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E’ recente la notizia della vittoria in terra elvetica di un quanto mai controverso referendum, che di fatto ha imposto lo stop alla proliferazione di costruzioni adibite al culto islamico. Un referendum boicottato e condannato in tutta Europa a gran voce dai buonisti di turno (chiesa, associazioni solidariste, etc.), ma che in Svizzera ha invece trovato degli insospettabili alleati, tra quegli stessi intellettuali, scrittori e nomi di grido, tradizionalmente collocati su posizioni progressiste. Cosa è successo? Il piccolo Paese nel cuore dell’Europa si è improvvisamente svegliato xenofobo e razzista, o c’è qualcosa di più? Il fatto è che i media, con una cocciutaggine degna di un mulo, si ostinano ad ignorare quel profondo malessere che sta silenziosamente attraversando l’Europa. Questo malessere è sintomo del fallimento dell’intera costruzione politico-economica europea e di quelle politiche incentrate sull’apertura a tutti i costi ad un modello di società multiculturale e multietnica. Nel cinquantennio seguito all’ultimo conflitto mondiale, sino alla caduta del Muro, la costruzione europea era limitata ad un ristretto numero di fortunati, che beneficiava di quei vincoli economici e finanziari, risultanti dagli accordi di Bretton Woods. Frontiere, dazi e consistenti limiti d’azione per i mercati finanziari, accanto ad interventi pubblici nelle varie economie, permisero uno sviluppo graduale e controllato delle economie del Vecchio Continente, tale da generare un senso di impotenza, invidia e frustrazione da parte di ambedue le due superpotenze rivali Urss ed Usa. La prima perché vedeva vanificati i propri sforzi destabilizzatori dall’avanzante benessere economico dell’Europa Occidentale, la seconda perché, con la scusa del perdurare dello status quo di Yalta, si trovava a dover affrontare praticamente da sola le maggiori spese per il mantenimento sul suolo europeo di un gigantesco sistema di difesa , oltre alle altrettante colossali spese per il continuo riadeguamento dei propri sistemi di difesa nella continua competizione con l’Urss. La fine del blocco sovietico arriverà così repentinamente, da far sorgere il motivato sospetto che il blocco di potere sovietico non vedesse l’ora di sganciarsi dal marxismo, scaricando sull’Europa Occidentale tutto il destabilizzante peso di questa scelta. In effetti, la sonnacchiosa e sgangherata Europetta di Bruxelles fu colta di sorpresa dagli eventi e, con grande gioia di ambedue gli ex contendenti Usa ed Urss, iniziò il proprio graduale suicidio. Anziché porre in essere un’accorta riflessione su quanto andava accadendo, spinti da un’ubriacatura di stampo neoliberista, incentivata dai media succubi delle teorie dei vari Chicago Boys, si iniziò a smantellare forsennatamente tutte quelle sovrastrutture che in Europa avevano sino a quel momento garantito benessere e protezione sociale, confondendo inefficienza e burocratizzazione con privatizzazione. Passo numero due. All’insegna della medesima ubriacatura, si intraprese la strada degli accordi sul commercio globale (GATT), con cui gli stati nazionali andavano via via perdendo qualsiasi controllo su quei flussi economici, ora sempre più incentrati sull’infamia della delocalizzazione delle attività industriali. Non solo. Anziché cercare di comprendere la forte crisi d’identità che attraversava l’idea di stato, (come dimostrato dagli eventi della ex Jugoslavia), e porre mano ad adeguate riforme strutturali, si pensò bene di svuotare gli stati nazionali europei di competenze e funzioni, demandati invece ad un ben peggior super-stato europeo, asservito a burocrazia e banche. Con la stessa delicatezza di un elefante all’interno di una cristalleria, si è poi deciso di imporre ai popoli europei un sistema monetario unificato attraverso l’euro che, senza tener conto delle debite peculiarità socio economiche del Vecchio Continente, ne ha invece gettato l’economia in uno stato di perenne recessione. La partecipazione attiva alle bravate statunitensi in scenari esteri, ha poi ulteriormente allungato le ombre di una crisi economica, ora alimentata dagli altissimi costi per il mantenimento di truppe all’estero. Ma il colpo di grazia l’ha dato la folle politica dell’accoglienza che, negli accordi di Schengen applicati senza alcun criterio selettivo, ha trovato il proprio definitivo e devastante clou. Dopo aver per anni spalancato le porte ad immigrati di provenienza extraeuropea che hanno defraudato i lavoratori europei dei propri posti, dopo aver messo in ginocchio le casse dei vari stati grazie alle sostanziose sovvenzioni sociali di cui questi immigrati hanno beneficiato, bene, è arrivato il turno dell’invasione da parte di etnie che, anche se provenienti dall’Europa, hanno creato forte disagio sociale nelle nazioni in cui si sono impiantati. L’Italia in