifiuti importati dall'estero, in questi dati abbiamo incluso soltanto la produzione nazionale. Crediamo che l'inclusione dei volumi di rifiuti importati legalmente o meno (...) non sia appropriata, in considerazione delle attuali discussioni politiche su questi argomenti.

Vorrei capire: stiamo dicendo che Cina e India sono sommerse dall'e-waste, li stiamo tacciando di spreconi e per giunta primitivi, li accusiamo di autoavvelenarsi e poi stendiamo un pietoso velo sul fatto che, se saranno sommersi dai rifiuti, si tratta in buona parte di rifiuti NOSTRI? In realtà poi, quel che analizza il report non è la preoccupazione per i rifiuti tossici che dilagano ovunque, bensì il "potenziale di mercato" per un bel trasferimento di tecnologie sul trattamento dei rifiuti elettronici.

In pratica: prima gli passiamo i rifiuti, poi gli vendiamo i sistemi tecnologici per non morire avvelenati (sempre che funzionino). Shock economy alla grande, direi, e col marchio ONU.

http://petrolio.blogosfere.it/2010/02/montagne-di-monnezza-elettronica-di-chi.html

CINA O USA: QUALE DELLE DUE SARA’ L’ULTIMA NAZIONE A RIMANERE IN PIEDI ?

Argomento: Economia DI RICHARD HEINBERG postcarbon.org Che scemo. Pensavo che i leader mondiali volessero impedire il collasso delle proprie nazioni. Di sicuro sono intenti a lavorare sodo per evitare il collasso della valuta, il collasso del sistema finanziario, il collasso del sistema alimentare, il collasso sociale, il collasso ambientale e l’insorgenza di una miseria generale e travolgente… Giusto? No. L’evidenza ci suggerisce tutt’altro. Sempre di più, sono costretto a concludere che lo scopo del gioco giocato dai leader del mondo in realtà è non evitare il collasso; ovvero, ritardarlo per un po’, in modo che la propria nazione sia l’ultima ad affondare e la propria parte abbia l’opportunità di depredare le carcasse altrui prima di andare incontro allo stesso destino. Lo so, suona insopportabilmente cinico. Ed infatti è possibile che questa non sia una descrizione accurata dell’atteggiamento conscio dei leader delle nazioni più piccole. Ma per gli U.S.A. e la Cina – i due Paesi che più probabilmente apriranno strada al resto del mondo – le azioni parlano più forte delle parole. (Avviso per la sanità mentale dei lettori: chi ha scarsa tolleranza alle cattive notizie dovrebbero fermarsi ora; ci sono un sacco di articoli più allegri su internet; potrebbe essere un buon momento per trovarne uno e goderselo.) > Per queste due nazioni, evitare il collasso richiederebbe la risoluzione di una serie di problemi enormi, di cui almeno quattro sono non negoziabili: il cambiamento climatico, il picco dei combustibili fossili (stagnazione e, presto, declino degli approvvigionamenti energetici), l’inerente instabilità di sistemi finanziari basati sulla crescita, e la vulnerabilità dei sistemi alimentari rispetto a fattori quali la scarsità di acqua dolce e l’erosione del suolo (in aggiunta al riscaldamento globale e alla scarsità di combustibile). Se non si riesce a risolvere anche uno solo di questi problemi, il collasso societale sarà inevitabile, di sicuro nel giro di qualche decennio, ma forse anche solo entro pochi anni. Allora, come vanno le cose per i nostri due concorrenti? Non molto viene detto a proposito del clima, solo vaghe promesse di azioni future. Quindi, è evidente che la strategia in questo campo è ritardare (attenzione, non ritardare gli impatti, ma piuttosto gli sforzi per affrontare il problema). Allo stesso modo, sono poche le azioni concrete intraprese a riguardo dei sistemi alimentari: l’assunto sembra essere che l’agricoltura industriale convenzionale – responsabile della maggior parte delle enormi e crescenti vulnerabilità del sistema alimentare globale – in qualche modo si accollerà il compito di nutrire da sette a nove miliardi di essere umani. Basta continuare a fare ciò che stiamo già facendo, ma su scala più grande e utilizzando un maggior numero di coltivazioni geneticamente modificate. Quanto al picco di energia, esso non è riconosciuto ufficialmente, quindi la strategia adottata è la negazione del problema. Vedremo con che risultati. E che dire del caos finanziario? Per questo aspetto, la situazione diversissima di U.S.A. e Cina giustifica una trattazione più estesa. La Cina sale al comando! Gli U.S.A. sono indebitati fino al collo e, per salvare banche “troppo grandi per fallire”, hanno ipotecato il salario delle generazioni future, più o meno fino a quando l’inferno non si sarà congelato. Al contrario, la Cina ha pile e pile di danaro liquido (risultato dei suoi enormi surplus commerciali) e, per evitare che la valuta dei suo principale cliente perdesse valore, si è comprata una bella fetta del debito statunitense. In questo ambito, sembra proprio che una nazione sia sul punto di scemare, mentre l’altra è pronta fare un balzo per raggiungere il primo posto come superpotenza economica mondiale. Si dà il caso che questo sia un giudizio convenzionale sull’argomento. Non è difficile trovare commentatori che affermino che gli Stati Uniti, per diverse ragioni, sono una potenza del passato. Oltre all’enorme fardello del debito, soffrono di una progressiva riduzione della base manifatturiera, di un notevole disavanzo commerciale, dell’erosione della qualità dell’educazione, e di una politica estera che, mentre serve gli interessi dei produttori di armamenti, mina gli interessi a lungo termine di tutta la nazione. A questo proposito, un sondaggio di opinione condotto da World Public Opinion nel 2006 ha evidenziato che, in quattro importanti nazioni alleate (Egitto, Marocco, Pakistan e Indonesia) che insieme rappresentano un terzo dei musulmani del mondo, la maggior parte della popolazione ritiene che gli U.S.A. siano decisi ad insidiare o distruggere l’Islam. In questi