di Andrea Ferrario
Nel fondo di ammortamento dell’emissione obbligazionaria della Regione Lombardia ci sono 115 milioni di titoli statali greci, come già aveva informato a suo tempo Milano Internazionale. Un rischio che ora si fa altissimo per le finanze lombarde, in un contesto italiano ed europeo in cui le amministrazioni pubbliche sono sempre più drogate dalla finanza spericolata e dai titoli derivati.
I nostri precedenti articoli sull’argomento:
Derivati e bilancio: le mani della finanza creativa su Milano
Non è che in giro non se ne sia parlato: alcuni blog hanno pubblicato materiali sull’argomento e perfino il Sole 24 Ore gli ha dedicato un articolo. Solo che il caso della presenza di obbligazioni statali greche nel sinking fund dell’emissione obbligazionaria effettuata nel 2002 dalla Regione Lombardia va messo in un contesto più ampio rispetto a quanto non sia stato fatto finora. Riassumiamo brevemente i fatti citando il Corriere della Sera dell’11 ottobre 2008 (rimandando per i particolari, ivi compresi quelli relativi al “fattore greco”, al nostro articolo Formigoni nel pantano dell’11 luglio 2009): “Nell’ottobre 2002 la Regione emette un bond da un miliardo di dollari. Le due banche che gestiscono l’operazione costituiscono un fondo cui fino al 2032 dovranno essere versate rate annuali di ammortamento. Il fondo, a sua volta, viene articolato su un paniere di obbligazioni concordate con la Regione Lombardia”. E’ in questo fondo (il termine tecnico è appunto “sinking fund”) che vanno a finire, e ancora si trovano, ben 115 milioni di obbligazioni dello stato greco, attualmente ad altissimo rischio. Come se non bastasse, prosegue il Corriere della Sera, “nel contratto si stabilisce che saranno le due banche a raccogliere i rendimenti, mentre il default, il rischio di fallimento andrà sulle spalle della Regione”. Inoltre la Ubs, una delle due banche consulenti per l’emissione della Regione Lombardia e che gestiscono il relativo sinking fund (l’altra è la Merrill Lynch), ha curato anche l’emissione obbligazionaria greca che poi è finita per la maggior parte (115 milioni su 200 milioni totali) nel fondo lombardo. Tradotto in parole povere: le banche realizzano i profitti (commissioni da Grecia e Lombardia) e la Regione Lombardia si assume tutti i rischi. Come riassume il Sole 24 Ore: “l’impressione è che Ubs e Merrill Lynch abbiano usato il sinking fund come una sorta di ‘discarica’ per titoli che forse non erano riuscite a vendere a investitori veri. Non ci sono prove, ma il sospetto è legittimo”. Non a caso sull’emissione della regione guidata da Roberto Formigoni sta indagando la magistratura, così come indagini sono in corso anche sulla maxi emissione del Comune di Milano (si veda il nostro Derivati e bilancio: le mani della finanza creativa su Milano) e su quella della Regione Puglia. All’epoca dell’articolo del Sole 24 Ore il Pirellone aveva commentato che “i titoli inseriti nel sinking fund sono tutti di elevato standing” – quanto fosse elevato questo “standing”, ovvero questa presunta “qualità”, lo si vede oggi con la Grecia sull’orlo di una bancarotta che rischia di trascinare con sé l’intera Europa, dopo che Atene ha truccato i propri conti con l’aiuto di banche e ricorrendo proprio a strumenti derivati di questo tipo.
