aLabia saudita - Le pillole rosse del 22/2/2010
February 22nd, 2010 - “China taps more Saudi crude than US”, Financial Times. La Cina dei record continua a stupire. Chi scrive lo ripete da un po’: la grande crisi economica che ha colpito il mondo non sembra uguale per tutti. Da una parte sta l’Occidente - Stati Uniti, in testa - che continua ad arrancare. Dall’altra, l’Estremo oriente guidato da Pechino che - invece - continua a volare e mietere successi. L’ennesima conferma è arrivata ieri dalle pagine del Financial Times. Secondo il quotidiano britannico, anche uno dei fronti più caldi del Pianeta - quello del Medio Oriente e delle sue immense riserve di petrolio - starebbe cominciando a “parlare cinese”. E infatti: l’anno scorso l’Arabia Saudita - tra i primi produttori di greggio al mondo e storico partner degli Stati Uniti - avrebbe esportato negli States “solo” 998.000 barili di petrolio al giorno; il livello più basso degli ultimi 20 anni. Motivo? La crisi economica, ovviamente, che ha ridotto anche il consumo di energia. Crisi economica che - invece - non ha minimamente intaccato la fame di petrolio dei cinesi. Pechino - che nel 2009 ha visto il suo Pil crescere di un robustissimo 8,7% - ha aumentato le sue importazioni di greggio proprio dall’Arabia Saudita, sfondando la media di un milione di barili al giorno e superando - per la prima volta - gli Stati Uniti. Un sorpasso, per certi versi, storico. Ma che non arriva come un fulmine a ciel sereno. Come scrisse tempo fa il Financial Times: nell’ultimo decennio, i commerci tra il Medio Oriente e l’Asia fabbrica del mondo si sono moltiplicati per sei. Valevano 110 miliardi di dollari nel 2001. Sono arrivati a quota 600 miliardi di dollari nel 2008.
- “China: no one home”, Financial Times. Assieme ai successi, però, continuano ad accumularsi i dubbi. Sempre il Financial Times e sempre ieri ha messo nero su bianco la storia di Chenggong, piccolo sobborgo di Kunming, una delle città più importanti del Sud-Ovest della Cina. A Chenggong, in sostanza, c’è tutto: strade, palazzi, sedi delle amministrazioni locali, scuole e perfino sedi universitarie. Quel che scarseggia sono gli abitanti. La stragrande maggioranza delle case, infatti, sarebbe vuota. Questo non è l’unico caso di “città fantasma” documentato in Cina: la televisione araba Al Jazeera ne aveva scovata e raccontata un’altra in Mongolia, con un reportage che aveva fatto il giro del mondo. E allora? E allora, secondo alcuni economisti e analisti economici interpellati dal Financial Times, il boom cinese non sarebbe altro che un’enorme balla. Anzi, un’enorme bolla immobiliare. Tradotto in parole povere: in Cina, si sarebbero costruite valanghe di case e uffici. Che hanno avuto il pregio di far salire il Pil alle stelle. Ma che hanno il difetto di essere inutili e di esser state fatte a debito. Debito destinato prima o poi ad esplodere. Epperò, c’è anche chi pensa esattamente il contrario. Come Peng Wensheng, economista della Barclays Capital di Hong Kong, che - interpellato sempre dal Financial Times - ha detto chiaro e tondo che, a parer suo, il boom cinese è tutto genuino e assomiglia a quello del Giappone e dell’Europa degli anni Cinquanta e Sessanta. Chi avrà ragione? Agli anni a venire, l’ardua sentenza.
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