Paesi, la maggioranza degli intervistati appoggia eventuali attacchi a bersagli americani. E si dà il caso che la maggior parte dei futuri approvvigionamenti di petrolio proverrà da nazioni musulmane. Fantastico. Al contrario, la Cina sta vivendo una primavera anfetaminica. Attualmente è il maggiore produttore di automobili del mondo. E, secondo quanto affermato daStuart Staniford in un recente articolo zeppo di dati, “se continuano i trend attuali, entro un paio d’anni il sistema di autostrade cinesi probabilmente sarà più vasto del sistema di strade interstatali degli Stati Uniti, mentre il numero di automobili in Cina supererà quello degli U.S.A. entro il 2017”. Oggi, nel 2010, la Cina è il maggiore produttore di energia idroelettrica e solare ed entro il 2011 sarà anche il maggiore produttore di energia eolica. L’intelligente rete di investimenti della Cina fa apparire insignificante quella statunitense, con un rapporto di 200 a 1. I Cinesi stanno investendo pesantemente anche nell’energia nucleare. Staniford prosegue scrivendo: “Semplificando moltissimo, è come se gli U.S.A. avessero preso a prestito una montagna di soldi dalla Cina per combattere una guerra il cui scopo era liberare il petrolio iracheno in modo che la Cina potesse diventare la più grande potenza industriale che il mondo abbia mai visto”. La politica estera della Cina consiste principalmente nel comprarsi gli amici acquistando diritti su petrolio, gas, carbone e altre risorse (in Canada, Australia, Venezuela, Iraq, Kazakistan e nell’Africa intera); gli U.S.A., invece, spendono denaro che non hanno per estirpare furfanti e, nel mentre, si fanno nuovi nemici. In una conferenza tenuta nell’ottobre 2009, George Soros ha ostentato un candore rincuorante circa la gravità della crisi finanziaria globale in corso: “La differenza [tra la recente crisi economica] e la Grande Depressione è che questa volta al sistema finanziario non è stato permesso di collassare, e lo si è messo in cura intensiva. Infatti [comunque] il problema del credito e dell’indebitamento che abbiamo oggi è di entità persino maggiore che negli anni Trenta”. Soros poi ha proseguito parlando delle rispettive posizioni di U.S.A. e Cina: “Tutti i Paesi, nel breve termine, hanno subito conseguenze negative, ma, nel lungo termine, ci saranno vincitori e vinti. (…) Per dirla senza mezzi termini, gli U.S.A. soffriranno la perdita maggiore mentre la Cina è sul punto di emergere come il principale vincitore. (…) La Cina è stata la principale beneficiaria della globalizzazione e si è trovata in larga misura isolata rispetto alla crisi finanziaria. Per l’Occidente – e per gli U.S.A. in particolare – la crisi è stata un evento che si è generato all’interno portando al collasso del sistema finanziario. Per la Cina, invece, si è trattato di un urto proveniente dall’esterno, che, pur avendo danneggiato le esportazioni, ha lasciato incolume il sistema finanziario, politico ed economico”. La Cina incespica! Ma ricordate: se non si trovano soluzioni al cambiamento climatico, al picco energetico e all’incombente crisi alimentare, vincere la gara finanziaria sarà solo un’effimera consolazione. Prendiamo in considerazione anche solo l’enigma dell’energia: la Cina è in grado di costruire centrali nucleari e generatori eoloelettrici, ma non potrà mantenere a lungo un tasso di crescita annuale dell’8% se l’energia derivante dal carbone rimane invariata o diminuisce. Sommando i progetti di Cina e India, i due Paesi hanno attualmente in programma di costruire ben 800 centrali elettriche a carbone entro il 2020. Ma dove reperiranno il combustibile? La produzione domestica di entrambi i Paesi è già deficitaria e le importazioni sono già cominciate. Ma i Paesi esportatori di carbone non saranno in grado di tenere il passo con la crescente domanda di Cina e India. Inoltre, esiste una scuola di pensiero secondo cui l’apparentemente irrefrenabile miracolo economico della Cina non è che una bolla che sta per scoppiare. Il mercato dei beni immobili di Beijing è surriscaldato, come quello di Las Vegas attorno al 2006. L’anno scorso, il PIL cinese è cresciuto del 9%… sulla carta. Ma per raggiungere quell’obiettivo, il governo e le banche hanno dovuto concedere prestiti per un importo pari al 30% del PIL (il tasso di crescita nei prestiti è accelerato nell’ultima parte dell’anno; ai tassi registrati alla fine dell’anno, le banche avrebbero dato a prestito una somma pari all’intero PIL nazionale previsto per il 2010). In ogni caso, probabilmente molta parte di tale crescita si è verificata attraverso speculazioni su beni immobili e azioni dubbie. In generale, la Cina è ad uno stadio di sviluppo economico da selvaggio West: è un’accozzaglia di influenti basi di potere capitalistico locali che non devono rendere conto a nessuno, tutte intente a destreggiarsi per creare e inflazionare patrimoni e credito. Di recente, il governo centrale ha esercitato un certo controllo sulle banche, ma la sua abilità di fermare gli schemi Ponzi a livello locale è ancora limitata. In gennaio, la commissione regolatoria bancaria cinese ha tentato di mettere un freno ai prestiti per rallentare il rapido incremento di valore dei beni immobili e del mercato delle azioni. (C’è da dire però che nello stesso mese il gabinetto cinese ha deciso di permettere operazioni di margin trading e vendite allo scoperto per lanciare un indice di futures.) Comunque, è significativo che ci siano prove del fatto che i tentativi della banca centrale della Cina volti a deflazionare in modo innocuo le bolle dei mercati immobiliari e della borsa probabilmente non stiano funzionando. Secondo Joe Weisenthal di Business Insider , l’improvvisa sospensione dei prestiti "ha colto di sorpresa gli importatori e molte altre società, e potrebbe causare turbolenze