Bolle globalizzate

di Mario Seminerio

Eccellente grafico interattivo dell’Economist sulla rivalutazione dei prezzi immobiliari in giro per il mondo. Scegliete il trimestre di partenza ed i paesi da confrontare, e potrete verificare che la bolla immobiliare è stata pressoché globale, con buona pace del ritornello di una bolla costruita negli Stati Uniti per effetto dei finanziamenti agevolati concessi alle minoranze. Purtroppo questa è una leggenda metropolitana di matrice repubblicana con cui dovremo abituarci a convivere, malgrado robuste evidenze del contrario, e che peraltro non spiega in alcun modo la bolla del Commercial Real Estate. E quindi, quali le cause?

Giorni addietro Ben Bernanke ha spiegato che, a suo avviso, non vi sarebbero correlazioni significative tra il livello dei tassi d’interesse e le bolle immobiliari, mentre più significativo sarebbe il legame con i flussi di capitale, cioè con il deficit delle partite correnti e, in ultima istanza, con la presenza di scostamenti nei livelli di equilibrio nei tassi di cambio. Questo squilibrio macro potrebbe essersi innestato su uno squilibrio micro, a livello cioè di standard di credito immobiliare piuttosto laschi, e di più o meno benevola negligenza (à la Greenspan, per intenderci) nella supervisione degli intermediari creditizi. Altra concausa, sostenuta tra gli altri da Paul Krugman, è quella che ipotizza che le maggiori pressioni sui prezzi si siano sviluppate in aree densamente popolate e altrettanto rigidamente regolamentate nelle autorizzazioni a edificare (Florida e California, nell’esempio di Krugman). La ricerca del colpevole continua.

FINANZA/ 2. Il Papa e Obama incalzano i banchieri e Trichet

martedì 12 gennaio 2010

La “tre giorni” dei super-banchieri a Basilea non ha scaldato il terzo Capodanno della Grande Crisi quanto le indiscrezioni - ieri a Wall Street - su fulmini in arrivo sul settore creditizio. Anzitutto quelli di Obama, che sta valutando se sottoporre banche e banchieri a una tassazione straordinaria: per cominciare a recuperare almeno in piccola gli ingenti sussidi pubblici erogati tra la fine del 2008 e l’inizio del 2009 per salvare le big americane; e poi per controbattere in tempo reale al ritorno dei maxi-bonus. Per di più il “general attorney” (capo della Procura) di New York, Andrew Cuomo, ha annunciato che chiederà a tutte le grandi banche nazionali informazioni dettagliate sui piani di compensi in premi e incentivi per l’anno fiscale 2009.

Nei prossimi giorni le grandi banche d’Oltre Atlantico presenteranno i loro preconsuntivi in un clima di apparente ritorno al “business as usual”. Un’atmosfera che i banchieri centrali e privati riuniti a Basilea, ospiti di Bri e G10, hanno continuato ad alimentare, dopo almeno 18 mesi impiegati a lottare contro la crisi di sfiducia: un virus che è parso - ed è poi in buona parte stato - più insidioso delle paurose emorragie di valori di bilancio provocate dall’epidemia dei subprime.

È vero che l’opinione pubblica si è stancata dei fine settimana sistematicamente all’insegna di qualche “G” d’emergenza e ha voglia di normalità. È anche vero che gli indizi di ripresa non mancano, per quanto il ciclo riparta da 400mila posti di lavoro in meno nella sola Italia. Però è difficile che la politica possa assecondare il tentativo della tecnostruttura finanziaria di archiviare la crisi finanziaria (responsabile della recessione globale) come un “incidente di percorso”, sanato da una specie di pedaggio obbligatorio da parte dei cittadini, utenti di un sistema monetario-finanziario “occupato”, “sequestrato” dai mercati e dai grandi intermediari.

Gli Stati (i cittadini e i loro governanti) rimangono convinti di aver fatto un prestito alle banche, non di aver erogato loro una provvidenza a fondo perduto. Tanto più se l’effetto stabilità tuttora offerto dalle garanzie pubbliche alle banche (dopo la stagione dei salvataggi nel giro di una notte) è il piedistallo di un rapido ritorno al lato più privato e vantaggioso dell’attività bancaria: i profitti da spartire tra soci e banchieri (molto spesso grandi azionisti).

Invece, ha ripetuto ieri il presidente della Bce, Jean Claude Trichet, i rischi creditizi sono ancora in agguato e ha fatto eco ai solleciti del recente schema”Basilea 3”: non abbassare troppo presto la guardia degli aiuti pubblici e utilizzare i profitti per rimpinguare i patrimoni. Se Obama vuol rendere forzosa questa “moral suasion” per via fiscale, Trichet non ha potuto non dosare gli accenti preoccupati con quelli ottimistici. «La ripresa c’è», ha detto.

