I sogni di rivincita della politica sui banchieri s’infrangono a Davos

Stampa E-mail
Scritto da Oscar Giannino
lunedì 08 febbraio 2010
Image
In sintesi sono state tre le lezioni della quarantesima edizione del World Economic Forum, il grande circo Barnum della globalizzazione messo in piedi da quel geniaccio della comunicazione strategica che è Klaus Schwab. La prima: siamo ancora lontani dal sapere come darci regole nuove condivise per banche e intermediari finanziari. La seconda: possiamo dirlo ufficialmente, a 17 mesi dall’inizio della grande paura con Lehman Brothers, nel mondo post crisi le istituzioni nate a Bretton Woods, Fondo Monetario e Banca Mondiale, hanno perso ogni primazia.

Terzo: è inutile illudersi, i timori per la solidità della ripresa in campo europeo sono ancora molto forti. E, quel che è peggio, motivati. La prima lezione è stata quella che ha tenuto più banco, quella più evidente. I capi delle grandi banche americane sono in maggioranza nettamente contrari alla svolta “alla Volcker” annunciata da Obama per recuperare populisticamente consenso dopo la sconfitta in Massachussetts. In ogni caso, è stato assolutamente irresponsabile da parte di una personalità come il presidente degli Stati Uniti annunciare pubblicamente di punto in bianco la volontà netta di separare le attività bancarie commerciali da quelle d’investimento. È un tema delicatissimo, mai posto nelle sedi tecniche e riservate – il Financial Stabilty Forum – che per mandato del G20 approfondiscono l’agenda di una riforma condivisa tra le tre macroaree finanziarie del mondo, America, Europa e Asia. Dopo la sparata populista di Obama Inoltre, non corrisponde ad alcuna proposta tecnica sin qui avanzata dalla stessa Amministrazione in Congresso, un Congresso dove il denaro delle grandi banche conta eccome, per aver contribuito alla vittoria dei democratici. La sparata populista di Obama avrà sollevato l’entusiasmo di tutti coloro che sognano la rivincita della politica contro banchieri avidi e regolatori tecnici troppo vicini alle ragioni dei banchieri, ma di fatto a Davos non si è minimamente capito come possa porre le basi di una svolta politica vera, approfondita e condivisa con europei e asiatici. È a Mario Draghi, che nella seduta a porte chiuse dei banchieri Larry Summers si è rivolto dicendo «a te il compito di salvare il mondo». Non a Obama. Tanto meno alla sua scolorita copia europea, Sarkozy. Quanto alla triade del Washington Consensus che per decenni ha retto le sorti della globalizzazione e degli interventi straordinari di stabilizzazione in occasione delle crisi – Usa, Fmi e World Bank – essa appare ferita a morte. A Davos politici americani di rilievo, cioè dell’Amministrazione, tranne Summers non ce n’erano neanche. I rappresentanti del Fmi e della Wb sedevano in quarta o quinta fila, asiatici e latinoamericani hanno perfettamente capito che gli interventi di stabilizzazione finanziaria in caso di crisi nelle loro aree verranno da altre sedi, come l’Asean+3 che accomuna Cina, Giappone e Corea del Sud in un’idea primigenia di unione monetaria asiatica, e dalla convergenza tra Mercosur e Comunità Andina nel Sudamerica in vista della nascita di un comune Banco del Sur. Sarà pure un’idea all’inizio partorita da quel pazzo bolivarista di Chávez, ma nell’intero continente – tranne che in Cile – piace più del vecchio Nafta nordamericano. I debiti dell’euroarea A parole, dell’eclisse dell’intera cornice nata a Bretton Woods nel 1944 tutti si dicono convinti da più di un anno. Di fatto, non un solo passo avanti è stato compiuto per una nuova architettura di governo efficace, come non è il G20 inutilmente ampio e che è in realtà un G2 tra Usa e Cina profondamente diviso. Ricordo a tutti che nell’attuale board del Fmi la Cina “pesa” per soli tre quarti rispetto ai voti della Francia, il Belgio ha il 50 per cento di voti in più del Brasile, 8 dei 24 membri sono europei, e altre amenità di tal fatta, che nel mondo d’oggi candidano il Fmi a non contare più niente in quanto costruito su criteri preistorici. La terza lezione riguarda noi europei. Tutti, nei corridoi, parlavano in realtà della crisi dei debiti sovrani nell’euroarea, Grecia prima, Portogallo e Spagna poi, e via continuando. L’Italia può essere ragionevolmente grata alla prudenza di Tremonti, che ci tiene lontani dall’elenco dei paesi potenzialmente considerati a rischio di uscita dall’euro. Ma è l’euro stesso che appare un nano: aveva ragione Milton Friedman, ammonendo inascoltato più di 20 anni fa gli europei che una moneta comune sarebbe stata a rischio nella prima grande crisi, senza riunificazione dei mercati sottostanti e delle politiche sovrastanti. L’Europa vedrà il suo debito esplodere, ed è irrimediabilmente avviata all’invecchiamento. O è capace di grandi riforme per efficienza e produttività, oppure perderà altri punti nelle graduatorie del mondo nuovo, centrato sull’Oceano Pacifico.

www.Tempi.it

Nessun commento: