Dov'è finito tutto quel gas?

martedì 22 dicembre 2009

Quantità enormi di metano che non vengono registrate. Evadendo 20 miliardi di tasse. L'inchiesta choc sui colossi dell'energia.
Un'evasione colossale delle tasse doganali, che basterebbe da sola a garantire il quadruplo delle entrate che il governo spera di ottenere con lo scudo fiscale? O un gigantesco abbaglio di magistrati e finanzieri, che in tre anni di indagini non sono riusciti a capire i complicati tecnicismi del business dell'energia? Oppure una preoccupante via di mezzo, con montagne di pasticci solo formali, che però servono a nascondere casi-limite di contrabbando tra Stati?
Saranno i giudici di Milano a dover rispondere agli interrogativi sollevati da un'inchiesta da 20 miliardi di euro sul mercato del gas in Italia. Un'indagine-choc che, comunque finiscano i processi per i reati fiscali, sta svelando i buchi neri delle reti di trasporto dell'energia dai grandi giacimenti esteri alle case degli italiani. Un business ipertecnologico, che stando alle indagini sembra però incontrollabile: il commerciante è libero di aprire o chiudere i rubinetti delle merci, mentre lo Stato, che dovrebbe riscuotere tasse miliardarie, non è in grado di misurare cosa si vende.
L'inchiesta sul gas è partita proprio da una segnalazione dell'ufficio metrico di Milano, che ha il compito di proteggere i consumatori dai rischi di frode in tutte le misurazioni commerciali, dalle bilance dei negozi ai megacontatori industriali.
Alla fine del 2006 l'ispettore capo Claudio Capozza avvisa la Guardia di Finanza che non tornano i conti di Snam Rete Gas e neppure dell'Eni. Quel primo allarme riguarda Mazara del Vallo, dove sboccano le otto maxi-condutture del Transmed, il monumentale gasdotto che parte dai giacimenti in Algeria, passa per la Tunisia e arriva in Sicilia. Per ogni metrocubo di gas importato e venduto, lo Stato incassa un'accisa, cioè una tassa, di 17 centesimi: circa un quarto del prezzo medio finale. Quindi ciascuna conduttura è collegata a speciali misuratori (a diaframma) che dovrebbero essere protetti da sigilli inviolabili. Nell'ispezione chiesta dai magistrati, che nessuno aveva mai eseguito in precedenza, i finanzieri del nucleo di polizia tributaria scoprono invece che i contatori sono fuorilegge: un'uscita è senza sigilli e nelle altre sette la chiusura metallica "balla". Per cui i diaframmi misurano meno gas dell'entrata effettiva. Quanto? I sigilli risultano difettosi "quantomeno dal 1997", ma l'inchiesta riguarda solo il quinquennio 2003-2007, perché i reati precedenti sono ormai prescritti. In quei cinque anni, secondo la Guardia di Finanza, sono entrati in Italia, solo dalla Sicilia, più di 5 miliardi di metri cubi 'clandestini', che corrispondono a un'accisa teorica di 887 milioni di euro.
Dov'è finito tutto quel gas?Esistono altri canali d'ingresso non dichiarati al fisco? E soprattutto: chi ha rivenduto il gas clandestino, ha pagato le tasse? Scoperti i misuratori a gruviera di Mazara, i pm milanesi Sandro Raimondi e Letizia Mannella ordinano una perquisizione nella sede centrale di Snam Rete Gas, la società che controlla la rete nazionale di trasporto, con circa 31 mila chilometri di condutture. I tecnici del palazzone di San Donato Milanese spiegano che a sorvegliare tutto è un pachidermico sistema di computer da 50 milioni di euro. Stranamente, però, i settori-chiave funzionano a compartimenti stagni: chi fattura gli incassi (il prezzo per il trasporto) non sa quanto gas venga importato e "movimentato" nella rete. A quel punto i finanzieri mettono a confronto i due dati finali che in teoria dovrebbero coincidere: da una parte, l'effettiva quantità di gas "movimentato", rimasta registrata nei computer aziendali; dall'altra, la cosiddetta "dichiarazione annuale di consumo", cioè il documento-base presentato al fisco, proprio per certificare il volume totale trasportato nei 12 mesi precedenti. L'operazione viene ripetuta all'Eni, che oltre ad essere la più importante delle circa 700 imprese clienti del trasportatore Snam, gestisce anche proprie reti di movimentazione, in particolare i due maxi-gasdotti che collegano Libia e Algeria all'Italia. Risultato dei controlli: nei cinque anni considerati dall'inchiesta, Eni e Snam hanno dimenticato di segnalare al Fisco, secondo le Fiamme Gialle, nientemeno che 148 miliardi di metri cubi di gas. Un'enormità che corrisponde, sempre tra il 2003 e il 2007, a un'evasione teorica dell'accisa di 19 miliardi e 932 milioni di euro.
Queste cifre complessive sono ora imputate, nell'avviso di conclusione delle indagini, a 12 manager di Eni e Snam, tra cui spiccano Domenico Dispenza (direttore Gas&power di Eni) , Stefano Cao (suo predecessore) e Carlo Malacarne (amministratore SnamRG), indagati con le rispettive società. La Procura ha chiesto invece l'archiviazione per il numero uno dell'Eni, Paolo Scaroni: ha infatti scoperto che, appena entrato in carica, Scaroni aveva avviato indagini aziendali per capire cosa si nascondesse dietro alcune centinaia di milioni di metri cubi di "gas non contabilizzato". Possibile che fossero tutte perdite dalle tubature? Il rapporto finale arrivato sul suo tavolo ipotizzava solo errori involontari di misurazione. Senonché la Guardia di Finanza ha sequestrato le bozze preparatorie, che erano molto più pesanti. Per cui proprio il confronto tra quelle bozze e il dossier light mostrato a Scaroni ora è diventato un elemento d'accusa contro gli altri indagati.