negli ordini di importazione della Cina. Le lettere di credito sono improvvisamente divenute indisponibili nonostante gli accordi pregressi. Crediamo che questo porterà inevitabilmente a ritardi o cancellazioni nelle importazioni della Cina. È probabile che l’impatto maggiore riguarderà gli ordini relativi a beni di consumo e macchinari". Traduzione: il governo si è trovato di fronte ad una scelta: lasciar scoppiare una bolla in rapida crescita, affossando il mercato, oppure deflazionare deliberatamente la bolla, rischiando di affossare l’economia per un’altra strada. La banca centrale ha scelto la seconda opzione ed è possibile che tale azzardato affossamento si stia palesando ora. Nel frattempo, Google e l’Amministrazione Obama esercitano pressioni esterne sulla Cina al fine di allentarne la censura sulle comunicazioni elettroniche; secondo alcuni, queste mosse sono da interpretare come una riduzione delle opzioni del governo centrale per controllare sia il flusso delle informazioni che l’economia. In un recente controeditoriale, il rubricista del New York Times Tom Friedman ha ribattuto alle espressioni di preoccupazione circa l’esplosione della bolla cinese con una robusta manifestazione di fiducia nell’irrefrenabile spinta espansionistica di Beijing. Considerando il passato di Friedman (ricordate le sue rubriche nel 2003, in cui celebrava i benefici di cui l’America avrebbe goduto con un’invasione dell’Iraq?), questo è sufficiente a generare dubbi in merito ai tempi più o meno brevi del deragliamento della locomotiva cinese. Cosa significa "Vincere"? Nel suo Reinventing Collapse: The Soviet Example and American Prospects (‘La reinvenzione del collasso: l’esempio sovietico e le prospettive americane’), Dmitry Orlov tratta il “gap di collasso” tra Stati Uniti e vecchia Unione Sovietica: questa, egli sostiene, in effetti era molto meglio preparata alla crisi economica e alla caduta del proprio governo centrale; quando gli U.S.A., prima o poi, seguiranno la strada dell’U.R.S.S., il dolore e la sofferenza dei cittadini sarà di gran lunga maggiore. (Qui non posso riassumere in maniera adeguata le prove e i ragionamenti di Orlov, ma sono convincenti; se non avete ancora letto il libro, fatevi un regalo.) Quindi: qual è l’attuale situazione degli U.S.A. in termini di preparazione al collasso rispetto alla Cina? Dopo sessant’anni di crescita economica quasi ininterrotta, gli Americani hanno sviluppato aspettative per il futuro che non sono realistiche. Sono consumatori urbanizzati la cui capacità di produzione si è raggrinzita e le cui abilità pratiche di sopravvivenza sono, nella maggior parte dei casi, rudimentali. Al contrario, i Cinesi si affacciano su un baratro molto meno ripido. La maggior parte vive ancora in campagna, e molti di quelli che vivono in città distano una sola generazione dall’agricoltura di sussistenza e sono ancora in grado di affidarsi alle competenze pratiche, proprie o dei propri genitori, acquisite durante decenni di povertà e di immersione in una cultura agricola tradizionale. Entrambe le nazioni si trovano di fronte a feroci sfide politiche. Negli U.S.A., il governo centrale è ormai quasi completamente paralizzato: è evidentemente incapace di risolvere persino problemi relativamente minori e la fiducia risposta in esso dalla maggioranza dei cittadini è in larga misura evaporata. I leader politici sono riusciti a polarizzare geograficamente la gente con questioni che stimolano l’emotività, poche delle quali hanno a che fare con i fattori che attualmente minano la capacità di sopravvivenza della nazione. Il governo centrale cinese sembra molto più capace di agire in modo deciso e strategico, ma deve affrontare spinose questioni geografiche e storiche: il divario economico e sociale tra le ricche città costiere e l’interno povero e rurale è estremo e crescente; ed esiste uno scisma demografico tra chi ha meno di 40 anni ed elevate aspettative economiche, e le generazioni più anziane cresciute sotto Mao, la cui etica è fondata su collettivismo e abnegazione. I giovani, specialmente, hanno accettato lo scambio tra libertà civili e prosperità economica. Ma questa non sarà data, le prime saranno richieste con forza. Se le aspettative dovessero essere disattese, la profondità di queste divisioni sarebbe sufficiente a lacerare la società, e i leader lo sanno bene. Quindi, nell’eventualità di un collasso, entrambe le nazioni si troverebbero di fronte alla possibilità di un crollo dei sistemi politici con conseguenti violenze diffuse (rivolte e repressioni). La Cina continua ad essere in vantaggio in un’area cruciale: il sistema alimentare. Nonostante i recenti trend di rapida urbanizzazione, molti cittadini coltivano ancora il proprio cibo (negli U.S.A., i coltivatori a tempo pieno si aggirano attorno al 2% della popolazione e il coltivatore medio si sta avvicinando all’età pensionabile). Ciò non implica che la Cina sarà capace di dar da mangiare a tutta la sua popolazione; sta già diventando uno dei principali importatori di prodotti alimentari. Nel frattempo, gli U.S.A. sono ancora un importante esportatore di alimenti. La principale differenza sta nella resilienza dei rispettivi sistemi: quello degli U.S.A. è più centralizzato e più dipendente dagli idrocarburi e, quindi, probabilmente più vulnerabile. La geopolitica del collasso è facile capire perché la preparazione al collasso è un vantaggio per la cittadinanza: meglio si è preparati e più persone sopravvivranno. Tuttavia, c’è da chiedersi se un tasso più elevato di sopravvivenza, durante e dopo il collasso, si traduca in un vantaggio geopolitico. Il processo del collasso sarà determinato da molti fattori, alcuni dei quali difficili da prevedere, e quindi è arduo anticipare l’entità o la portata della struttura del potere