Una speranza che certamente ha intessuto anche il discorso di Papa Benedetto XVI al corpo diplomatico. Ma il Pontefice (che anche recentemente ha diffidato di “maghi ed economisti” nella lettura del presente e del futuro del pianeta) ha tenuto lo sguardo ben fisso sulla realtà di una crisi «non superata», anzi. E il declino dell’etica - soprattutto in Europa - si è trasformato in un senso di «ostilità» e «disprezzo» diffusi nei confronti della religione che rischiano di «inquinare» rapporti e scelte.

«Le radici della situazione che è sotto gli occhi di tutti - ha detto Papa Ratzinger denunciando anche il fallimento del vertice sul clima di Copenaghen e la fatica con la quale si va affrontando l'instabilità sociale indotta dalla crisi economica - sono di ordine morale, e la questione deve essere affrontata nel quadro di un grande sforzo educativo».

http://www.ilsussidiario.net/News/Economia-e-Finanza/2010/1/12/FINANZA-2-Il-Papa-e-Obama-incalzano-i-banchieri-e-Trichet/60772/

La roulette dei fondi pensione

di Beppe Scienza* - 12/01/2010 Fonte: Il Fatto Quotidiano
La verità dà fastidio a chi prospera sull’inganno. Non stupiscono quindi le reazioni a un recente servizio sulla previdenza integrativa, realizzato in maniera magistrale da Piero Riccardi e trasmesso da RaiTre nella puntata di “Report” del 15 novembre 2009. Venivano fuori infatti le perdite anche per soluzioni gabellate per sicure, la generale assenza di trasparenza e gli endemici conflitti d’interessi, tipici del settore. Non avendo però elementi per confutare pubblicamente quasi nessuna delle affermazioni dell’autore o degli intervistati (fra cui il sottoscritto), molti fondi pensione tentano di smontarle con volantini, circolari ed e-mail inviate ai loro aderenti e ai lavoratori. In loro aiuto sono poi accorsi quei sindacati, quasi tutti, che traggono vantaggi dalla previdenza complementare. Non sarà quindi inutile smontare le principali falsità che diffondono. Sono soprattutto due i tasti su cui costoro battono: i vantaggi fiscali e il contributo del datore di lavoro. È ciò che fa per esempio un volantino del sindacato dei metalmeccanici Fim-Cisl. Peccato che siano due tasti stonati, perché i conteggi che diffondono sono fuorvianti quando non taroccati di sana pianta. VANTAGGI FISCALI? Viene sempre sbandierato il confronto fra la tassazione del tfr che parte dal 23 per cento e quella prevista per la previdenza integrativa compresa invece fra il 15 per cento e il 9 per cento. Quindi apparentemente il divario è forte. Peccato che si restringa paurosamente facendo i conti giusti. Invece molti fanno i furbi. Il fondo Solidarietà Veneto a gennaio 2009 voleva addirittura convincere i lavoratori che era convenuta l’adesione persino per un comparto con perdite sul 9 per cento. Il fondo Eurofer gioca poi sull’esempio di una permanenza nel fondo di un solo anno o poco più. Certo che così sarebbe determinante il vantaggio fiscale. Ma chi mai può uscire dalla previdenza integrativa dopo dodici mesi? La legge tiene ingabbiati quasi tutti per parecchi anni se non lustri. Bisogna quindi determinare l’incidenza concreta dello “sconto” generosamente concesso dal fisco su base annua. Si scopre così che per un lavoratore giovane essa si riduce a uno 0,60 per cento. Quindi è totalmente divorato già dai soli costi espliciti. Per non parlare di quelli occulti. Per giunta già in passato il trattamento fiscale della previdenza integrativa venne peggiorato in maniera retroattiva. Conclusione: lo sconto fiscale è solo uno specchietto per allodole, salvo tutt’al più per chi è vicinissimo alla pensione e ha redditi molto alti. RICATTO SALARIALE. L’altro atout delle reti di vendita sindacali è il contributo del datore di lavoro. Vari contratti di lavoro prevedono meno soldi per chi non aderisce a un fondo pensione negoziale. Il datore di lavoro trattiene infatti per sé un 1-2 per cento dello stipendio che corrisponde invece agli aderenti al fondo. Sorvoliamo sullo scandalo di avere buttato alle ortiche una conquista ottenuta dai lavoratori con decenni di lotte. Ovvero il principio “stesso lavoro, stessa paga”. Tutto ciò non significa che un fondo pensione renda più del tfr, ma solo che il trattamento retributivo complessivo è più alto per chi obbedisce al diktat della previdenza integrativa. Però il contributo del datore di lavoro non è soltanto un piccolo ricatto dei sindacati: “Non aderisci al nostro fondo? Allora otterrai meno soldi”. Può anche trasformarsi in una polpetta avvelenata. Alla fine ci si potrà infatti trovare in perdita malgrado il contributo datoriale. Basta incappare in un periodo di rendimenti inferiori alle rivalutazioni del tfr o anche in un unico anno particolarmente disastroso. Potremmo aggiungere molto altro, perché i documenti propagandistici della previdenza integrativa ne riportano di cotte e di crude. Vedi il Fondo Gommaplastica che il 10-10-2008, a fronte delle quote pesantemente in perdita, scriveva che così “vi è la possibilità di comperare, a parità di versamento, un maggiore numero di quote del Fondo”. Il che è ridicolo. Allora tanto vale dividere la quota per mille e così un lavoratore anziché sottoscriverne 30 ne sottoscrive trentamila. Una goduria! L’IMBROGLIO. Ma l’argomentazione apparentemente più forte a favore della previdenza integrativa è un’altra, ripetuta all’unisono da più parti. Afferma per esempio Gianfranco Verzaro, presidente del Fondo pensioni del personale Bnl, in una lettera a Milena Gabanelli del 18-11-2009 che “senza la previdenza complementare il futuro trattamento pensionistico sarà assolutamente inadeguato”. Insomma, aderire ai fondi pensione e trasferirvi il tfr sarebbe indispensabile per sopperire al minor reddito futuro. Niente di più falso e nessuna migliore conferma di ciò che ripeteva il dottor Joseph Goebbels, ovvero che “basta ripetere abbastanza spesso una menzogna, perché venga ritenuta una verità”. Infatti la propria pensione si potrà integrare anche tenendosi il tfr, senza aderire a nessun fondo pensione, piano individuale previdenziale (pip) o roba simile. Basterà convertirlo in una rendita vitalizia. Anzi, tenersi il tfr è la soluzione più sicura grazie al suo aggancio all’inflazione. Infatti la scienza economica insegna proprio il contrario di quello che raccontano in Italia gestori, sindacalisti o docenti universitari e ripetono come pappagalli schiere di giornalisti economici. Si veda per esempio il libro di Zvi Bodie e Ian Sykes “Worry-Free Investing” (Prentice Hall, 2008) che indica fra investimenti consigliabili a fini previdenziali proprio i titoli legati all’inflazione. Non le azioni, tanto esaltate dall’industria della previdenza integrativa italiana. Infatti al casinò si può anche vincere, ma è meglio non puntarvi tutti i propri risparmi. Analogamente è imprudente giocarsi la pensione, e anche quella integrativa, alla roulette dei mercati finanziari. Ed è irresponsabile consigliarlo ai lavoratori, come fanno quasi tutti i sindacati italiani. *Università di Torino - Dipartimento di Matematica
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Islanda: il gelo in banca