I principali avvocati di Eni e Snam, interpellati da 'L'espresso', annunciano che si difenderanno "nel merito", senza cavilli procedurali, con perizie dirette a "contestare i criteri di misurazione adottati dall'accusa". Il reato-base è l'omessa dichiarazione doganale. Ma accusa e difesa concordano che al centro del futuro processo ci sarà la domanda successiva: i rivenditori del gas 'clandestino' hanno pagato le tasse? In altre parole: alla violazione formale (aver "sottratto al controllo statale" il gas non denunciato al fisco) corrisponde anche un'evasione sostanziale? In gran parte dei casi, i legali di Eni e Snam si dicono certi di poter dimostrare che, anche se venissero confermati i buchi nelle importazioni, le famose accise sono state comunque pagate a valle, dalle imprese che vendono il gas agli italiani. E che registrano nelle bollette anche quelle tasse, che in definitiva vengono pagate dai clienti. Il giallo fiscale delle importazioni-fantasma, insomma, si ridurrebbe a una piramide di sviste e infortuni burocratici. Nell'atto d'accusa, la Procura ribatte che, se l'azienda non denuncia quanto gas importa e da dove, gli uffici doganali non possono neppure tentare un controllo fiscale.
Ma c'è di più. In alcuni affari-limite, magistrati e finanzieri sono convinti di aver scoperto un possibile movente delle mancate dichiarazioni: evitare controlli su presunti casi di contrabbando tra Stati.
Questa accusa, più grave, e già formalizzata dalla Procura, nasce dalle ispezioni successive alla scoperta dei misuratori truccati a Mazara. Tra il 2007 e il 2008 i finanzieri accertano che più di un un miliardo di metri cubi di gas 'clandestino' non è stato venduto in Italia, ma è finito all'estero, alla slovena Geoplin (il più grosso operatore di gas di quel paese), con due picchi nel 2005 e nel 2006, cioè nel biennio che precede il primo blitz giudiziario. Un quantitativo che, ai prezzi all'ingrosso di oggi, varrebbe sui 250 milioni di dollari. Al fisco italiano non è stato segnalato né l'ingresso in Sicilia, né il trasporto lungo la Penisola, né l'uscita da Gorizia di quei volumi di gas. Di qui l'accusa di evasione sostanziale (tasse non pagate) per almeno 182 milioni di euro.
Negli stessi mesi, i finanzieri scoprono anche un presunto contrabbando in direzione contraria. I militari, guidati dall'ispettore capo Stefano Vercoli, vanno a controllare di persona due piattaforme al largo di Ravenna e di Falconara, collegate a gasdotti dell'Eni e della Snam. Stando alle dichiarazioni fiscali, quei tubi dovrebbero trasportare gas estratto dai giacimenti nazionali. Giacimenti che, in forza di una legge che vieta l'estrazione di gas in Adriatico, sono attualmente 'in sonno'. Invece nelle piattaforme chiamate Garibaldi K e Barbara T2 entrano altri due tubi, che partono dalla Croazia, dove funzionano due impianti gemelli chiamati Ivana e Marika. Insomma, in mezzo all'Adriatico ci sono, secondo i finanzieri, (almeno) due gasdotti-fantasma. E c'è del gas che arriva fino alla costa italiana. Ora Eni e Snam sono accusate di aver falsamente presentato come italiani altri 11 miliardi di metri cubi di gas, che corrispondono a un'accisa teorica di 1 miliardo e 142 milioni di euro.
Ma come arriva la Procura a calcolare come sconosciuti al fisco ben 148 miliardi di metri cubi di gas (in cinque anni), una cifra enorme, posto che i consumi nazionali si aggirano tra gli 80 e i 90 miliardi di metri cubi? Da dove arrivano? La risposta è nelle carte sequestrate all'Eni: secondo la Procura, il gruppo si è scordato di inserire nelle dichiarazioni doganali perfino i giganteschi volumi importati dai suoi due maggiori gasdotti, che da soli coprono circa un quarto del mercato italiano. Solo per il Transmed, si tratterebbe di 111 miliardi di metri cubi di gas algerino. Che si aggiungono ai 21 miliardi del Greenstream, che arriva a Gela dalla Libia (e funziona dal 2004). Una doppia maxi-svista fiscale? Gli avvocati non si sbilanciano, ma è possibile che l'Eni, nel processo che dovrebbe aprirsi in primavera, difenda la scelta di non sottoporli alla dogana italiana. Di fatto il gruppo petrolifero ha intestato il primo gasdotto alla Greenstream Bv di Amsterdam, e il secondo alla Transmediterranean Pipeline Company Ltd, domiciliata nel paradiso fiscale di Jersey e amministrata in Svizzera. Chiusa l'inchiesta principale, la Procura continua a indagare. E la Guardia di Finanza sta cercando risposte anche a questo quesito fiscale: perché l'Eni, per portare in Italia il proprio gas, decide di pagare i diritti di trasporto a una sua società olandese e a un'altra controllata off-shore?
di Paolo Biondani e Paola Pilati
Fonte: L'espresso http://nuovediscussioni.blogspot.com/2009/12/dove-finito-tutto-quel-gas.html

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