martedì 1 dicembre 2009
George Orwell diceva che «nel tempo dell’inganno universale, dire la verità è un atto rivoluzionario». E aveva ragione. Da vendere. Pensiamo alla crisi finanziaria di Dubai World, la holding finanziaria dell'emirato del Dubai che ancora ieri ha fatto sentire i suoi strascichi sui mercati e fatto tremare le vene ai polsi a molti.
Anche il sottoscritto, giovedì scorso, si era spaventato: i tempi sono quello che sono e cosa ci sia dentro le scatole cinesi dei fondi arabi è davvero impossibile saperlo. Temevo, lo ammetto, un effetto domino devastante e quasi immediato.
Ora ho cambiato idea. Soprattutto alla luce dell'annuncio fatto ieri da Abddulrahman al-Saleh, direttore generale del ministero delle Finanze di Dubai, in base al quale il governo di Dubai non intende garantire i debiti di Dubai World e i suoi creditori subiranno «a breve termine» le conseguenze della ristrutturazione del debito della conglomerata.
«I creditori - ha spiegato Abdulrahman al-Saleh alla tv di Dubai - dovranno assumersi la loro parte di responsabilità per la loro decisione di prestare soldi alle compagnie. Essi pensano - ha aggiunto - che Dubai World faccia parte del governo, il che non è corretto. Il governo è il proprietario della compagnia ma fin dalla sua fondazione è stato stabilito che la compagnia non è garantita dal governo». Dubai World, precisa il direttore generale «fa accordi con tutti su questa base e i suoi prestiti si basano sui suoi progetti e non sulle garanzie del governo».
Secondo Saleh la reazione dei mercati, che ha mandato a picco le Borse di Dubai e di Abu Dhabi, è esagerata. «La ristrutturazione del debito - dice ancora - è una decisione che è nell'interesse di tutte le parti nel lungo termine ma potrebbe infastidire i creditori nel breve termine». La ristrutturazione dovrebbe riguardare 5,7 miliardi di debiti, con scadenza prima del prossimo maggio.
La banca centrale degli Emirati Arabi Uniti ha assicurato che fornirà liquidità extra al sistema bancario, ma Saleh dubita che ce ne sarà bisogno: «Penso - spiega - che le banche a questo stadio non abbiamo bisogno di liquidità extra da parte della banca centrale». Parole che ovviamente hanno picchiato duro sui mercati dell'area, concretizzando i timore con chiusure in profondo rosso per le borse di Dubai e Abu Dhabi. Il listino di Dubai ha perso il 7,3% con tutti i gruppi bancari ed edilizi in picchiata. Giù anche la borsa di Abu Dhabi, che ha fatto registrare un -8,3%.
Peccato che prima del terremoto finanziario, la borsa di Dubai aveva chiuso in rialzo del 28% dall'inizio dell'anno: come mai, invece, la chiusura è stata in direzione opposta per le borse dell’Asia, dove Tokyo ha concluso gli scambi con un balzo del 2,91% e Hong Kong del 3,25% e anche l'Europa e Wall Street non hanno brillato ma certamente nemmeno pianto lacrime di disperazione?
Semplice, la crisi di Dubai è un'opportunità: ci si lancia in shopping a prezzo di saldo in casa di chi, fino a poco tempo fa, lo shopping era abituato a farlo forte dei dollari garantiti dal petrolio. Certo, le banche inglesi sono quelle che rischiano di pagare il prezzo più caro per le ripercussioni della ristrutturazione del debito del Dubai e a confermarlo ci ha pensato ieri Morgan Stanley in una nota basata sui dati della Banca dei regolamenti internazionali ma attenzione a leggere bene le notizie.
È vero che gli istituti del Regno Unito, tra cui Hsbc e Standard Chartered, hanno investito 50 miliardi di dollari nella regione ed è vero che, come sostengono gli analisti di Morgan Stanley, «le banche inglesi sono quelle potenzialmente più colpite dalle ampie ripercussioni della ristrutturazione del debito del Dubai», ma è altrettanto vero che «l'impatto diretto di Dubai World sulle banche europee è modesto e il rischio è stato fin troppo scontato».
Come dire, le banche non hanno certo brillato per intelligenza in questo periodo ma questo non significa che debbano sbagliare sempre e comunque: basta agire con la logica dei vulture fund, ovvero fondi comuni, soprattutto americani, specializzati nell'investire su società fallite o "decotte". Il rischio, evidentemente, è altissimo ma in caso il fondo riesca a risollevare la società e a pagare i suoi debiti, può realizzare grandi profitti.
Il business principale dei "fondi avvoltoio", negli ultimi anni, è infatti stato quello di comprare, a prezzi stracciati, bond (obbligazioni) dei Paesi in via di sviluppo, vicini al default, che nessun altro oserebbe toccare. Salvo poi passare all'incasso con tutti i mezzi possibili, anche portando i debitori in tribunale: d’altronde, nessuno ha detto loro di contrarre debito in quel modo scriteriato, utilizzando i fondi dei paesi ricchi per mantenere pletore di dittatorelli con cortigiani al seguito e rubinetti d’oro invece di costruire scuole e ospedale.
Si tratta, nella maggior parte dei casi, dei paesi indebitati con l’acqua alla gola dell'Africa, del Congo Brazzaville, Zambia o dell’America Latina, messi nel mirino dalle "locuste" della finanza americana: molti fondi pensioni americani per garantire interessi a doppia cifra ai loro sottoscrittori, li hanno in portafoglio e quindi li finanziano. Smettiamola con il moralismo da quattro lire: i fondi pensione Usa investono circa 80 miliardi di euro l'anno in hedge fund, alcuni arrivano fino al 30-35% delle loro quote in strumenti di investimento alternativi e fortemente speculativi.
Nei prospetti informativi si liquida la parte "hedge" con le voci "equity securities", "debt securities", "other" tutto dipende dalla trasparenza del gestore: ma nessun cliente chiede la trasparenze come prima condizione d’investimento, la voce principale è la potenzialità di guadagno. Come pensate che ragionassero fino a ieri a Dubai, compresi i parrucconi governativi che ora vorrebbero scaricare sugli azionisti gli errori e i guai?
Ora, quindi, paghino il prezzo al libero mercato, tanto vituperato dai pauperisti ma che ora potrebbe chiamare alla cassa chi fino a ieri alla cassa ci è stato e senza troppi scrupoli: democrazia allo stato puro, nessuno moral hazard, la responsabilità personale è totale. Guarda caso, ieri Wall Street ha aperto piatta ma non è crollata e anzi i titoli bancari hanno guadagnato: ascoltate George Orwell, la realtà non è mai un titolo di giornale.
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