Se la Grecia dovesse fallire, per la Lombardia le conseguenze finanziarie sarebbero dirette ed enormi. Ma è tutta l’Italia, e in particolare le sue amministrazioni locali, che è esposta a un enorme rischio legato a titoli derivati analoghi a quelli della Regione Lombardia. Perché le banche collocano emissioni obbligazionarie di tali amministrazioni in sinking fund di altre emissioni di enti locali. Una gigantesca catena di Sant’Antonio, un garbuglio inestricabile e ad estremo rischio, che secondo le stime della Corte dei Conti coinvolge oltre 700 amministrazioni locali per un totale nozionale di oltre 35 miliardi di euro. Oltre alle già citate indagini della magistratura, che nei giorni scorsi hanno portato in Puglia al sequestro da parte della Guardia di Finanza di oltre 73 milioni di euro di attivi di Bank of America e di una unità di Dexia SA nell’ambito di un’inchiesta per frode, ci sono le azioni legali dei comuni che, dopo avere combinato anche loro il guaio-derivati, tentano ora di correre ai ripari chiedendo l’annullamento dei relativi contratti. In Lombardia lo stanno facendo, per esempio, i comuni di Magenta e Abbiategrasso e la Provincia di Como. Solo che le banche spesso ricorrono a inghippi davvero ben escogitati: il più delle volte i contratti prevedono che il foro competente, in caso di controversie, sia quello di Londra (è il caso, per esempio, dei derivati del Comune di Milano) e per le amministrazioni locali di piccole dimensioni i costi che la difesa di una causa in Gran Bretagna implica sono troppo alti per potere essere affrontati: è quanto sta avvenendo con la richiesta di annullamento del contratto da parte della Provincia di Pisa.
La situazione è tale che nelle ultime settimane i derivati italiani sono finiti sotto la lente di grandi media internazionali come Bloomberg e Financial Times. La prima cita dati della Banca d’Italia secondo cui le municipalità italiane attualmente si trovano ad avere nel complesso quasi 1 miliardo (per la precisione, 990 milioni) di euro di perdite da derivati, facendoli seguire da un eloquente commento di Tullio Lazzaro, presidente della Corte dei Conti: “Molti enti locali hanno utilizzato tali strumenti al fine di ottenere liquidità immediata per le spese correnti. La conseguenza è che su di esse, così come sulle generazioni future, peseranno forme di debito sempre più onerose”. Mario Ristuccia, procuratore generale della stessa Corte, ha affermato poi che “l’uso dei derivati è stato finalizzato a obiettivi che non hanno alcuna relazione con la copertura dei rischi” e che questa pratica “si è estesa in alcuni casi perfino a enti locali di modeste dimensioni e privi delle strutture, nonché dell’esperienza, necessarie per effettuare una valutazione finanziaria ed economica”. Bloomberg ricorda che l’Italia ha una lunga esperienza nei derivati, utilizzati per diminuire il proprio deficit e riuscire così a qualificarsi per l’adesione all’euro, con modalità non sempre trasparenti. Sotto la lente a tale proposito è in particolare, come osserva Euromoney, un’emissione obbligazionaria italiana in yen del 1995, con calcoli dei tassi che appaiono, per usare un eufemismo, poco ortodossi – un’emissione che si sospetta possa essere solo una di una più lunga serie di emissioni analoghe.
A questo quadro va ad aggiungersi l’enorme massa del debito italiano e l’altrettanto enorme volume, tra l’altro in continua crescita, dei derivati che si concentrano su di esso. Secondo i dati della Depository Trust and Clearing Corporation, “l’esposizione lorda in derivati sulla Repubblica italiana da parte del sistema finanziario è oggi pari a 235 miliardi di dollari. E’ salita di 75 miliardi in un anno: invece di diminuire dopo il crac del 2008 è esplosa. L’esposizione netta (una volta regolati gli eventuali pagamenti fra controparti) è invece di 25,3 miliardi, cresciuta di sette in un anno. A titolo di confronto, si tratta di un volume di oltre venti volte superiore a quello esistente sul ben più vasto debito pubblico statunitense. A paragone della Germania, il cui debito è simile come ammontare a quello di Roma, il valore dei derivati sull’Italia è di varie volte più alto. [...] Il record dei derivati sul debito italiano contiene un messaggio: gli investitori che comprano i titoli di Stato italiani si assicurano in quantità record” e “se i prezzi delle obbligazioni italiane cadessero, per un evento