Telecom va ceduta ma non si può

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Scritto da Giulio Genoino
mercoledì 13 gennaio 2010
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A causa di una normativa, che definire oscurantista è un complimento, i soci di Telco (la finanziaria che controlla con il 25% del capitale i destini del gruppo Telecom Italia) hanno dovuto seccamente smentire la notizia vera, non a caso pubblicata qualche giorno fa dal quotidiano MF (che non è nuovo a questi scoop di sostanza), delle trattative informali in corso tra una parte di essi (e precisamente Mediobanca, Assicurazioni Generali e Intesa Sanpaolo) con il consocio spagnolo Telefonica, per cedere appunto tutto a Telefonica questo pacchetto azionario di controllo.

La smentita era un atto dovuto perché la trattativa, che c'è, eccome, è ancora però riservata (e chissà per quanto tempo ancora resterà tale) alle banche d'affari e ai consulenti, non è ancora arrivata agli «organi societari» delle società interessate, cioè ai consigli d'amministrazione, i quali peraltro (non solo in Italia) sono chiamati, di fatto, soltanto a ratificare, a «timbrare», decisioni prese sopra di essi e al di fuori di essi. Ma cosa sta preparandosi, in sostanza, per il futuro di Telecom, cioè di quello che è ancora oggi il più grande gruppo del Paese nel settore dei servizi? La premessa è che Telecom Italia è oggi un gruppo pieno di buone qualità ma finanziariamente in affanno. La montagna di debiti che ha contratto a causa dell'Opa lanciata nel '99 dalla cordata dei «capitani coraggiosi» (e come tali benedetti dall'allora premier Massimo D'Alema e dall'allora ministro dell'Industria, Pier Luigi Bersani) Roberto Colaninno ed Emilio Gnutti, le ha sottratto capacità d'investimento. La successiva gestione di Tronchetti Provera non ha migliorato le cose. Anzi, secondo alcuni, le ha peggiorate. Telecom è in attivo, certo, ma non ha più il dinamismo e le potenzialità di un tempo, né si vede come possa recuperarle. L'azionariato «istituzionale» che venne messo insieme tre anni fa, quando si rese necessario sostituire la Pirelli nel ruolo di socio-guida, vedeva appunto in Telefonica l'unico socio «tecnico» del nuovo gruppo di controllo che, per il resto, era del tutto estraneo al business telefonico e cioè Mediobanca, le Generali, Intesa Sanpaolo e, allora, anche Benetton (recentemente uscito dalla compagine). Società, queste, che, tutte, non avevano alcuna sinergia industriale nella partecipazione in Telecom. Perché, allora, non vendere direttamente tutto il controllo di Telecom a Telefonica? Questo è il punto, oggi come allora: un po' tutte le forze politiche concordano (fatto raro) nel considerare Telecom un'azienda «strategica» per il sistema Paese che quindi, in teoria, sarebbe bene non cederla a un padrone straniero. E, del resto, Telefonica, pur essendo un gruppo più grosso di Telecom Italia grazie alla ricche attività che conduce in America Latina, è, a sua volta, molto indebitata e un po' lenta di riflessi: «Grand, gross e ciula», direbbero a Milano, grande grosso e stupido. Ma allora, se i politici non vogliono la vendita e il compratore non fa «fuoco e fiamme» per comprare, com'è che si riparla di questa transazione? Perché i fenomeni logici, anche nell'alta finanza, prima o poi si verificano. E così, per quanto Telefonica sia lenta e poco determinata (d'altronde è, a sua volta, controllata da un «nocciolino azionario» pubblico del 7% e da una pluralità di soci istituzionali inesperti di telefonia) alla lunga non vorrà continuare a fare il «socio dormiente» che ha messo i soldi, conosce il business, e non conta niente. E quindi, sia pur garbatamente, Telefonica preme per passare al volante da sola e gestirsi lei Telecom. Sia pur timidamente anche ai soci finanziari italiani non dispiacerebbe passare alla cassa e uscirsene da un investimento così grosso che, per loro, non rappresenta alcun valore strategico. Solo che una decisione del genere (cedere il controllo di Telecom Italia agli spagnoli) non può essere presa dai soli soci privati italiani residui: Mediobanca e Generali (che sono poi la stessa cosa) e Intesa Sanpaolo. Perché no? Il patriottismo e i buoni sentimenti non c'entrano. Simili mega-realtà finanziarie dipendono, in realtà, per tutta la loro attività, dai «regolatori», cioè dal potere politico: ministero del Tesoro, Consob, Isvap, Banca d'Italia_ e per questo non possono «fare i pierini» e decidere di testa loro. Potranno vendere se e quando nel «sistema» tutti saranno d'accordo. In altre parole, quando sarà d'accordo il governo, che però su un affare di queste proporzioni deve, a sua volta, tenere conto anche di un consenso «trasversale» il più vasto possibile, che comprenda quindi almeno i principali partiti dell'opposizione. A spianare la strada della vendita di Telecom potrebbe intervenire un accordo, appunto politico, sulla scissione della Telecom azienda di servizi dalla Telecom azienda di rete, quella che detiene cioè la proprietà della rete telefonica costruita in quasi sessant'anni e consistente in oltre 109 milioni di chilometri in rame e di 3,9 milioni di chilometri in fibra ottica. Per l'attuale capo di Telecom, Franco Bernabè, come tre anni fa per l'allora principale azionista e presidente Marco Tronchetti Provera, separare la rete dalla gestione è una bestemmia, perché significa depotenziare il gruppo, mutilarlo, smembrarlo. Ma è indubbio che la rete è un bene «strategico» perché fa parte delle infrastrutture essenziali del territorio nazionale italiano (come le strade, gli acquedotti, i cavi elettrici) mentre la gestione dei servizi telefonici è qualcosa di esterno, di aggiunto, certo non altrettanto «consustanziale» al Paese. Ed è quindi vendibile, anche agli stranieri, se ci tengono. Le domande residue sono dunque due: 1) quanto impiegherà il potere politico a concordare se e come scindere la rete dalla gestione di Telecom, per poter dare «luce verde» ai soci italiani di Telecom affinchè vendano a Telefonica? 2) E soprattutto, accetterà mai, l'attuale premier Silvio Berlusconi, che si è fatto un vanto dell'aver promosso in ogni modo la permanenza di Alitalia in mani tricolori, che Telecom Italia diventi spagnola?

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