In un articolo apparso alcuni giorni or sono su Rinascita a firma di Carmelo R. Viola viene citato il grande matematico Bruno de Finetti il quale sostiene che «il colmo dell’assurdità e la più chiara prova dell’assurdità del sistema capitalista, è l’esistenza della disoccupazione». Questa affermazione, ammantata dai concetti di chiarezza e di sintesi, è l’ennesima riprova – se mai se ne avvertisse il bisogno – che una critica al sistema socioeconomico capitalista, liberista o “di Stato” (?) che sia, trascende da una profonda conoscenza delle dottrine economico-finanziarie e dalle più profonde argomentazioni degli economisti, ma può essenzialmente fondarsi sui cosiddetti “conti della serva” o sui più lineari concetti dell’algebra elementare.
Se un sistema che si vanta di essere il migliore dei modelli possibili dalla creazione dell’uomo in poi non è in grado di garantire la sopravvivenza (non dico “dignitosa”, ma sopravvivenza tout court) dei cittadini da questo sistema amministrati, c’è qualcosa che non va. E’ limitante – e del tutto errato – affermare che il malfunzionamento del capitalismo risieda nelle ‘mele marce’, nelle schegge impazzite di un sistema che altrimenti garantirebbe il perfetto funzionamento della società e assicurerebbe il benessere collettivo. E’ altresì limitante – anche se, in questo caso, giusta - l’analisi secondo cui le società capitaliste abbiano la propria ragion d’essere e il loro motivo di sostentamento nello sfruttamento coloniale dei “paesi poveri”[1], secondo cui la ricchezza dei pochi deve giocoforza basarsi sulla povertà dei molti, dove questi “pochi” e questi “molti” coincidono rispettivamente col nord e col sud del mondo (o, se si preferisce, con l’ovest – anzi, col west… – e con l’est). Questa ultima visione, pur se scientificamente fondata e politicamente corretta (in senso letterale), tende a universalizzare lo schema dello sfruttamento, favorendo quindi l’occultamento della sua dimensione nazionale, dimensione che vede in una plutarchia oligarchica e burocratica autoctona (per quanto internazionalizzata e apolide) il cardine dello sfruttamento e della riduzione in schiavitù economica del popolo. Non si vuole con ciò sminuire la portata planetaria della critica al sistema capitalista: lo si vuole però contestualizzare nelle forme e nelle espressioni che lo precipitano, con tutta la sua forza distruttrice, nel sociale e nella quotidianità della vita della nazione. Si vuole, pertanto, dare un senso al legame velato ma inossidabile che congiunge il sistema transnazionale mondialista al disoccupato, allo sfruttato delle nostre città e delle nostre campagne[2].
La prima vittima, il primo cadavere che il cittadino comune vede sulla strada in questa sporca guerra dei signori del denaro contro il popolo, è il lavoro. Analizziamo quindi le cause e i fenomeni della nuova tragedia del lavoro nazionale e del suo seguire i destini della nazione nel suo percorso di disfacimento.
Il precariato visto dalla logica e dal senso comune. La grande maggioranza, se non la totalità, dei Contratti collettivi nazionali definiscono il concetto di “periodo di prova” che il lavoratore deve necessariamente superare per porre in essere la propria assunzione. Da tale periodo di prova trae enorme vantaggio il datore di lavoro, essendo i diritti del lavoratore fortemente limitati nel corso di detto periodo. Per i contatti di lavoro a termine, che – soprattutto in Italia – hanno spesso durata molto breve, anche di una o di poche settimane, il periodo di prova dura pochi giorni. A causa di ciò, oggi tutto ciò ha perso di senso: non essendo imputabili al lavoratore neo-assunto delle ‘colpe’ per un rendimento non ottimale (che è naturalmente dovuto alla scarsa esperienza), il non superamento di questo periodo si verifica quasi esclusivamente a causa di motivazioni che sarebbero già ampiamente assorbite da quelle che provocano il licenziamento “per giusta causa”, quali l’assenza ingiustificata o gravi atti di indisciplina. Pertanto, de facto, il periodo di prova è diventato oggi lo stesso contatto a termine; ciò ha conseguenze nefaste: la scadenza di un contratto di lavoro a tempo determinato, infatti, pone fine tout court al rapporto di lavoro, senza che il datore di lavoro sia tenuto a fornire la benché minima giustificazione. Quindi la mancata proroga di contatto, l’allontanamento, possono colpire i lavoratori anche per ragioni che – non espressamente dichiarate – possono sconfinare nella pura discriminazione, possono basarsi sul sesso, sulla religione, sullo stato sociale, sulle condizioni di salute, sulle opinioni politiche, o sulla mera antipatia. I nostri solerti sindacalisti, così attenti a rosicchiare cavilli nella concertazione per i CCNL, non considerano evidentemente la questione degna di nota, né si ha memoria di battaglie sindacali finalizzate alla definizione del “lavoro a termine” nel senso di anticamera del contratto di lavoro a tempo indeterminato.