di Mario Braconi - 12/01/2010 Fonte: Altrenotizie [scheda fonte]

Gli Islandesi, che per secoli hanno vissuto di pesca, qualche anno fa si sono resi conto che la finanza allegra può essere più sexy dell’attività ittica. Grazie alla bacchetta magica della leva finanziaria, l’isola nordica ha conosciuto un periodo di crescita economica inimmaginabile. Ma un sistema che arriva a contrarre debiti fino ad un importo pari dieci volte il suo prodotto interno lordo, non poteva che finire in cenere. Oggi, infatti, la sopravvivenza degli abitanti di quest’isola dipende dal buon senso e dalla generosità dei governi inglese ed olandese.

La parola chiave è Icesave, il braccio internet di Landsbanki, una delle tre banche islandesi, fallita e nazionalizzata l’8 ottobre 2008. Offrendo tassi d’interesse molto aggressivi, Icesave aveva raccolto diversi miliardi di Sterline ed Euro, rispettivamente da clienti inglesi ed olandesi. Quando la stretta creditizia l’ha messa in ginocchio, Icesave, impossibilitata a far fronte alle richieste di smobilizzo della clientela, ha congelando i fondi dei suoi clienti inglesi. Una situazione incresciosa, aggravata dal fatto che Icesave aveva dichiarato ufficialmente di volersi occupare dei soli clienti islandesi, mandando a bagno tutti gli altri.

Di fronte all’incredibile risposta di Icesave, il Governo britannico, ricorrendo in modo improprio ad una legge anti-terrorismo, ha ricambiato la cortesia, surgelando le attività di Icesave in Gran Bretagna ed impegnandosi, nel contempo, a rimborsare ai clienti britannici della decotta banca islandese l’intero ammontare dei loro saldi attivi, anche in caso di incapienza del fondo islandese di protezione depositi.

Il governo inglese, dopo aver rimborsato in pieno i suoi concittadini clienti Icesave, si è rivolto al governo islandese per farsi ripagare quanto anticipato. In linea di principio, Reykjavik si è detta d’accordo a far fronte alle richieste britanniche; anzi, a giugno 2009, Gran Bretagna e Islanda hanno firmato un accordo secondo cui il fondo garanzia depositi islandese avrebbe ripagato le somme anticipate dal governo britannico. Le condizioni erano (e rimangono) estremamente vantaggiose per il governo islandese: tasso di interesse del 5,55%, periodo di rimborso di 15 anni, più un periodo di grazia di 7 anni, in cui non maturano interessi.