politico che eventualmente riemergerà nell’uno e nell’altro Paese. È possibile che una o entrambe le nazioni si trasformino in una serie di unità politiche più piccole in conflitto tra loro e incapaci di impegnarsi più di tanto nelle manovre globali per l’approvvigionamento delle risorse. Le nuove unità politiche emergenti all’interno degli attuali territori della Cina e degli U.S.A. sarebbero immediatamente assalite da enormi problemi pratici, tra cui povertà, fame, disastri ambientali e migrazioni di massa. è presumibile che rimarranno intatti ed utilizzabili dei potenti armamenti dell’era della guerra globale. Quindi, in teoria, è possibile che una di queste entità politiche più piccole possa affermarsi sul palcoscenico mondiale come impero contingente e di breve durata, con una portata geografica limitata. Ma anche in quel caso “vincere” la gara del collasso sarebbe solo una piccola consolazione. La possibilità di un conflitto armato tra le due potenze prima del collasso non può essere completamente esclusa, ad esempio, se gli sforzi statunitensi di contenere le ambizioni nucleari dell’Iran faranno scattare una mortale reazione a catena di attacchi e contrattacchi, in cui magari sia coinvolto Israele, e che costringeranno le potenze mondiali a scegliere un campo; oppure se gli U.S.A. persisteranno nell’armare Taiwan. Ma né gli U.S.A. né la Cina vogliono un confronto militare diretto, ed entrambe le nazioni sono molto motivate ad evitarlo. Di conseguenza, fortunatamente una guerra nucleare senza esclusione di colpi – che è ancora il peggior scenario immaginabile per l’homo sapiens e il pianeta Terra – sembra improbabile, sebbene sia possibile che, in qualche caso, l’una o l’altra nazione usi queste armi nei prossimi decenni. Le guerre commerciali sono un’altra questione e, secondo Michael Pettis (Financial Times) , potremmo persino assistere ad una di queste guerre nel corso di quest’anno: “(…) gli squilibri commerciali sono più necessari che mai a giustificare l’aumento degli investimenti in Paesi con surplus [cioè la Cina], ma la crescente disoccupazione li rende politicamente ed economicamente inaccettabili nei Paesi in deficit [cioè gli U.S.A.]. L’aumento del risparmio negli U.S.A. si scontrerà con il risparmio ostinatamente alto in Cina. A meno che non si elabori immediatamente una soluzione congiunta a lungo termine, il conflitto commerciale peggiorerà e sarà sempre più difficile invertire le politiche offensive. Aspetto ancora più importante, se i Paesi deficitari esigeranno un cambiamento strutturale più veloce di quanto i Paesi in surplus possano gestire, finiremo quasi certamente con un’orrenda controversia commerciale che (…) avvelenerà le relazioni per anni”. Quanto probabile è la prospettiva che l’ultima nazione in piedi possa – come mi sono espresso nel primo paragrafo – “depredare le carcasse” dei propri concorrenti? Un simile scenario presuppone che tale nazione possa rimanere in piedi per almeno qualche anno dopo la caduta delle altre. Ma forse questo non è possibile. Si ricordino le parole profetiche di Joseph Tainter in The Collapse of Complex Societies (‘Il collasso delle società complesse’, 1988): "Una nazione oggi non può più collassare in maniera unilaterale perché se un qualsiasi governo nazionale si disintegra, la sua popolazione e il suo territorio sono assorbiti da un'altra nazione [o sono salvati da agenzie internazioni] (…) Questa volta il collasso, se e quando si verificherà di nuovo, sarà globale. Non è più possibile che una qualsiasi nazione singola collassi." Quando l’U.R.S.S. è crollata, gli U.S.A. e diverse multinazionali hanno potuto fare incursioni e divorare un po’ dei tesori rimasti in giro. Un esempio: da molti anni il combustibile usato dalle centrali nucleari statunitensi è uranio cannibalizzato dalle vecchie testate missilistiche sovietiche. Subito dopo, alcuni istituzioni internazionali come la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale contribuirono presto ad organizzare nuove strutture finanziarie in Russia, Ucraina, Bielorussia, Lituania, Estonia e negli altri Paesi sorti dalla disintegrazione politica ed economica sovietica, così da limitare e invertire il processo di disintegrazione sociale che era già cominciato. Ma ora il gioco è cambiato. Un collasso degli U.S.A. devasterebbe la Cina. Beijing perderebbe il suo cliente principale. Non solo. I buoni del tesoro accumulati per centinaia di miliardi di dollari diverrebbero privi di valore. Se la Cina fosse stabile internamente, sarebbe possibile assorbire un tale urto, seppure con qualche difficoltà. Ma alla luce dei problemi sociali e finanziari che ribollono in Cina, un collasso degli U.S.A. sarebbe quasi certamente sufficiente a gettare l’economia di Beijing in un vortice che originerebbe crisi sia sociali sia politiche. Un collasso della Cina devasterebbe gli U.S.A. in modo simile. Ovviamente, la perdita di una fonte di prodotti di consumo a basso prezzo sconcerterebbe i clienti di WalMart, ma lo shock andrebbe molto più a fondo. Il Tesoro perderebbe il principale acquirente straniero del debito governativo, per cui la FED sarebbe costretta ad intervenire monetizzando il debito (in parole povere, dovrebbe “accendere le stampatrici della zecca”), compromettendo quindi il valore del dollaro. Il risultato: un crollo economico iperinflazionario. Un tale crollo, comunque, è probabilmente inevitabile a un certo punto, ma sarebbe velocizzato e aggravato da un eventuale collasso del sistema cinese. In ogni caso, le istituzioni internazionali mondiali non sarebbero capaci di prevenire le sostanziali ricadute sociali e politiche. E l’ultima nazione a restare in piedi non resterebbe in piedi a lungo. Abbiamo raggiunto la fase in cui, come afferma Tainter, “la civiltà mondiale si disintegrerà nella