Quanta polvere c’è sotto il tappeto dei fratelli Lehman

04054_2Non è certamente ancora chiaro se, quando e con quali modalità l’attuale crisi sarà in qualche modo superata, ma appaiono comunque in sempre maggiore evidenza i diversi suoi strascichi, certamente non piacevoli, in particolare a livello di comportamento dei vari attori - finanziari e non - presenti sulla scena; questo a parte il caso dello scandalo Madoff, che non toccavano peraltro il comportamento delle istituzioni più importanti del sistema finanziario.

Abbiamo accennato in un altro articolo al caso della Goldmann Sachs e di altre istituzioni finanziarie e al loro apparentemente pessimo comportamento durante tutto lo svolgimento della crisi greca; daremo notizie anche in merito a quello della Bank of America. Ma oggi vogliamo parlare della banca di investimento Lehman Brothers, il cui caso è stato definito a suo tempo da alcuni come il più importante fallimento di tutta la storia economica americana e che ha innescato la fase più acuta della crisi che stiamo ancora per molti aspetti vivendo.

Si può intanto dire che le cose che stanno uscendo fuori stanno cogliendo di sorpresa anche gli stessi esperti statunitensi della materia. C’è voluto un anno di studi e ricerche all’esperto nominato dal tribunale, un certo signor Valukas, per stendere un rapporto di ben 2200 pagine sulla questione. Sembrano implicati nella vicenda sia quattro tra i più importanti dirigenti della banca all’epoca dei fatti che hanno portato al fallimento della società, compreso il principale responsabile dell’istituto, che anche la società di revisione contabile Ernst & Young, che uno studio legale britannico. Per i caratteri dell’episodio di cui si sta discutendo, viene in qualche modo alla memoria una rilevante analogia con il caso Enron; gli accadimenti recenti sembrano mostrare alla fine in ogni caso che, nonostante le riforme regolamentari che la crisi di allora aveva a suo tempo contribuito ad avviare, in particolare con l’approvazione del Sarbanes-Auxley Act, tutto continua tranquillamente come prima.

Dalla relazione di Valukas esce nella sostanza fuori che la società, nei mesi che precedettero il fallimento, aveva pubblicato dei conti manipolati, molto migliori di quelli reali, usando tra l’altro una tecnica simile in qualche modo alle nostre operazioni pronti contro temine. La Lehman, subito prima della data di scadenza dei conti trimestrali - che negli Stati Uniti tutte le società quotate in borsa sono obbligate a presentare - si è fatta prestare per pochi giorni dei soldi sul mercato dando in garanzia dei beni aziendali, in gran parte peraltro rappresentati da titoli tossici; il prestito avrebbe dovuto essere restituito dopo qualche tempo, con il contemporaneo ritorno in suo possesso dei beni dati in garanzia. In sé, queste transazioni non sono certo illegali, ma appaiono di uso corrente, negli Stati Uniti come in Italia, quando un operatore ha bisogno di liquidità per un periodo di tempo limitato. Il problema sta nell’avere nascosta e mascherata la vera natura delle transazioni in oggetto.

In effetti la società, invece di indicare nei suoi conti l’operazione nella sua realtà, ha fatto finta, secondo il rapporto Valukas, che si trattasse di una vendita di beni, non inserendo in bilancio il debito relativo e non esponendo nell’attivo la presenza di titoli tossici e presentando così i suoi conti come molto migliori di quanto fossero nella realtà e il livello di indebitamento invece come molto inferiore al vero. Il punto più grave della vicenda è forse quello che non si trattava di piccole somme, ma di ben 50 miliardi di dollari, almeno per quanto riguarda l’ultimo bilancio trimestrale pubblicato; la Lehman ha usato peraltro questa tecnica, che valori che toccavano molte decine di miliardi di dollari, non una sola volta, ma almeno per ben tre trimestri di seguito. Nessuno studio legale americano, stante le leggi attuali del paese, avrebbe mai apparentemente osato controfirmare quella pratica e così la banca si è rivolta ad una società britannica, la Linklaters, uno degli studi legali più reputati della City, che invece sembra non avere avuto problemi a farlo e a certificare che in effetti si trattava di una vendita. Da sottolineare, di passaggio, che il rapporto di Valukas sottolinea anche un altro problema, se vogliamo di dimensioni minori rispetto a quello precedente; la Lehman avrebbe sistematicamente gonfiato sulla carta il livello delle liquidità disponibili, anche in questo caso attraverso vari trucchi contabili.

La Lehman ha avuto apparentemente, nelle sue operazioni, come risulta dal rapporto Valukas, anche il sostegno della Ernst & Young, che a suo tempo ha certificato i conti della società nonostante che qualcuno, sembra un vicepresidente della stessa Lehman, la avesse avvertita di nascosto dei trucchi che erano stati utilizzati dall’azienda. Per inciso, la società di revisione ha incassato dalla banca di investimento statunitense per la sola revisione del bilancio del 2007 ben 31 milioni di dollari. Sia i quattro dirigenti dell’istituto newyorkese, che la società di revisione dei bilanci, che lo studio legale britannico sopra citato, negano con decisione ogni addebito, affermando di essere stati all’oscuro dei problemi legali di cui si parla.

Sulla base del rapporto dell’esperto, ci si attende ora che vengano eventualmente avviate delle procedure penali e anche civili da parte delle istituzioni e degli investitori interessati; sembra che molti tra questi ultimi stiano preparando delle denunce contro tutti gli attori coinvolti nella vicenda. Contemporaneamente, si avanza da qualche parte il dubbio che altre società coinvolte nella crisi abbiano utilizzato gli stessi trucchi della Lehman. In ogni modo, la SEC ha lanciato a suo tempo delle indagini anche in altre direzioni, apparentemente senza esito sino a questo momento. Ma le investigazioni in proposito sono molto complesse e impegnative ed esse richiedono molto tempo per essere svolte adeguatamente. Incidentalmente, l’inchiesta dell’esperto statunitense ha anche trovato tracce del fatto che la banca britannica Barclays, che ha acquistato dopo il fallimento le attività statunitensi dell’istituto newyorchese, si sarebbe impadronita illegalmente di attività dell’istituto fallito per un valore di 10 milioni di dollari. Un’inezia.

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