Quando però, ad agosto del 2009, il Parlamento islandese ha emanato una legge per determinare le modalità di rimborso, i membri della Althingi hanno introdotto una serie di limiti, tra cui un tetto ai pagamenti annui, funzione del prodotto interno lordo ed una scadenza perentoria per le garanzie statali indipendente dall’effettivo pieno rimborso del debito. L’indisponibilità dei creditori ad accettare in particolare quest’ultima condizione, ha prodotto una nuova tornata di negoziazioni tra Islanda e Paesi creditori, conclusasi ad ottobre.

Anche se la legge è stata approvata dal Parlamento il 30 dicembre con una maggioranza molto risicata (33 voti favorevoli contro 30 contrari), il 5 gennaio il Presidente islandese, Olafur Grimsson, incalzato da una petizione a firma di 62.000 islandesi (il 25% della popolazione con diritto di voto), si è rifiutato di firmare il provvedimento, sostenendo di non poter ignorare la diffusa insofferenza del suo popolo per le condizioni del rimborso, e indicendo un referendum popolare in materia, da tenersi il prossimo febbraio.

E’ discutibile la scelta di Grimsson, che rischia di essere devastante per il futuro del suo Paese, già provato da una crisi sistemica che ha condotto ad una contrazione del PIL del 7,2% del 2009. Prima di tutto, al presidente islandese è conferita un’autorità di tipo prettamente morale: ostacolare un provvedimento di legge che non mette a rischio la Costituzione, dopo che esso è stato già approvato dal Parlamento, non rientra tra le sue prerogative. In effetti, Grimsson non è nuovo a simili exploit: nel 2004 si comportò in modo identico quando l’Althingi (Parlamento) approvò una legge sulla proprietà dei mezzi di comunicazione di massa.

Inoltre, l’autorevolezza di Grimsson è pari a zero: fa un certo effetto rileggere oggi il discorso vagamente arrogante che tenne nel 2004 ad un pubblico di operatori della City di Londra, nel quale lodava “i giovani vichinghi intraprendenti, sbarcati a Londra per prendersi il mondo” e lodanva la più importante delle tredici virtù cardinali del suo popolo: la propensione al rischio, che “consente di vincere dove altri hanno fallito oppure non hanno osato avventurarsi”. Parole che, aldilà della loro sciocca tracotanza, hanno un devastante peso politico, essendo un chiaro indicatore dell’atteggiamento spregiudicato degli imprenditori e dei finanzieri islandesi che, con la benedizione delle loro istituzioni (Presidente compreso) hanno spacciato il loro Paese.

Infine, secondo quanto il governo islandese ha fatto trapelare sul quotidiano britannico Guardian, attraverso un portavoce del premier Jóhanna Sigurdardóttir, parrebbe che gli asset di Landsbanki, la banca nazionalizzata che controlla Icesave, siano ancora prezzati al 90% del valore nominale. Il che vorrebbe dire che oltre il 70% dell’esposizione islandese verso i correntisti britannici di Icesave potrebbe essere coperta dalla vendita delle attività della banca controllante. Se questo dato fosse confermato - c’è da dubitare della sua veridicità - il caso Icesave verrebbe fortemente ridimensionato, dato che comporterebbe per il popolo islandese un sacrificio di molto inferiore a quanto si va dicendo in questi giorni.

Del resto, la Sigurdardóttir siede su una poltrona bollente: traghettare l’Islanda oltre il guado della crisi in cui si è cacciata è sfida difficile, almeno quanto operarsi con successo al cervello da soli. In poche ore, l’exploit di Grimsson ha già prodotto alcune cose abbastanza preoccupanti: il downgrade del debito sovrano islandese (che, secondo l’agenzia di rating Fitch, passa in territorio “junk”, ovvero “spazzatura”); l’aumento del CDS (misura del rischio di credito di un prenditore sui mercati finanziari) dell’Islanda di 15 centesimi di punto (a 4,9%); la minaccia sospendere il sostegno finanziario da parte di Polonia, Paesi Scandinavi e Fondo Monetario Internazionale ed il blocco dell’adesione dell’Islanda all’Unione Europea.

Anche se è difficile provare simpatia per le torsioni logiche di un politicante come Grimsson, così com’è impossibile non lodare la coerenza e la forza della Sigurdardóttir, l’atteggiamento aggressivo di Gran Bretagna e Paesi Bassi è irragionevole, controproducente ed iniquo. In fin dei conti, è stata una decisione del governo inglese quella di rimborsare per intero i cittadini britannici correntisti di una banca islandese, regolata dalla legge islandese e il cui schema di protezione dei depositi (islandese) è fallito: in fondo, se i clienti inglesi di Icesave ricevevano un tasso particolarmente interessante, una ragione ci sarà pure stata e non è un mistero per nessuno la relazione diretta tra rischio e rendimento.