sua totalità". La maratona della transizione Ok. I leader statunitensi e cinesi non stanno facendo nessun serio sforzo per evitare il collasso nel lungo termine (vale a dire, nei prossimi 10-20 anni). Forse la ragione è che sono giunti alla conclusione che sia un’impresa impossibile; troppi trend portano nella stessa direzione, e in effetti gestirne di petto uno qualsiasi comporterebbe enormi rischi politici nell’immediato. In realtà, comunque, è molto più probabile che i leader stiano semplicemente rifiutando l’idea di riflettere seriamente su questi trend e sulle loro implicazioni, perché dispongono di un’alternativa: posporre il collasso mediante spesa in disavanzo, salvataggi, e ulteriori bolle finanziarie, mentre recitano la propria parte nel teatrino kabuki delle politiche sul clima e si dedicano alla geopolitica delle risorse. In questo modo, almeno, il biasimo cadrà sulla prossima generazione di leader. Posticipare il collasso è di per sé un grosso lavoro, sufficiente a far sì che tutta l’attenzione sia dirottata altrove rispetto alla contemplazione della natura terribile e inevitabile di ciò che si sta posticipando. Ma il rischio di dissoluzione è in qualche modo ridotto da questi sforzi a breve termine? Mhm, difficile che sia così. Infatti, più si ritarda la resa dei conti, e peggiore sarà. Piuttosto che tentare di ritardare l’inevitabile, avrebbe più senso, semplicemente, costruire resilienza in tutta la società e rilocalizzare i sistemi sociali essenziali concernenti il cibo, la produzione e la finanza. Non c’è bisogno di ripetere il discorso corrente su questa strategia: i lettori che non lo conoscono possono trovare consigli in abbondanza su www.transitiontowns.org , o nei libri e negli articoli di autori quali Rob Hopkins, Albert Bates, David Holmgren, Pat Murphy, e Sharon Astyk (e anche in qualche mio scritto, ad esempio Museletter #192 ). Comprensibilmente, per i politici nazionali è difficile pensare lungo queste linee. Costruire la resilienza societale significa trascurare i dettami dell’efficienza economica; significa ridurre sistematicamente il governo centrale e le istituzioni commerciali nazionali/globali (banche e corporation). Significa anche mettere in discussione il dogma centrale del nostro mondo moderno: l’efficacia e possibilità di una crescita economica senza fine. Quindi, l’esito migliore risiede in una strategia di resilienza e rilocalizzazione, ma i nostri leader nazionali non possono neppure contemplare una tale strategia, il che significa che quei leader sono, almeno in un certo senso, irrilevanti per il nostro futuro. Alcuni lettori sono così in sintonia con questa linea di pensiero da ritenere che non abbia più senso prestare attenzione alla scena globale. È persino possibile che ritengano che questo articolo sia una perdita di tempo (mi aspetto di ricevere un paio di e-mail in tal senso). Ma seguire gli eventi mondiali è più che una questione di informazione-intrattenimento: quando e come la Cina e gli U.S.A. si sfasceranno è un problema con conseguenze molto maggiori che se il Superbowl sarà vinto dai Saints di New Orleans o dai Colts di Indianapolis. La realtà è che nessuna nazione, nessuna comunità, sarà in grado di proteggere se stessa dai venti improvvisi e violenti che riempiranno rapidamente il vuoto lasciato dall’implosione dell’una o dell’altra superpotenza. A proposito, mi scuso con le altre 190 nazioni circa del mondo, grandi e piccole: il fatto che in questa discussione mi concentri su U.S.A. e Cina non significa che gli altri Paesi siano privi di importanza, o che i loro destini non saranno unici quanto le loro culture e le loro geografie; è solo che, probabilmente, i loro destini si dispiegheranno nel contesto del collasso globale che si diffonderà dalle due nazioni di cui stiamo parlando. Per qualsiasi nazione – l’India, la Bolivia, la Russia, il Brasile, il Sudafrica – e per qualsiasi comunità o famiglia, la sopravvivenza richiederà un certo grado di comprensione della direzione presa dai grandi eventi, per riuscire a togliersi di mezzo quando voleranno i detriti e saper individuare in anticipo le opportunità per riorganizzarsi. Quindi, prestate attenzione ai bollettini meteorologici da Washington e Beijing e nel frattempo costruite la resilienza locale ovunque vi troviate. Se il tetto ha bisogno di essere riparato, non cincischiate. Nel frattempo, dopo una lunga giornata trascorsa ad organizzare gli orti collettivi della Transizione, potreste voler pregustare l’America del post-collasso leggendo A World Made by Hand (‘Un mondo fatto a mano’) di James Howard Kunstler; o assaporare trattazioni piacevolmente erudite del collasso visto come un processo esteso (come probabilmente sarà) o come evento improvviso ed estremo, leggendo i libri di John Michael Greer The Long Descent (‘La lunga discesa’) e The Ecotechnic Future (‘Il futuro ecotecnico’). Anche se il cielo sta per caderci sulla testa, non vuol dire che sia ora di smettere di pensare. Richard Heinberg Fonte: www.postcarbon.org Link: http://www.postcarbon.org/article/67429-china-or-the-u-s-which-will 3.02.2010 Scelto da PAOLO CASTELLETTI e tradotto per www.comedonchisciotte.org da ORIANA BONAN
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IL CASO IRAN

