Scritto da Mario Lettieri e Paolo Raimondi | |
Per salvare le banche con i soldi pubblici, gli stati, a cominciare dagli Stati Uniti e dagli altri paesi più profondamente coinvolti nella crisi finanziaria globale, hanno drammaticamente aumentato il loro debito. Un recente studio della Bank of England ha quantificato il costo di questi salvataggi e delle varie forme di intervento pubblico in circa 14.000 miliardi di dollari. Il debito pubblico americano ha raggiunto il 90% del Pil. Per gli Usa è diventato insostenibile in quanto si somma ad un gigantesco debito privato. Per fortuna in molti altri paesi industriali questo è stato finora relativamente contenuto. L’Italia pur avendo un debito pubblico del 120% del Pil, può contare ancora su un notevole risparmio delle famiglie. Nei prossimi mesi il mondo sarà inondato da obbligazioni e da altri titoli emessi proprio per coprire i disavanzi e l’aumento dei debiti pubblici. Il sistema economico e finanziario è impegnato a conquistare i compratori che la crisi ha reso meno disponibili e più poveri. Già si parla di rischio di “bancarotta argentina” per alcuni stati come la Grecia o l’Ungheria. Invece negli USA, in Inghilterra e altrove si sta facendo strada la pericolosa soluzione di una “inflazione controllata”. Questa è vista come un “abbassamento del debito” per lo Stato a spese della maggioranza della popolazione e dei detentori stranieri dei titoli di debito. Si ricordi che il debito americano è per il 44% in mani straniere. L’inflazione vuol dire “svalutazione” del debito pari al tasso di aumento generale dei prezzi. Recentemente negli Usa è partita una vera e propria campagna mediatica a sostegno della “controlled inflation”. Due noti economisti come Kenneth Rogoff e Paul Krugman, ne sono diventati i paladini. E’ stato già preparato uno studio intitolato “Using inflation to erode the U.S. public debt” (Usare l’inflazione per ridurre il debito pubblico) che sta provocando un intenso dibattito nei circoli finanziari e sulla stampa economica. Nello studio in questione si sottolinea che “con una moderata inflazione del 6 %, in USA si potrebbe ridurre il tasso debito/Pil del 20% in 4 anni”. Si fa un paragone con il periodo che va dal 1946 al 1955 quando l’inflazione ridusse di circa il 40% il rapporto debito/Pil che era del 108,6%. Ma allora vi era un’economia reale in robusta crescita, oggi avremmo invece una “stagflazione” sconfinante nella recessione economica. L’“inflazione controllata” è vista in più come la exit strategy per altre situazioni presentate come insostenibili quali il crescente costo delle pensioni e del welfare. L’impoverimento delle famiglie e dei settori più deboli della società, combinato con le perdite sul risparmio provocate dall’inflazione, sarebbe la miccia di una vasta e forse incontrollabile esplosione sociale. Se la crisi fino ad oggi ha prodotto meno reddito e più disoccupazione, l’inflazione renderebbe pandemica l’insicurezza sociale che negli USA neanche il carismatico Obama riuscirebbe a bloccare. L’inflazione è una “bestia” molto pericolosa e difficilmente manovrabile. Quando si lascia libera non è detto che poi si possa fermare. E’ infatti da tempo ripartita anche la speculazione sulle “commondities”, che gonfia i prezzi delle materie prime e di altri beni di largo consumo, come alcuni hanno denunciato. Tra questi anche il ministro Giulio Tremonti alla riunione del G7 di Lecce dello scorso giugno. L’Europa e l’Italia hanno una triste esperienza con l’inflazione. Perciò non si può giocare con il fuoco. L’unica soluzione vera alla crisi sta nella ripresa dell’economia reale. Certe scappatoie potrebbero essere devastanti. |
I rischi della ”inflazione controllata”
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