Eppure Gordon Brown, forse pensando al gettito prodotto dalle imposte sugli interessi di Icesave, è sceso in campo. Dunque, in questo caso, il governo inglese si è comportato in modo esemplare verso i suoi concittadini. Come osserva persino il Financial Times, però, non è chiara la ragione per cui si voglia fare dell’Islanda un esempio per il resto del mondo. La somma in gioco, ragguardevole in senso assoluto, si tradurrebbe in un costo di circa 40 euro per ogni cittadino britannico - mentre significherebbe un aggravio di 14.000 Euro per ogni abitante islandese, dal neonato al più decrepito dei nonni.

E’ bene inoltre ricordare che la Gran Bretagna (come l’Europa in generale) è tutto fuorché una vittima innocente: la regolamentazione e la sorveglianza locale ed europea sulle banche islandesi sono state inesistenti, e certamente qualcosa non deve aver funzionato come doveva se ad agosto 2007 un report a firma del professor Richard Portes, blasonato accademico e ai tempi capo della "Royal Economic Society of Britain", decantava le virtù della banche islandesi: “robuste e di successo, estremamente professionali e non gravate da rischi insostenibili. Questo anche grazie ai buoni livelli di supervisione e regolamentazione, permessi dalla normative europee.” Senza contare che, se il referendum si concluderà con la maggioranza dei No, la questione Icesave potrebbe arenarsi definitivamente, costringendo Gran Bretagna e Paesi Bassi ad una riflessione sui limiti di un atteggiamento muscolare nei confronti di un piccolo paese sull’orlo del baratro.

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Banche, i timori del nuovo arbitro finanziario

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Con molta calma, ma qualcosa si muove: in che direzione, lo capiremo soltanto vivendo. Cambiano le normative sulla trasparenza bancaria e sui rapporti tra banche e clienti, anche se per le nuove norme più “sostanziose” bisognerà aspettare il primo di aprile 2010 (speriamo che la data sia stata scelta senza secondi fini..), come spiega un articolo di qualche tempo fa del Sole 24 ore.

In ogni caso, dal primo di gennaio è partito il novello “Arbitro Bancario Finanziario” - per gli amici “ABF”- supervisionato e gestito per la

arbitro-disegno
“segreteria tecnica” da Banca d’Italia. I timori di cui al titolo erano relativi al fatto che il “rendiconto periodico di fine anno per il 2009, consegnato al cliente nei primi giorni di gennaio 2010, avrebbe dovuto essere già predisposto dagli istituti di credito secondo le nuove norme”, ma per questo, appunto, il termine scatterà solo al pesce d’aprile.

Torniamo quindi al nuovo arbitro: come tutte le cose nuove bisognerà aspettare un po’ per capirne l’effettiva efficacia, ma senz’altro possiamo dire è un meccanismo che si inserisce nel vasto filone della c.d. “fuga dalla giustizia” (sul tema consigliamo la valida monografia riassuntiva di Sergio Chiarloni), ovvero il fenomeno per cui proliferano sempre più le forme di arbitrato, conciliazione et similia dovute al fatto che “l’ordinaria giustizia togata rischia di rimanere schiacciata sotto il peso di una domanda di giustizia in costante progressione, in un periodo storico in cui la crisi fiscale dello Stato impedisce l’adeguamento delle risorse in uomini e strutture.”

Il nostro ABF offre una nuova possibilità di ricorso al cliente degli intermediari finanziari per tutte le controversie che riguardano operazioni e servizi bancari e finanziari quali ad esempio i conti correnti, i mutui, i prestiti personali:

- fino a 100.000 euro, se il cliente chiede una somma di denaro;

- senza limiti di importo, quando si chiede soltanto di accertare diritti, obblighi e facoltà (ad esempio quando si lamenta la mancata consegna della documentazione di trasparenza o la mancata cancellazione di un’ipoteca dopo aver estinto un mutuo).

Come anticipato, staremo a vedere. Per ora possiamo sottolineare alcune cose:

- il passaggio all’ABF sarà possibile “solo dopo aver tentato di risolvere il problema direttamente con la banca o l’intermediario, presentando a essi un reclamo. Se non rimane soddisfatto neanche delle decisioni dell’Arbitro, (il cliente, NdA) può comunque rivolgersi al giudice”…. commento nostro: ma è una semplificazione o un onere in più? Il costo della “chiamata” è comunque relativamente basso (20 euro).

- le “controversie che riguardano servizi e attività di investimento quali ad esempio la compravendita di azioni e obbligazioni ovvero le operazioni in strumenti finanziari derivati, (restano, NdA) di competenza del sistema di conciliazione e arbitrato della Consob.”… commento nostro: sul fatto che la Consob abbia sin qui correttamente ed efficacemente vigilato preferiamo non dir nulla, anche se senza lo scandalo dei derivati forse neanche il nostro blog sarebbe mai nato.

- le decisioni dell’ABF “non sono vincolanti come quelle del giudice ma se l’intermediario non le rispetta il suo inadempimento è reso pubblico” (sembrerebbe sul sito dell’ABF)… commento nostro: mammamia che paura…..

“Le banche e gli enti di controllo sono i primi responsabili della catastrofe finanziaria” - chiosava qualche tempo fa Beppe Grillo: noi certo, vecchi pantofolai socialdemocratici, non saremo così estremisti, però … la tentazione è forte.