Argomento: Iran DI FRANCO CARDINI diorama.it/ Qualcosa di molto grave si sta profilando in Occidente: qualcosa che forse minaccia il mondo. E’ uno scenario che purtroppo abbiamo già visto. Tra 2002 e 2003 i governi statunitense e britannico inscenarono una pietosa e vergognosa commedia cercando di far credere al mondo che l’Iraq di Saddam Hussein fosse in possesso di pericolose armi segrete di distruzione di massa. Era incredibile: e infatti chi aveva capacità di comprendere e di assumere informazioni precise si rese subito conto che si trattava di una colossale e infame menzogna. Ma i mass media insistevano, i politici – anche italiani – erano già decisi a seguire il sentiero tracciato del sinistro signor Bush: il risultato fu la guerra e un’occupazione che perdura e dalla quale gli stessi italiani non sanno come far a uscire.[1] Sette anni dopo, siamo alle solite: analogo scenario, analoghe sfrontate bugie. La vittima designata, ora, è l’Iran. Auguriamoci che le dissennate dichiarazioni dei politici e dei mass media non preludano a qualcosa di simile al pasticcio irakeno: stavolta sarebbe molto più grave. La Repubblica Islamica dell’Iran è una società molto complessa,[2] che non è certo retta da un regime totalitario, bensì da un sistema assembleare per certi versi paragonabile a una repubblica protosovietica controllata da un “senato” di teologi-giuristi. Nata da uno strappo violento che ha sottratto trent’anni fa agli USA il suo più sicuro e fedele alleato-subordinato e che ha fatto tabula rasa d’importanti interessi petroliferi occidentali, è strutturalmente avversaria della superpotenza americana: dal momento che essa individua in Israele il principale supporto della politica statunitense nel Vicino Oriente, essa avversa radicalmente anche quest’ultimo. Non c’è dubbio che il governo iraniano attuale abusi dei suoi poteri, a cominciare da quello che gli consente di comminare pene capitali, e che non rispetti alcuni diritti della persona umana. Non è l’unico a far certe cose (tali diritti non sono rispettati nemmeno nell’illegale campo di detenzione di Guantanamo, tenuto aperto dalla Prima Democrazia del mondo): ma le fa, e ciò dev’essere denunziato con deciso rigore. Ciò non toglie che sull’Iran il mondo occidentale in genere, italiano in particolare, sia malissimo informato. Esaminiamo sinteticamente i quattro fondamentali capi d’accusa che vengono ormai rivolti abitualmente al governo di Ahmedinejad: si sarebbe reso responsabile di gravi brogli elettorali durante le ultime elezioni e di una pesante repressione delle proteste da parte dell’opposizione; minaccerebbe e programmerebbe un attacco contro Israele, con intenzione di distruggerlo; starebbe fabbricandosi un potenziale nucleare militare; sarebbe candidato a cedere in quanto isolato internazionalmente. Si tratta sostanzialmente di quattro calunnie, per quanto ciascuna di essi riposi su un qualche elemento di verità. Vediamole in ordine. Prima. In una recente intervista consultabile nella versione telematica di “Panorama” del 30.12.2010 una delle maggiori esperte di cose iraniane, Farian Sabahi,[3] non ha escluso che vi siano stati brogli elettorali, ma ha sottolineato che essi non possono aver falsato sostanzialmente il responso delle urne che è stato comunque con certezza largamente favorevole ad Ahmadinejad in quanto egli, a differenza dei suoi elettori, ha saputo guadagnarsi la fiducia della maggioranza degli iraniani non grazie alle sue tracotanti minacce contro Israele, bensì con una politica sociale che ha costantemente messo a disposizione dei ceti più deboli una massa ingente di pubbliche risorse, ha consentito a 22 milioni d’iraniani di accedere a efficaci cure mediche gratuite, ha aumentato molti stipendi (p.es. del 30% quello degli insegnanti), ha aumentato del 50% ‘entità delle pensioni. Al contrario i suoi avversari, pur abilissimi a mobilitarsi su Twitter e forti nei ceti medi specie della capitale, hanno fatto ben poca breccia nei centri minori e praticamente nessuna nelle campagne. I nostri mass media insistono sui deliri oratori hitleriani di Ahmedinejad (che peraltro riassumono sistematicamente, senza darci modo di capire che cosa effettivamente egli dica, e a chi, e in quali contesti), ma non c’informano per nulla della sua politica sociale, impedendoci di farci un’idea di che cosa realmente sia l’Iran di oggi.[4] Seconda. Quanto all’atteggiamento di Ahmedinejad contro Israele, è indubbiamente una maldestra e odiosa misura propagandistica da parte sua la contestazione della shoah; ma, quanto alle minacce, chi non si limita al materiale scaricato da Twitter si è reso facilmente conto che il presidente iraniano non ha mai affermato che Israele vada distrutta (cioè che gli israeliani siano eliminati o cacciati), bensì che la pretesa di uno stato ebraico che si presenti come etnocratico e confessionale ma che nello stesso tempo pretenda di essere un modello di democrazia all’occidentale è evidentemente insostenibile in quanto costituisce una contraddizione in termini. Da ciò Ahmedinejad non deduce che lo stato d’Israele vada distrutto dall’esterno, ma che esso non potrà mai mantenersi sulla base dei principi proclamati. Oltretutto, nell’ormai radicato immaginario occidentale Ahmadinejad starebbe minacciando di distruzione nucleare Israele: ora, si domanda come può il leader di uno stato che non è ancora arrivato nemmeno al nucleare civile minacciare di distruzione nucleare un paese che invece dispone sul serio di un nucleare militare. Tutto ciò è assurdo. E non è difatti mai accaduto. Ahmedinejad si limita a dire che la convivenza di ebrei e di palestinesi dovrà essere rifondata su basi diverse da quelle dell’attuale stato d’Israele se vorrà avere qualche probabilità di sopravvivere. Terza, la questione nucleare. Qui siamo al ridicolo e all’infamia al tempo stesso. L’11 febbraio scorso, trentennale della rivoluzione khomeinista, l’ambasciatore iraniano presso la Santa Sede Alì Akbar Naseri indiceva una conferenza stampa. Visto il momento “caldissimo” nell’opinione pubblica, si potrebbe supporre ch’essa è stata presa d’assalto dai media. Macché. Né un TG importante, né una testata di rilievo: è così che da noi si fa informazione. Tuttavia, le pacate dichiarazioni del diplomatico hanno richiamato un’ennesima volta a una verità obiettiva che ormai