Euro-dracma e mondo nuovo

Che bilancio singolare, quello dell’eurocrisi in salsa greca. Un euro-dracma, più che un eurodramma. Dà ragione a ciascuno, a tutti e a nessuno.Se la guardiamo con l’occhio americano, ha dato ragione a Milton Friedman e Martin Feldstein, i monetaristi falchi di Chicago che prima della moneta unica ammonivano l’Europa a non illudersi. Ma dà ragione anche – almeno secondo lui – a Paul Krugman, che cita proprio la coppia di tradizionali nemici per sposare il loro punto di vista, sui rischi di una moneta unica introdotta tenendo però separati i sottostanti mercati del lavoro, beni e servizi e le relative curve di costo. Anche se Krugman da buon iperkeynesiano ne tira conseguenze opposte, e dice oggi che non è dell’eccesso di deficit e debito pubblico che è il momento di preoccuparsi, ma dell’eccesso di stretta che il partito del rigore pretende di esercitare, per tenere le finanze pubbliche in equilibrio al momento sbagliato.

Se all’euro-dracma guardiamo con l’occhio europeo, dà ragione al partito eurortodosso germanico, che con Karl Otto Pohl, Jurgen Stark e Axel Weber – il passato, presente e forse futuro della BCE, se continuerà a vincere Berlino e a Trichet non succederà Mario Draghi – ha ribadito che il salvataggio dei reprobi greci non era possibile, sarebbe stato come aprire il vaso di Pandora e ne sarebbe uscito ogni male, la rottura stessa del presupposto costitutivo dell’euro. L’articolo 123 e 125 del Trattato stabiliscono che l’Unione non è responsabile dei debiti e dei deficit dei Paesi membri, come di ogni amministrazione pubblica che loro appartenga.

Ma dà ragione anche alla Francia di Sarkozy, che è su posizioni molto diverse e si appella all’articolo 122, per il quale in casi di particolare ed estremo pericolo il Consiglio europeo può varare – all’unanimità o a maggioranza a seconda della gravità – l’aiuto a un Paese membro. Persino a casa nostra, le posizioni si sono scambiate a sorpresa. Padoa Schioppa, ex ministro di Prodi, ha detto no a salvataggi gratis. Per Antonio Martino, ex ministro di Berlusconi e soprattutto liberista a cento carati, il salvataggio greco era invece auspicabile, per evitare il peggio. Roberto Perotti, che sta col mercato ma iperliberista non è, dice invece che tuitto smmatom era meglio lasciare la Grecia al suo destino, per sperimentare una way oput temporanea che riaggiusti col cambio gli squilibri da eccesso di debito. Nouriel Roubuini ha sostenuto la stessa cosa, proponendo l’introduzione di un doppio regime valutario, in dracme all’interno e in euro sul debito pregresso: sarebbe tutto0 da vedere, con che effetti sul cambio dell’euro sul dollaro e yuan… In ogni caso, sembran contenti tutti. Gli elettori tedeschi perché Berlino non paga per gli spreconi. Quelli greci, perché Papandreu ha detto no ai nuovi tagli chiesti dai tedeschi.

Ma che crisi è, una che dà ragione a chi la pensa in un modo e insieme a chi la pensa al contrario? Prima che si capisca davvero se l’euro-dracma sia o no una tragedia di Eschilo, è apparsa come una commedia di Menandro. Limitiamoci a mettere infila almeno alcuni dei problemi aperti, e dei paradossi – più che soluzioni – in cui essi sembrano risolversi.

Il metro del debito

La Grecia si è indebitata negli ultimi mesi? No. E’ iperindebitata da anni. E’ vero, ci ha messo del suo mentendo sulla contabilità nazionale. Quando i socialisti di Papandreu hanno qualche mese fa vinto le elezioni, hanno scioccato tutti violando l’autonomia dell’Istat greco, e obbligandolo a dire che il deficit lasciato dal centrodestra non era il 3,5% del Pil, ma del 10% maggiore. La differenza, però, non sta neanche in questo. E – non lasciatevi deviare da coloro che danno tutta la colpa a i derivati – non sta nemmeno negli swap proposti e realizzati al Tesoro greco da Goldman Sachs, cioè nel debito nascosto trasferendolo in scommesse valutarie sui cambi negli anni a venire, cosa che – entro certi limiti – è anche ammessa dai criteri di Eurostat. E che dice più del mestiere di Goldman, che di quello greco.