Lorenzo Vinci

Finansol.it

http://www.reportonline.it/2010011240133/economia/banche-i-timori-del-nuovo-arbitro-finanziario.html

FINANZA/ 1. L'attacco dei fondi Usa a Obama e (all'Europa)

martedì 12 gennaio 2010

Il prezzo del petrolio è salito ai massimi da 15 mesi e vola verso gli 84 dollari. A New York il light crude avanza di 85 cent a 83,60 dollari, dopo aver toccato un massimo dall'ottobre 2008 a 83,95 dollari. A fare da traino sono la domanda di greggio delle Cina - che a dicembre è salita del 25% - e l'indebolimento del biglietto verde.

Una notizia come molte, già sentita. Se non che qualcosa, nel mondo, sta muovendosi sotto traccia; qualcosa proprio legata a questa crescita della domanda cinese, segnale di una ripresa industriale e di rinnovata crescita. Stando a quanto rivelato dall’International Herald Tribune, il fondo speculativo Kynikos Associates, lo stesso che previde il crollo di Enron, sta scommettendo pesantemente sul default della Cina, ovvero sta posizionandosi al ribasso su quelle società nel settore delle costruzioni e delle infrastrutture che vendono cemento, carbone e ferro ai cinesi.

Stando ai calcoli, del fondo, in Cina sarebbe pronta a esplodere una bolla immobiliare pari a «una Dubai moltiplicata per mille e forse più», inoltre il settore manifatturiero potrebbe pagare il conto a una sovraproduzione di beni che il mercato non riesce più a consumare e assorbire. Per finire, poi, il forte sospetto che i dati macroeconomici forniti dalle autorità cinesi siano falsati. Insomma, il dragone starebbe per finire con le zampe all’aria.

Una cosa è certa: che Pechino trucchi un po’ i conti è noto, ma da qui a definire la Cina un colosso dai piedi d’argilla ce ne passa. Tanto più che se questo dovesse accadere, il primo a pagarne il conto non sarebbe Pechino - che correrebbe ai ripari - ma Washington, che vedrebbe di colpo scaricati i miliardi di dollari di titoli di debito Usa che la Cina detiene. Insomma, in America qualcuno starebbe in qualche modo scommettendo contro il proprio paese.

Il dubbio è forte. E non tanto perché si cerchi l’armageddon per fare soldi a palate con le scommesse al ribasso, quanto perché i segnali che alcune élite politiche e finanziarie siano già stanche delle scelte dell’amministrazione Obama ci sono tutti. E una crisi del deficit federale e commerciale potrebbe far traballare il presidente molto più dei rapporti tesi con Mosca o delle riforma sanitaria.

A confermare questa ipotesi è stato, indirettamente, Irwin Stelzer nella sua rubrica domenicale sull’inserto Business del Sunday Times. Chi sia Stelzer è presto detto: è l’ambasciatore politico e l’eminenza grigia di Rupert Murdoch. Ciò che il tycoon non può dire, finisce negli articoli di quest’ultimo. E, casualmente, l’altro ieri nel suo “american account”, Stelzer parlava del rischio di una crescita esponenziale del deficit come motivo di preoccupazione per gli elettori americani.

Elettori: non popolo, non contribuenti, non cittadini. Elettori. Gli stessi che magari hanno mandato Obama alla Casa Bianca e che ora potrebbero cambiare idea. Non pensiate a un golpe o peggio a un attentato o altre mosse dietrologiche, la geofinanza non ne ha bisogno. Una crisi del credito, di fatto, ammetterebbe misure di emergenza sia per il governo, sia per il Congresso, sia, soprattutto, per la Fed: manovre monetarie, di leva fiscale ma anche di guerra commerciale.

Obama, già alle corde con la recrudescenza dell’allerta terrorismo, tutto può permettersi tranne che vedere il deficit superare l’attuale livello record. I numeri parlano da soli. Il deficit statunitense, al 30 settembre, ha infatti raggiunto la cifra record di 1,4 trilioni di dollari, la più alta in assoluto dai tempi della fine della seconda guerra mondiale. Il rapporto deficit/Pil - quello che il trattato europeo di Maastricht fissa al 3% - è arrivato negli Usa a sfiorare il 10%. Il peggioramento è stato netto nell’ultimo anno: nel 2008 il deficit era fermo a “soli” 459 miliardi di dollari ma la crisi finanziaria, i massicci aiuti alle banche e alle imprese in difficoltà, nonché il minor gettito fiscale causato dalla crisi economica hanno fatto peggiorare nettamente i conti.

Già lo scorso ottobre, quando furono resi noti questi dati, la minoranza repubblicana al congresso usò subito le cifre per attaccare la politica di spese pubbliche del presidente Obama, che però ha accusato l’amministrazione Bush di aver creato le premesse per un deficit così alto. L’attacco di Stelzer, domenica, era chiaro: Obama, con la sua politica, si è messo sullo stesso piano del greco George Papandreou e di Gordon Brown, altri due leader capaci di portare i deficit degli Stati che governano in doppia cifra in rapporto al Pil.

