FINANZA/ Ecco perché la Cina conviene tanto all’Italia

Mauro Bottarelli mercoledì 23 dicembre 2009 Giornata di dati macro quella di ieri, caratterizzata da Borse che hanno cercato (e ci sono riuscite) di mantenersi in territorio positivo per il secondo giorno consecutivo nonostante lo scarso ottimismo che infonde l'indicatore principale giunto dagli Usa. È stata infatti rivista al ribasso la crescita Usa del terzo trimestre: +2,2% è il dato definitivo a fronte di una stima del 2,8% per lo stesso periodo; un anno fa, lo stesso trimestre aveva segnato un +0,4%. A fronte di questa rivisitazione, è giunto poi il dato sulla vendita di case esistenti salito al livello più alto da 3 anni a questa parte: non fatevi ingannare, il picco è frutto dell’ulteriore crollo del prezzi e dal credito d’imposta offerto dal governo come misura di stimolo. Il dato depurato dal tendenziale stagionalizzato sarebbe tutt’altro che da record ma tant’è. Venendo all’Italia, il dato per noi più interessante rimane quello offerto dalle presentazione dei risultati del commercio estero italiano verso paesi extra Ue che ci invia un segnale di trend molto chiaro: i mercati asiatici trainano l'export italiano. Dopo la flessione di ottobre (-9,1% su dati destagionalizzati), riprendono infatti quota a novembre le vendite di prodotti italiani sui mercati extra-europei (+2,6%): nel periodo gennaio-novembre 2009, si riduce di 17,8 miliardi di euro il saldo negativo verso i Paesi extra-europei rispetto allo stesso periodo del 2008 e si attesta su 3,6 miliardi di euro. Si tratta di un deficit di gran lunga inferiore a quello dei nostri principali partner europei (fatta eccezione per la Germania): fino al mese scorso, infatti, Francia e Regno Unito presentavano un disavanzo rispettivamente di 14,8 e 44 miliardi di euro. «Stiamo verificando che i mercati più lontani, meno colpiti dalla crisi economica e in cui il Pil continua a crescere a tassi di incremento elevati, danno nuova benzina alla crescita delle nostre esportazioni al di fuori dell'Unione Europea - affermava ieri Gaetano Fausto Esposito, Segretario Generale di Assocamerestero, commentando i dati Istat sul commercio estero -. I Paesi extra-Ue detengono infatti una quota del 41% dell'export complessivo e verso di essi si dirige un quarto delle nostre aziende fino a 49 addetti». In particolare, la nostra presenza in India (+22,8%), Turchia (+18%) e Cina (+8,6%) registra, a novembre, gli incrementi più consistenti, tanto che in un anno la quota complessiva di questi Paesi sull'export italiano in ambito extra-UE passa dal 10% al 13%. Nel mese di novembre, il settore che registra la migliore performance è quello chimico-farmaceutico (+21,6% rispetto allo stesso mese dello scorso anno): il dato congiunturale mostra invece, a fronte di un calo generalizzato, la ripresa dei mobili (+4%) e della meccanica (+1,4%). Insomma, la nostra vocazione non cambia. Anzi. E restano i mercati asiatici la piazza migliore verso cui guardare: colgo quindi l'occasione per rispondere, in questa sede, a un lettore che ieri mi chiedeva conto rispetto una potenziale incoerenza di giudizio proprio sul Dragone Rosso e la sua capacità di guidare la ripresa mondiale. Ritengo, infatti, ancora irrealistico il dato di crescita fornito dalle autorità cinesi e penso che, oggettivamente, si stia ingolfando il mercato con una quantità di denaro potenzialmente a rischio bolla, ma questo vale per la prospettiva - già citata - di guidare la ripresa a livello globale: nel mio articolo di ieri si parlava di una potenzialità di spesa immediata di assets europei a rischio per l'impennarsi dei debiti pubblici da parte dei grandi player cinesi, giudizio che continuo a ritenere coerente perché nel breve-medio termine Pechino può fare la differenza. Far ripartire il motore globale è altra cosa, visto anche il rapporto simbiotico che lega la Cina e gli Usa sotto forma di detenzione dei titoli di debito statunitensi da parte di Pechino: la situazione Usa peggiora continuamente a livello di deficit commerciale e federale. Appare in questo caso sì irrealistico che la Cina - legata mani e piedi ai destini dell'America se non vuole vedere messe a repentaglio le proprie riserve di investimento indicizzate in bond Usa - possa trasformarsi in motore. L'indicatore principale a sostegno di questa tesi è il rally dell’oro, schizzato in alto perché il Fondo Monetario Internazionale, forse nella illusione di abbassarne il prezzo mondiale, ne ha messo in vendita 430,3 tonnellate. Immediatamente proprio Cina, India, Russia e alcune Banche Centrali europee si sono precipitate a comprarlo. Soprattutto l’India, che s’è accaparrata 200 tonnellate del metallo, ben felice di scambiarlo contro i suoi dollari Usa in eccesso: ha pagato 6,7 miliardi di dollari per quell’oro. Il motivo ufficiale fornito dalle autorità indiane è il seguente: «Le economie di Usa e Ue sono collassate». Di più. È di ieri la notizia in base alla quale la China National Petroleum Corp (CNPC) si è assicurata la proprietà e i diritti esclusivi del progetto di oleodotto da 771 chilometri per il trasporto del greggio tra Cina e Myanmar. La sigla dell'accordo è avvenuta nel fine settimana a Naypyitaw, alla presenza del vicepresidente cinese Xi Jinping e di Maung Aye, il numero due della giunta militare della ex Birmania, secondo quanto riferisce sul web la compagnia statale cinese. La “pipeline” partirà da Madeira, sulla costa occidentale del Myanmar e attraverso gli stati Rakhine, Magway, Mandalay e Shan arriverà nella località cinese di Ruili nella provincia Yunnan. Nei primi stadi avrà una capacità di 12 milioni di tonnellate di greggio all'anno: la Cina è il quarto investitore straniero in Myanmar con un totale di 1,3 miliardi di dollari annui e gli scambi commerciali tra i due paesi vicini hanno raggiunto i 2,6 miliardi di dollari nel 2008. Insomma, è ad Est in questo momento la maggiore prospettiva di crescita per economie come la nostra con vocazione all’eccellenza e all’export, motivo per cui nonostante il debito pubblico che ha toccato vertici record l’Italia resta il paese che meno pagherà il prezzo che le agenzie di rating intendono imporre ai paesi Ue con l’anno nuovo. Portarci a una logica di peg con l’euro significherebbe tramutarci nei dominatori del mercato dell’export, logica che non farebbe comodo a nessuno. Qualche via d’uscita dalla crisi - almeno in questo momento di emergenza del credito e della disoccupazione - esiste quindi: occorrerebbe continuare a investire in qualità e lavoro e non in aiuti statali e vecchie ricette desuete. Speriamo che il 2010, anno che si prospetta durissimo, veda prevalere questa strada.

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