Il punto è un altro. La grande crisi del 2008 e 2009 ha cambiato i criteri con cui il mercato considera il debito di un Paese. Non conta più solo il debito pubblico, cioè il metro per il quale quello italiano era il terzo debito al mondo dopo quello americano e giapponese (da pochi mesi, anche con questo criterio saremmo comunque oggi il quarto, la Germania ci ha superato). L’esplosione delle bolle da cui nasce la grande crisi – quelle mobiliari e immobiliari – ha ottenuto l’effetto di considerare tutte e quattro le componenti da sommare, per l’indebitamento di un Paese. Il debito pubblico, certo: ma poi anche quello dei privati. Delle famiglie, delle imprese non finanziarie, e anche delle banche. In più, poiché a esplodere sono stati i Paesi con il più grave squilibrio di bilancia dei pagamenti e commerciale, occorre guardare anche al flusso annuale di attivo o passivo sull’estero, e non solo a quello patrimoniale.

E’ questa la spiegazione, del perché la crisi abbia colpito la Grecia, e metta in fila come potenziali altri candidati Portogallo, Spagna, Irlanda. Non l’Italia. Il nostro Paese ha un elevato debito pubblico, ma basso delle famiglie, e persino nella componente imprese non se la passa troppo male (rectius: da noi questo è un freno non sull’estero ma forte sull’interno, perché le aziende italiane sono piccole e dunque tradizionalmente sottocapitalizzate, dunque anche se meno indebitate rispetto alle concorrenti in assoluto, ne sono più frenate su investimenti e crescita perché hanno esigui attivi patrimoniali per ottenere credito).

Le conseguenze

Fin qui, ormai la pensano tutti allo stesso modo, keynesiani e anti, americani ed europei. Attenti però. Se si crede davvero a questo metro, allora esso sovverte alcune gerarchie. Per cominciare dall’Europa, la Germania dovrebbe contare assai meno, rispetto alla tradizionale egemonia nelle eurovicende. E quanto alla tradizionale motrice franco-tedesca, l’Italia dovrebbe puntare i piedi, perché il nostro debito complessivo è migliore di quello francese. Le famiglie francesi a metà 2009 sono gravate da un debito superiore del 12% di Pil rispetto a quelle italiane, e le imprese non finanziarie di uno maggiore del 26% di Pil rispetto alle nostre. Nel conto finale i nostri 35 punti in più dei debito pubblico vengono pareggiati e superati, dai francesi, rispetto ai quali esportiamo anche di più.

Ma anche gli Stati Uniti, se si adotta questo metro, sarebbe bene abbassassero un po’ le penne. Ha ragione Niall Ferguson, lo storico dell’economia che ha parlato dell’euro-dracma come di una malattia che riguarda anche gli States. Il debito delle famiglie sul Pil è più che doppio del nostro, arriva al 96%. E questo solo fatto annulla i 35 punti in più di debito pubblico italiano. In più, gli Usa sono in deficit cronico di bilancia commerciale. E rischia di ridursi di molto l’avanzo di flussi finanziari che sosteneva i consumi americani maggiori del reddito e del prodotto: la Cina comprava il 46% di titoli del debito pubblico Usa solo 3 anni fa, ma è scesa al 20% nel 2008, al 5% nel 2009.