Stelzer invocava riforme, chiamava il Senato a un’azione che non si riducesse a un secondo pacchetto di stimolo fiscale che scaricasse su figli e nipoti i costi delle politiche attuali dei padri solo per salvare le vite pubbliche di alcuni politici. Insomma, per il “portavoce” di Rupert Murdoch - uomo che con le sue tv e giornali influenza non poco l’opinione pubblica a stelle e strisce, così come britannica - Obama non starebbe governando in base al principio del buon padre di famiglia: starebbe pensando all’oggi e non al domani, non tenendo conto del grido di allarme che arriva dall’economia reale e dalle strade, lasciando crescere il tasso di disoccupazione e infischiandosene degli studi di economisti e Fed che, nonostante parlino di un deficit destinato a scendere nei prossimi anni, non lo vedono comunque mai più al di sotto del 5% in rapporto al Pil. Troppo per un gigante come gli Usa.

Serve un cambio di marcia e per non creare scossoni di tenuta democratica, nulla è più salutare di una minaccia da parte di Pechino rispetto alla diversificazione delle riserve - che farebbe crollare ancora di più il dollaro - e all’abbandono della politica di mantenimento a galla del debito Usa attraverso la detenzione in massa dei suoi titoli.

A quel punto, con un rischio mortale ancorché “artificiale” all’orizzonte, Obama sarà costretto a cambiare registro e anche uomini, mettendo ai posti chiave personaggi di quel mondo della finanza, dell’economia e delle élite che dopo la grande crisi iniziata due anni fa e la dipartita dell’amministrazione Bush temevano di non poter più rientrare in gioco.

La “strategia per un nuovo secolo americano” prefigurata da Dick Cheney non passa obbligatoriamente dalle armi: anzi, si attua meglio attraverso battaglie economico-politiche-finanziarie di bassa intensità come quelle messe in atto dai fondi e fatte trasparire da Irwin Stelzer.

Torneremo a parlarne, molto presto. Una cosa è certa: gli Usa non intendono veder ridimensionato il loro ruolo di potenza. E non permetteranno a nessuno, nemmeno a Obama, di fermare questa loro decisione.

http://www.ilsussidiario.net/News/Economia-e-Finanza/2010/1/12/FINANZA-1-L-attacco-dei-fondi-Usa-a-Obama-e-all-Europa-/60706/

BERNASCONI

La strada é bloccata. Visto il tipo di trasporto é probabile che il problema duri un pò di tempo e bisogna armarsi di pazienza. Ieri le borse hanno nuovamente cercato la strada verso l'alto ma sono state bloccate e rimandate al punto di partenza. È probabile quindi che ora inizi un nuovo noioso movimento laterale. Gli avvenimenti di ieri non ci forniscono abbastanza argomenti per un commento esteso e ci limitiamo ad un breve aggiornamento. Sembra che la situazione di ipercomperato ed il punto tornante dell'8 di gennaio siano in grado di bloccare il rialzo ma non di causare un'inversione di tendenza. Ieri le borse europee hanno iniziato bene salendo su nuovi massimi ma sono cadute nel pomeriggio. A fine giornata le differenze con venerdì scorso sono state minime (Eurostoxx50 -0.25% a 3010 punti e DAX +0.05% a 6040 punti). In America l'andamento é stato opposto - debolezza fino a metà giornata e poi ripresa su nuovi massimi per la chiusura. L'S&P500 si é fermato a 1147 punti (+0.17%) con un massimo giornaliero a 1149.96 punti. La tecnologia (Nasdaq) ha chiuso in negativo ed in controtendenza. II numero di titoli che hanno toccato un nuovo massimo a 20 giorni (NH a 20D) é risalito ad un "normale" 2436 mentre la volatilità VIX é scesa a 17.55 ed il puts/calls ratio a 0.68. L'eccesso di ottimismo e la situazione di ipercomperato dovrebbero bloccare il rialzo sui livelli attuali ma non vediamo NIENTE che ci possa suggerire un'imminente cambiamento di tendenza. I rialzisti possono dormire sonni tranquilli ma non sperare in consistenti guadagni. I ribassisti devono avere pazienza - verrà il loro turno. L'USD Index é caduto a 77 punti (-0.60%), importante supporto. Il cambio EUR/USD é salito a 1.4490. Questo pull back é normale ma ora il supporto deve tenere - in caso contrario il rialzo del dollaro é a rischio. http://www.longshortinvest.com/4603.html