conosciamo. Il 4 febbraio scorso, il governo iraniano ha formulato alla authority internazionale nucleare, l’AIEA, una proposta molto flessibile e ragionevole: accettazione della prassi elaborata dal gruppo dei 5+1 (USA, Russia, Cina, Francia, Germania) nell’ottobre scorso, sulla base della quale l’Iran consegnerà delle partite di uranio arricchito al 3,5% alla Russia, che lo porterà al 20% e lo passerà alla Francia incaricato di restituirlo all’Iran. Date però le circostanze e il macchinoso sistema elaborato, il governo dell’Iran – temendo evidentemente che l’uranio gli venga sottratto – chiede semplicemente che lo scambio avvengo in territorio iraniano e che ad ogni cessione di partita di uranio al 3,5% l’Iran venga risarcito con la consegna di una pari quantità arricchita al 20%. Non si capisce perché il governo statunitense abbia rifiutato come “non interessante” una proposta del genere e si ostini a pretendere dall’Iran la pura e semplice cessione del minerale, senza contropartite né garanzie. Ciò corrisponde solo a un vecchio e abusato trucco diplomatico: formulare pretese assurde e irricevibili per poi accusare l’avversario, reo di non averle accettate. Bisogna al riguardo tener presente due cose: primo, per avviare la costruzione del nucleare militare è necessario un arricchimento dell’uranio all’80%, mentre l’Iran non è ancora in grado nemmeno di arricchirlo al 20%, limite indispensabile per gli usi civili. E di sviluppare un nucleare civile l’Iran ha diritto, in quanto paese firmatario del trattato di non-proliferazione (gli unici tre stati che non hanno firmato sono Israele, India, Pakistan). Il punto è che sembra proprio che i soggetti occidentali più importanti (quindi il governo statunitense e la NATO, che da esso è largamente controllata) siano ben decisi a procedere su una strada pregiudizialmente tracciata. In un’intervista concessa a Luigi Offeddu del “Il Corriere della Sera”, e pubblicata il 29.2.2010, Adres Fogh Rasmussen, segretario generale della NATO dall’agosto 2009, ha proferito affermazioni allucinanti nella sostanza non meno che nel tono: “Al momento dovuto, noi prenderemo le decisioni necessarie per difendere i paesi della NATO”, ha dichiarato.[5] Ha parlato di un sistema missilistico difensivo, risultato di una triplice collaborazione tra USA, NATO e Russia, fingendo di non sapere che in Realtà la Russia è preoccupata delle installazioni missilistiche USA-NATO in Romania e in Polonia, non è soddisfatta dei chiarimenti fornitile (secondo i quali esse sarebbero dirette contro la minaccia iraniana) e la sua richiesta di “collaborazione a tale sistema è, in realtà, una richiesta di controllo. Rassmunsen, ignorando del tutto le proposte iraniane, continua a proporre un diktat: l’Iran consegni tutto il suo uranio che verrà arricchito all’estero, senza alcuna possibilità di controllarne il destino, senza alcun controimpegno e senza alcuna contropartita. C’è da chiedersi chi mai potrebbe accettare imposizioni del genere. Quarto. Si continua acriticamente a ripetere, da noi, che ormai l’ONU sarebbe pronta a inasprire l’embargo all’Iran e che lo stesso consiglio di Sicurezza sarebbe d’accordo: si tratterebbe solo di convincere la Cina a non usare il suo diritto di veto e a studiare sanzioni che colpiscano il governo iraniano, ma non la popolazione. Quest’ultimo proposito è manifestamente ipocrita: le sanzioni colpiscono sempre le popolazioni, e in genere rinsaldano la loro solidarietà con i loro governi (a parte l’ipocrisia del governo italiano, che sostiene di preoccuparsi per ragioni umanitarie mentre in realtà è in ansia per il grosso business iraniano dell’ENI, che potrebb’essere compromesso dalle sanzioni con un forte danno agli interessi italiani). Ad ogni modo, le sanzioni contro l’Iran non funzioneranno, perché il governo iraniano è a vari livelli in contatto positivo con molti paesi e ha stipulato o sta stipulando accordi non solo con Cina e Russia, ma anche con la Siria, col Venezuela e con la Turchia. E’ del 19.2., stando a due “lanci” AGI, la dichiarazione del viceministro degli Affari Esteri Serghiey Ryabkov, secondo la quale non solo la Russia è contraria a un inasprimento delle sanzioni contro l’Iran e indisponibile ad appoggiarle, ma si conferma intenzionata a fornire all’Iran i sistemi antiaerei S-300, come si era impegnata a fare. Insomma, il regime iraniano può non piacere: ma non ha la possibilità e forse nemmeno l’intenzione di costruire armi nucleari e non si trova affatto in una posizione di assoluto isolamento diplomatico. Ma allora perché gli USA sembrano preoccuparsi dell’Iran di Ahmedinejad al punto di arrivare alle esplicite minacce? L’atomica, i diritti umani e le minacce a Israele non c’entrano. C’entra invece il modesto isolotto di Kish sul Golfo Persico, che gli iraniani hanno scelto a sede di una futura rete di scambi petroliferi mirante alla costituzione di un “cartello” che si fonderebbe sull’unità monetaria non più del dollaro, bensì dell’euro. Questa è la bomba nucleare iraniana che davvero gli americani temono. E allora, immaginiamoci un possibile e purtroppo piuttosto probabile futuro. La guerra, lo sanno tutti, è un gran ricco business: vi sono cointeressate potentissime lobbies industriali e finanziarie internazionali; è rimasta l’unica attività produttiva statunitense che davvero “tiri”; le commesse vanno rinnovate e gli arsenali debbono essere vuotati se si vogliono riempire di nuovo; poi ci sono i generali (non solo i generaloni del Pentagono, quelli che ostentano nomi da conquistatore romano, tipo Petreus; ma anche i generalucci della NATO e i generalicchi italiani, per tacer degli strateghi-peopolitici da TV…); inoltre c’è il sacrosanto spiegamento dei fondamentalisti cristiani, ebrei e musulmano-sunniti che non vedono l’ora di saltar addosso