Il precariato visto come arma del padronato. Al lavoratore si chiede fino all’esasperazione di “adeguarsi”. Adeguarsi alla flessibilità, adeguarsi alla costante ricerca di un nuovo lavoro, adeguarsi a svolgere mansioni umilianti o che non rispondono alle proprie aspirazioni, adeguarsi a ricevere otto stipendi anziché dodici. Usano proprio questa parola: “adeguarsi”. Tanto – che volete di più! – ci sono gli “ammortizzatori sociali”. Una mentalità parimenti ammortizzata non è però richiesta ai datori di lavoro. Loro spesso trattano il dipendente come se gli avessero fatto un favore a fargli fare i “tre mesi”, spesso lo illudono con inesistenti prospettive di assunzione, spesso pretendono una dedizione che non si chiederebbe neanche a un figlio. Loro possono tranquillamente comportarsi come una persona che, chiedendoti di sposarla, ti dicesse: “guarda, non sono né bella né ricca; non solo: tra tre mesi ti lascerò; tu però non dovrai avere occhi che per me, e dovrai essermi sempre fedele”.
Il precariato visto come arma contro l’uomo. Da fascinosa visione neorealista, la povertà sta diventando sempre più marcatamente un morso più che mai reale nello stomaco del popolo. Essendo ormai agli sgoccioli, per motivi anagrafici, la salvezza ereditiera, quella che ha permesso alle ultime generazioni di contare su un sostentamento economico fondato sui beni mobili e immobili dei nonni e dei genitori, la povertà materiale diventa sempre più una realtà inconfutabile. Una realtà che solo per un periodo di tempo limitato – e con scarsa lungimiranza – i nostri amministratori cercano di tamponare con bonus e agevolazioni che – essendo finanziati dalle ritenute fiscali e previdenziali sui redditi da lavoro – entreranno presto nel circolo vizioso della insolvibilità. Le ricadute sociali sono spaventose: calo della natalità, abbandono degli studi (ai fini di un mero sostentamento una laurea è spesso controproducente[3]), devianza sociale che naturalmente sfocia nella criminalità.
Il precariato come arma contro la nazione. Si manifesta qui in tutto il suo orrore il pernicioso asse precariato-privatizzazioni. Un tempo i portalettere indossavano una divisa blu di un’amministrazione dello Stato, consegnavano la corrispondenza per quarant’anni sempre nello stesso quartiere ed erano colà identificati con la presenza di un’entità statuale molto più marcatamente di quanto oggi possano evocare cento vigili di quartiere. Erano presìdi dello Stato. Ora i postini trimestrali vanno in giro con un’orrenda casacca gialla catarifrangente che è lungi dall’aver sostituito la divisa solo per tutelarli dai pericoli del traffico. E’ una dismissione di simboli, di simboli che rappresentavano la sfera più bassa – ma non per questo meno nobile – del nostro senso dello Stato. Una manovra che ha nelle privatizzazioni il suo cavallo di Troia e nel precariato la sua drammatica attuazione. Suonerà come una bestemmia, ma presidio dello Stato era anche il centralinista della compagnia telefonica pubblica, dipendente dello Stato, che ci forniva le informazioni; ora si chiama uno dei cento numeri delle cento compagnie private dove lavorano ogni mese diecimila nuovi precari. Presidio dello Stato era la cabina del telefono pubblica, con gli elenchi che non andavano sciupati perché erano di tutti. Non occorre andare indietro fino alla Sparta dorica: basta uno sguardo sull’ “Italietta” di qualche decennio fa.
Oggi gli ‘esperti’ si arrovellano per capire il perché manchi la “fidelizzazione” alle aziende da parte del lavoratore. Si chiedono come mai un lavoratore che tra un mese tornerà a essere disoccupato, che lavora in un azienda di speculatori che non hanno neanche la benché minima parvenza di voler rendere un servizio alla società, non provi attaccamento al proprio lavoro, non senta spirito di corpo, non sappia neanche cosa voglia dire contribuire al benessere materiale e spirituale della nazione. La risposta è sotto i loro occhi, semplice e lineare come i “conti della serva” di cui si parlava all’inizio. Ma gli ‘esperti’ gli occhi li aprono troppo, e vedono sfocato. Non vedono che l’unica soluzione risiede nella socializzazione del lavoro, nella nazionalizzazione, nell’economia socialista-unica economia possibile, nel conferire l’amministrazione dei servizi collettivi e il nostro destino di popolo nelle mani dell’unica entità che può curarli con equità e giustizia: lo Stato.
Perché, giova sempre ricordarlo, lo Stato siamo noi.
[1] Anche questa definizione è semanticamente fuorviante. Si parla spesso di “paesi poveri”, nei termini di solidarietà o di analisi economica, senza specificare che quei Paesi non sono nati poveri per loro natura o a causa di un contesto ambientale. Sarebbe più corretto, infatti, di parlare di nazioni sfruttate e rese quindi povere dalla predazione delle loro ricchezze da parte delle società capitaliste.
[2] Cfr. Raffaele Ragni, Federalismo e rivoluzione, Soc. coop. Editrice Rinascita, Frattamaggiore (NA) 2009, pp.97-104.
[3] Con riferimento a quanto sostenuto precedentemente relativamente alle armi che il precariato offre ai datori di lavoro, il titolo di studio è spesso causa di esclusione dal mercato dell’occupazione. Il laureato che si offre a svolgere mansioni operaie, ad esempio, non sarà assunto – neppure con un contratto a termine – perché naturalmente portato a licenziarsi nel caso dovesse trovare un’occupazione più consona alle proprie aspettative e agli studi sostenuti.
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