La bilancia del debito

Purtroppo, non è cambiata però solo l’unità di misura del debito. E’ cambiata anche la bilancia. E questo è un problema che disorienta e divide. Prima erano le quattro agenzie internazionali di rating, a giudicare il debito pubblico come quello delle grandi corporations, con proprie valutazioni sui conti pubblici e tenendo d’occhio gli spread registrati ogni giorno sul mercato tra i rendimenti dei titoli pubblici decennali tedeschi e quelli di ciascun Paese dell’eurozona. Ma con la crisi la credibilità delle agenzie di rating è andata a pallino. Il mercato ha iniziato ad affidarsi a un criterio che apparentemente è meno discrezionale, cioè all’andamento non degli spread sui titoli ma dei CDS, cioè dei contratti derivati attraverso i quali ogni giorno si misura il rischio di assicurazione dei debiti sovrani, scommettendo sul suo andamento a termine. E’ un meccanismo più di mercato? Sì e no. In un mondo nel quale politica e regolatori diffidano dei derivati, da un anno e mezzo sui mercati è aperta la grande gara a concentrarsi ogni tot mesi su futures diversi, alla ricerca del maggior guadagno speculativo a breve. L’euro-dracma si acuisce dal 12 gennaio, cioè dal giorno in cui alcune decine di primary dealers sul mercato dei futures chiudono le posizioni corte tenute sulla svalutazione del dollaro, e si riversano nel mercato dei CDS sovrani. In pochi giorni, il CDS greco arriva a 400 punti, raddoppiando cioè la soglia di rischiosità segnata fino a poche settimane prima. Siamo proprio sicuri, che questa nuova bilancia sia più fedele della precedente? Di certo, io la preferisco alle agenzie. Ma forse sarebbe saggio alzare i margini, per partecipare al mercato dei CDS. Altrimenti la volatilità darà ragione alle ministre dirigiste francesi Lagarde che protestano, e insieme ai politici populisti e spreconi e ai loro elettori nazionalitar-corporativi – Italia è di te che sto anche parlando! – che indicano i complotti dell’odiata finanza anglosassone come i veri responsabili dell’eurocrisi.

A debito nuovo, mondo nuovo

Quali conseguenze trarne? Fino a quest’oggi, i governi hanno rappezzato. L’Europa non ha saputo indicare una strada nuova. I tedeschi hanno la meglio, tagliando le unghie ai francesi che immaginavano un salvataggio concordato fosse l’annuncio di un’Europa finalmente politica e non delegata alla sola BCE. Nessuno statista europeo ha saputo o voluto mettere i tedeschi di fronte a un’altra prospettiva. Senza un inizio almeno di debito condiviso in eurobond – è così che nacquero davvero gli Stati Uniti con Alexander Hamilton, che non si limitò a dar vita alla prima banca centrale USA – non c’è strumento finanziario di politica davvero comune, politicamente non si esiste ma si resta una pura area monetaria. Anche in Italia, solo pochi come Paolo Savona hanno detto che occorrerebbe anche più dell’eurodebito, cioè un’iniziativa europea per un accordo valutario a tre, non più lasciando la scena a dollaro e yuan, per chiedere finalmente pari responsabilità ai Paesi in surplus come la Cina e a quelli in deficit di bilancia corrente, per agire reciprocamente sulla domanda interna invece di cercare aggiustamenti reciproci di cambio e o d’inflazione. Altrimenti, svalutazioni competitive e aumenti del prezzo per via del dollaro unica vera valuta ancora di riserva mondiale continueranno a riverberarsi entrambi negativamente sull’attuale Europa ”impolitica”. E più sull’Italia che sulla Germania, come i tedeschi sanno benissimo. Infatti, a loro va bene.

E’ un mondo nuovo, quello che bisogna avere la forza di immaginare alla luce di ciò che la crisi ha mostrato. Non c’é ruolo diverso degli USA nel mondo senza un’Europa più consapevole. Ma non è la via tedesca, quella da seguire. Perché a Berlino preferiscono il solo euro in cui dominano come potenza continentale, a un’europolitica che li farebbe contare meno. Chi qui scrive pensa che l’europolitica non ci sarà. E allora sarebbe meglio che comunque l’Italia imparasse a difendersi meglio, rispetto alla primazie franco-tedesche alla quale le nostre implumi classi dirigenti prestano troppo ascolto. Non solo ma anche, perché hanno studiato meno di loro.

http://www.chicago-blog.it/2010/02/16/euro-dracma-e-mondo-nuovo/

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