particolare, oltre ad essere la agognata meta di etnie di origine nord africana (marocchini, tunisini, egiziani, etc.), asiatica (bengalesi, indiani, pakistani, filippini, cinesi, etc.), africana (senegalesi, congolesi, etc.) e latino americana (peruviani, ecuadoregni, brasiliani vari, etc.) è divenuta il centro di arrivo di romeni, albanesi, ucraini, polacchi, rom, etc., ovvero di tutti coloro che provengono da tutte quelle nazioni d’oltrecortina, passate da regimi di ispirazione marxista filosovietica, al modello “pappaland”, di sicura ispirazione nordamericana, (e che in nazioni come Kosovo, Albania, Romania, Bulgaria, etc. trova dei concreti esempi di riferimento) impostato su traffico di droga, armi, prostituzione, veicolati da una massiccia invasione migratoria verso nazioni come l’Italia. L’effetto di tutto questo è devastante: la razza padrona, grazie alla manodopera straniera a basso costo, continua a crapulare alle spalle dei lavoratori nostrani, sempre più immiseriti e precarizzati. Stupri e violenze senza fine compiuti dagli stranieri, ingenerano tra i cittadini italiani sempre più paura ed insicurezza. Le mafie nostrane, nonostante l’azione di contrasto delle Forze dell’Ordine, grazie alla manovalanza straniera continuano a perseguire i propri loschi intenti. A questo punto, senza ombra di dubbio, possiamo dire che il processo di unità europeo sta fallendo su tutti i fronti, grazie ad un primario equivoco di base. Creder di fare dell’Europa un megastato centralizzato, animato da un’unica politica economica, amministrativa e legislativa è follia pura. La peculiarità dell’Europa sta nel convivere su un’unica piattaforma continentale di plurisecolari, tradizioni, usi , consuetudini ed eredità, assolutamente non conformabili ad un unico soffocante modello. L’Europa è nazioni, regioni e macroregioni. E’ popoli, lingue, dialetti, cucine e sapori. Quattro buffoni a Bruxelles, non possono e non debbono permettersi di pontificare sulla pelle dei popoli europei. Riedificare l’Europa come confederazione di liberi Stati, con tanto di autonomia decisionale in materia economica e politica, con tanto di frontiere erette a difesa del benessere e degli interessi dei singoli popoli. Tutto questo senza dimenticarsi di avere, in quanto europei, dei motivi di comune appartenenza, che una libera confederazione potrà benissimo assolvere, senza stravolgere il tessuto connettivo dei vari stati, ma anzi, ponendosi come baluardo di comune difesa contro le politiche e le economie più aggressive come quelle degli Usa e della Cina. Un modello confederale che dovrà far da battistrada all’idea che, in un mondo sovrappopolato come il nostro, le cui distanze sono state progressivamente accorciate dai mezzi di comunicazione, un solo soggetto statuale non può più tirar le fila per tutto il resto, ma a farlo saranno tutta quella serie di entità che a livello statale, regionale o macroregionale, rappresenteranno le varie istanze geopolitiche e geoeconomiche di riferimento. In uno scenario simile, parlare di immigrazione è un vero e proprio non senso ontologico. L’immigrazione è oggidì l’arma con cui i poteri forti dell’economia e della finanza mondiale cercano di sottomettere e ridurre in totale soggezione i popoli che la subiscono anzitutto, ma anche quelle nazioni da cui essa parte e che si trovano via via private di un fondamentale apporto di risorse umane. La battaglia deve dunque partire dalla graduale riappropriazione della sovranità territoriale, da parte dei singoli stati. Abolire l’infamia di Schengen, ripristinando in tal modo le frontiere nazionali. Iniziare una graduale riduzione del numero delle presenze di stranieri in Italia, tramite una progressiva revoca dei permessi di lavoro, sino ad arrivare alla proibizione in toto dell’assunzione di lavoratori stranieri. Prevedere l’intervento dello Stato in sostegno o sostituzione dei privati, laddove con la partenza degli allogeni vengano lasciate delle carenze. Certo una battaglia difficile e scomoda, che i codardi ed i traditori buonisti di tutte le risme boicotteranno a gran voce, preferendo invece dedicarsi a battaglie o a dibattiti di retroguardia, molto spesso condite da un dolciastro sapore nostalgico, come nel caso dei destroidi e dei neofascisti, legati ad inestinguibili sensi di colpa, a cui andrebbe invece sostituita una battaglia per la democrazia diretta; ovvero laddove i governi eletti dal popolo facciano orecchie da mercante, si deve poter intervenire a colpi di referendum ed il caso dell’invasione migratoria rientra alla perfezione in quanto sin qui detto. Il cammino verso la democrazia diretta è ora aperto: spetta a noi fare da battistrada lungo un cammino difficile ma possibile, tutto all’insegna di un rinnovato senso di legalità e di partecipazione delle masse al processo democratico.
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