oggi imprevisto, certe banche dovrebbero già trasferire ai clienti molti miliardi a titolo di garanzia: è il tipo di scenario che creò il crac di Aig. Con un’insolvenza andrebbe poi anche peggio. E’ vero che l’esposizione netta del sistema nel suo complesso è di ‘appena’ 25 miliardi. Ma sta crescendo in fretta e, vista l’opacità di questo mercato, nessuno sa in quali banche si concentri il rischio maggiore sui credit default swap. Con i subprime il credito si bloccò perché nessuna banca si fidava più dell’altra per la stessa ragione” (Corriere della Sera, 3 febbraio 2010). Nel complesso, il ricorso massiccio ai derivati genera incertezze sull’affidabilità del bilancio italiano, rileva sempre Bloomberg, che ricorda inoltre come negli ultimi anni le banche italiane abbiano commercializzato aggressivamente titoli derivati nell’Europa Orientale, contribuendo in tale modo alla diffusione del morbo. E il problema dei derivati delle amministrazioni locali va infatti oltre la dimensione lombarda e nazionale, per coinvolgere quella europea. Nel 2009 il debito “subsovrano” (cioè quello delle amministrazioni locali) europeo ammontava in totale a uno stratosferico 1,2 trilioni di euro. I paesi che navigano nelle peggiori acque sono la Russia e la Francia, i due stati di cui fanno parte tutti i venti enti locali che si trovano in maggiore difficoltà per i derivati. In termini di valore cumulativo, la Germania è al primo posto, e sempre la stessa Germania, insieme alla Spagna, è il paese in cui il debito regionale sta aumentando più rapidamente in termini di valore in euro.
Il ricorso ai derivati da parte delle amministrazioni locali si è diffuso a macchia d’olio in tutto il continente perché soddisfa alcune “esigenze” davvero poco nobili. In primo luogo, permette di avere liquidità immediata scaricando i rischi sulle generazioni future, una “qualità” ideale per gli amministratori privi di scrupoli. In secondo luogo consente di ottenere rapidamente soldi per progetti infrastrutturali che il più delle volte vanno a favore di privati “amici”. In terzo luogo, i derivati sono uno strumento talmente complicato da consentire di offuscare il quadro finanziario complessivo, un’altra “qualità” ideale per quegli amministratori che vedono la trasparenza come nient’altro che un impaccio. In quarto luogo, nella loro essenza sono legali ed è particolarmente difficile documentare quella che molto spesso e la loro pura e semplice qualità di frode ai danni dei cittadini e delle generazioni future. Le banche, da parte loro, guadagnano ingenti commissioni, spesso doppie (nel caso della Lombardia) altre volte forse occulte (è il sospetto che pesa sui derivati del Comune di Milano), grazie anche al fatto che gli enti locali loro controparti non possiedono le competenze necessarie per valutare correttamente la convenienza dell’operazione. Al Comune di Milano, che non è certo una piccola amministrazione priva di risorse, si è arrivati alla situazione grottesca in cui un funzionario ha firmato un contratto relativo a derivati in inglese senza sapere una parola di quella lingua, e senza che a nessuno fosse venuto in mente di fare tradurre il testo in italiano!
Recentemente in Lombardia è stato tutto un fiorire di arresti per corruzione che ha fatto tornare di moda la parola Tangentopoli. Si va dall’assessore regionale Pier Gianni Prosperini (Pdl), all’assessore provinciale pavese Rosanna Gariboldi (Pdl), meglio nota come Lady Abelli, al consigliere comunale e presidente della commissione urbanistica Milko Pennisi (Pdl), agli amministratori arrestati nei giorni scorsi a Trezzano sul Naviglio (Pd e Pdl). E’ evidentemente la punta di un iceberg di corruzione che è frutto di un sistema chiuso, rapace e incapace di avere delle prospettive. Non sorprende affatto che spesso i casi di corruzione siano legati direttamente o indirettamente agli interessi delle organizzazioni mafiose: da tempo ormai in Lombardia e in Italia la “cosa pubblica” ha lasciato il posto alla “cosa nostra”, nella politica, nella finanza, nella sanità, nell’urbanistica. I derivati milanesi, lombardi e italiani, con la loro mancanza di trasparenza, sono nei fatti una importante tessera di questa grande “cosa nostra” che va ben oltre la criminalità organizzata e le tangenti.
http://milanointernazionale.it/2010/02/23/lombardia-ellenica-laltra-corruzione/
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