al demonio sciita; infine ci sono i poveri cristi che aspettano di venir ingaggiati come in Afghanistan e in Iraq, la folla dei portoricani in caccia della magica green card che fa di loro dei quali cittadini statunitensi, i sottoproletari che sognano di ascendere al rango di contractors. Tutte insieme, queste forze sono – non illudiamoci – potentissime. Se non ci salva il duplice “veto” russo-cinese al Consiglio di Sicurezza dell’ONU (ma anche quello non sarà sufficiente: basterà la NATO, come in Afghanistan nel 2001: poi, l’ONU sarà costretta ad avallare…), oppure, meglio ancora, un deciso “no” degli israeliani che - a differenza del loro governo - non hanno perduto il ben dell’intelletto e la voce dei quali potrebbe contare moltissimo dinanzi all’opinione pubblica mondiale , l’aggressione all’Iran probabilmente si farà. E’ molto più facile di quella all’Iraq del 2003: il sunnita e “laico-progressista” Saddam poteva contare su molti amici negli USA, in Europa e nel mondo musulmano, l’Iran fondamentalista e sciita non ne dispone. Poi, tra qualche anno, qualcuno in gramaglie verrà a dirci che no, ci eravamo sbagliati, la bomba nucleare proprio l’Iran non ce l’aveva e nemmeno i terribili missili puntati contro l’Occidente; qualcun altro sgamerà, altri ancora si rifugeranno nell’amnesia. Frattanto, nella migliore dell’ipotesi, ci saremo infilati in un pantano sanguinoso e costoso, peggiore di quelli afghano e irakeno messi insieme: un pantano nel quale sguazzeranno allegramente solo le anatre e le rane tipo gli imprenditori, i militarastri e i sottoproletari del “finché-c’è-guerra-c’è-speranza”, che ciascuno al suo livello ci guadagneranno (“produzione e consumo” in alto, patacche e promozioni a mezza tacca, “posti di lavoro” in basso) , o tipo La Russa, che già ora s’inorgoglisce dei suoi picchetti d’onore e delle sue finte uniformi militari. Se non altro, tutto ciò darà una nota comica alla vicenda. Ma non illudiamoci: quella sarà soltanto la migliore fra le ipotesi. Franco Cardini Fonte: www.diorama.it/ Link: http://www.diorama.it/index.php?option=com_content&task=view&id=178&Itemid=1 22.02.2010 NOTE [1] I media ci hanno poi informati che le armi di distruzione di massa non c’erano: ma nessun governante nessun politico di quelli che a suo tempo avevano stragiurato sulla loro esistenza, nessun intellettuale o pubblicista di quelli che immaginavano scenari festosi (tipo i liberatori che arrivano a Baghdad in mezzo ai fiori e alle bandiere del popolo irakeno liberato…), nessun mezzobusto televisivo-opinion maker ha fatto ammenda dell’errore in cui aveva tentato d’indurci, o meglio della menzogna proferita. Anzi, a dimostrazione della longevità dei falsi miti, Tony Blair, nel corso della sua pietosa autocritica che sigilla il fallimento della sua carriera di politico (dopo i danni che ha fatto, e che purtroppo paghiamo e pagheremo noi) è tornato sulle armi di distruzione saddamiste come se fossero davvero esistite, “dimenticando” al figuraccia sua e di altri. [2] Cfr. L’iran e il tempo. Una società complessa, a cura di A. Cancian, Roma, Jouvence 2008; A.Negri, Il turbante e la corona. Iran trent’anni dopo, Milano, Tropea, 2010. [3] Di cui cfr. F.Sabahi, Storia dell’Iran 1890-2008, Milano, Bruno Mondadori, s.d. [4] Cfr. il lucido commento di M.Tarchi, La lezione iraniana, “Diorama letterario”, 296, ott.-dic. 2009, pp. 1-3. [5] L.Offeddu, “L’iran si fermi sul nucleare o la NATO dovrà difendersi”, “Corriere della Sera”, 20.2.2
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Spendono Perchè non Pagano più il Mutuo

  • di GZ
  • - 23/02/10
  • Le trimestrali americane e anche i dati di PIL e consumi USA non sono stati male negli ultimi due mesi (i dati di export, occupazione e fiscali invece no) e questo è un poco un mistero perchè l'occupazione cala, i salari sono fermi, il credito al consumo sta collassando (parliamo di -150miliardi di dollari in meno ad esempio per il credito ai consumatori) e la gente ancora spende abbastanza in America Ad es ammetto di avere sbagliato da questa estate a pensare che la spesa per consumi sarebbe andata molto negativa, con crollo generale dei titoli retail (vedi RTH indice di settore): alcuni hanno ceduto ma la maggioranza ha tenuto perchè nonostante il reddito reale e il credito dei consumatori sia calato hanno continuato a spendere circa come un anno fa (diciamo che la spesa per consumi è un -2% circa rispetto al 2007). Questo ha fatto sì che gli USA abbiano sputato un +4% di PIL annualizzato il trimestre scorso contro un +0.4% della zona Euro ad esempio LA RAGIONE SEMBRA CHE CON IL 15% DEI MUTUI IN DEFAULT HAI UN SACCO DI GENTE CHE EVITA DI PAGARE LE RATE DEL MUTUO! Strano ma vero, le banche rimandano il più possibile i pignoramenti perchè fino a quando il mutuatario ha smesso di pagare ma ancora non è ufficialmente pignorato non segni la perdita a bilancio e in più Obama ha creato una serie di programmi statali in cui si offre la possibilità di rimandare la resa dei conti pagando una frazione delle rate, rinegoziando il mutuo con una diversa scadenziazione delle rate. La gente più astuta quindi fa così: smettono di pagare e invocano il programma di rinegoziazione che impiega mesi per essere attivato e automaticamente blocca la procedura di pignoramento, poi dopo aver fatto finta di voler solo rinegoziare alla fine non paga lo stesso e parte il pignoramento che impiega un altro anno Morale: alcuni per due anni risparmiano di pagare 1.500 o 2.000 dollari al mese di rate del mutuo e di conseguenza queste famiglie che sono circa 4-6 milioni di colpo hanno ora molto più reddito da spendere. La cosa può durare però ovviamente da uno a due anni per famiglia, non in eterno e le banche poi ammetterranno il salasso
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