Un Piano Perfetto per Competere con l'asia

  • 23:47 11/01/10
  • In Inghilterra seguendo passo passo l'evoluzione degli Stati Uniti ora hanno il problema che gli immigrati da diverse areee del terzo mondo rimangono indietro a scuola (non però gli indiani che fanno meglio degli inglesi in molti casi) e allora spendono soldi a casaccio per cercare di colmare il gap (tanto ormai come debito l'anno data persa, il rating dell'Inghilterra da natale è passato sotto quello dell'Italia). Oggi ad esempio qui vedi Gordon Brown che regala 250 mila computer portatili più abbomamento ADSL gratuito agli studenti più somari che dalla foto sembrano immigrati. Intanto in Cina figli di contadini poveri, senza nemmeno un libro in casa e che il computer lo vedono solo in TV si classificano dieci posti davanti agli studenti inglesi nelle classifiche mondiale. Nella stessa pagina dei giornali inglesi oggi leggi che nonostante sia il paese al mondo con minore evasione fiscale (si stima solo 3 miliardi di sterline l'anno) hanno lanciato oggi una campagna di repressione dell'evasione contro medici e professionisti di tipo sovietico, danno due mesi di tempo per venire a dichiarare compensi passati in nero e poi rischi sette anni di carcere. La logica è : importo emigrati dal terzo mondo con basso quoziente di intelligenza e questi rimangono indietro a scuola: allora spendo milioni extra solo per loro per mandarli avanti e prendo i soldi agli inglesi che andavano invece bene a scuola e sono diventati medici, dentisti o commercialisti o ingegneri. E' un piano perfetto per competere con l'Asia, che invece preferisce investire le risorse sugli studenti migliori e con maggiore potenziale
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Economia cinese: tutte le trappole per il 2010

11/01/2010 13:51 CINA Bolla immobiliare e inflazione rischiano di rendere inutili gli enormi aiuti statali all’economia interna. Che nell’anno in corso dovrebbe crescere del 16 %. Nella prima settimana di gennaio, il governo ha concesso 60 miliardi di euro in prestiti alle aziende.
Pechino (AsiaNews) – L’economia cinese, nonostante una crescita prevista del 16 %, potrebbe affrontare un anno durissimo dal punto di vista finanziario. Il rischio è che esploda la bolla relativa alle proprietà immobiliari e che aumenti in maniera vertiginosa l’inflazione, facendo così decollare il costo della vita. Lo dicono due ricercatori proprio del governo cinese, Yao Zhizhong e He Fan, che in un articolo sull’organo ufficiale China Securities Journal avvertono: “Se il governo continua a immettere stimoli economici pari a quelli del 2009, l’anno appena iniziato sarà molto pericoloso”.
I pericoli principali riguardano l’inflazione, in rapida crescita dopo l’immissione di troppo denaro contante da parte di Pechino, e la bolla immobiliare. Se questa dovesse esplodere, l’economia reale del Paese – considerando tutto l’indotto collegato alla produzione edile – ne risentirebbe fortemente, con conseguente aumento della disoccupazione e lo stop del settore.
L’allarme dei due economisti nasce dai prestiti bancari concessi dalla Cina nella prima settimana di gennaio, per un valore totale di 600 miliardi di yuan (circa 60 miliardi di euro). Ovviamente, la cifra nasce dello sblocco dei fondi delle richieste presentate alla fine del 2009, ma rappresenta comunque un introito valutario estremamente ampio. I prestiti sono confermati sempre dal China Securities Journal, che cita come fonte Ba Shusong, vice direttore dell’Istituto di finanza del Consiglio di sviluppo statale.
Per cercare di evitare troppi danni, il governo centrale ha emesso una nuova direttiva che cerca di impedire l’eccessiva crescita del prezzo delle case e l’immissione in quel circuito di denaro proveniente dalla malavita. I prezzi delle abitazioni in 70 città di media e grande statura sono cresciuti del 5,7 % rispetto a un anno fa. Questo mette fuori gioco i poveri, la stragrande maggioranza della popolazione, che senza una casa non può fare altro che ritornare nelle campagne. Bloccando di fatto la produzione industriale, di cui i migranti interni sono il motore.
Secondo i due economisti, Pechino dovrebbe dunque limitare gli stimoli. Una loro ricerca dimostra infatti che, con aiuti “moderati”, l’economia potrebbe crescere dell’11,6 %; un ritiro completo delle misure centrali porterebbe invece il dato al 7,7 %. La crescita economica della Cina, lo scorso anno, si è assestata sull’8,5 %, nonostante la pesantissima crisi finanziaria internazionale.
Il ministro cinese delle Finanze, Xie Xuren, non è d’accordo. Nel corso di un incontro che si è svolto ieri, il politico ha infatti definito “pericoloso” interrompere troppo presto le politiche di sostegno all’economia. Secondo Xie, tuttavia, le misure “dovrebbero aiutare a implementare il consumo interno dei nostri prodotti”. All’atto pratico, ha concluso il ministro, “dovremmo agire per aumentare i salari, in particolar modo quelli degli operai e dei contadini; riformare le politiche di tassazione e continuare a spendere per i lavori pubblici, come scuole e ospedali”. http://www.asianews.it/notizie-it/Economia-cinese:-tutte-le-trappole-per-il-2010-17317.html