[Paesi che han superato – temporaneamente- la recessione, paesi che continuano in recessione economica e paesi il cui PIL non ha smesso di crescere. Fonte: The Guardian]
Negli ultimi mesi, i neoliberisti più duri si sono rialzati, sicuri di sé, come se non fosse successo nulla. Nello scontro ideologico per “salvare” il capitalismo troviamo, da una parte, i Warren Buffet che, come nell’era Bush dei regali fiscali, pretendono di continuare a guadagnare senza scendere a compromessi o fare concessioni; e dall’altro, quelli che si preoccupano di risolvere le contraddizioni del capitalismo, di integrare l’antagonismo sociale, e di assicurare la sua sostenibilità con l’adozione di un New Deal. Ma tutti vogliono minimizzare le trasformazioni democratiche.
La bolla immobiliare e i derivati finanziari han permesso negli ultimi trent’anni di compensare la perdita del potere d’acquisto dei salari e hanno abbozzato un metodo di valutazione – e di controllo – della produzione biopolitica della società. Se i Keynesiani scommettono sulla domanda, per via della spesa pubblica, i neoliberisti speravano – e sperano ancora – che la creazione delle plusvalenze dei mercati finanziari tramite l’indebitamento generalizzato, anche degli strati più poveri o precari (e con un maggior rischio di insolvenza), svolgano lo stesso ruolo. Ma se, come succede adesso, le finanze non riescono a compensare la diminuzione del salario medio, si finirà per erodere la base sociale della produzione e col mettere in pericolo quegli stessi privilegi che si vogliono mantenere. Ecco la grande contraddizione del capitalismo contemporaneo:
“Guadagni diseguali incompatibili, con la necessità di ampliare la base finanziaria per continuare a sviluppare il processo di accumulo. Questa contraddizione non fa altro che mettere in evidenza gli eccessi della vita di buona parte dei soggetti sociali alla sussunzione [del capitale] (che siano già divisi singolarmente o ben definibili in segmenti di classe)” *
La crisi europea, con i recenti attacchi speculativi in cambio del debito sovrano dei paesi mediterranei, è un buon esempio di queste contraddizioni, e della difficoltà di trovare un’uscita politica con le attuali strutture neoliberiste di governo. La stampa spagnola cita Paul Krugman quando questo sostiene che è la Spagna, e non la Grecia, l’epicentro della zona euro, ma ignora volontariamente il fulcro della sua argomentazione, ossia che il problema non è l’irresponsabilità fiscale della Grecia o della Spagna (che aveva il famoso surplus contro la crisi e il cui debito pubblico si continua oggi a confontare con gli altri paesi dell’OCSE), ma bensì il fatto di avere “un’unione monetaria senza un’integrazione fiscale e del mercato del lavoro”. Ossia, senza un’integrazione politica. Un New Deal come quello voluto dai neokeynesiani come Krugman, è possibile solo in una cornice sovranazionale che in Europa non esiste, nonostante il Trattato di Lisbona. Questo ha notevoli conseguenze per paesi come la Spagna.
- La Spagna non può svalutare la propria moneta. Si sapeva già dall’adozione dell’euro che a meno di poter realizzare aggiustamenti sul tasso di cambio nominale, gli investitori avrebbero preteso un aggiustamento sul tasso di cambio reale comprimendo prezzi e salari (basta pensare a quello che è successo in Lettonia). Se la Germania può fare aggiustamenti sul cambio nominale, è perchè esporta la crisi nella periferia europea. Come affermano Pascal Canfin, Daniel Cohn-Bendit e Sven Giegold su Le Monde, in una zona economicamente integrata come la zona euro, i deficit degli uni sono gli eccedenti degli altri.
- Gli Stati europei periferici, inoltre, non possono neanche contare su trasferimenti federali come succede alla California o alla Florida negli Stati Uniti. Il budget comunitario non può superare l’1% del PIL, mentre il budget federale statunitense arriva al 20%. Il rifiuto di appoggiare la Grecia con fondi budgetari dell’Unione Europea è legato all’ossessione di mantenere tale tetto budgetario, che potrebbe crollare se si rispondesse alla valanga di domande di aiuti.
- Nella cornice del fallito patto di stabilità e crescita, il governo spagnolo – più papista del Papa – si vede costretto a portare il deficit pubblico sotto il 3% entro qualche anno, sebbene paesi come Germania o Francia non l’abbiano fatto quand’era necessario, mentre la Banca Centrale Europea, nella sua politica monetaria continua a ritenere prioritario il contenimento di un’inflazione inesistente.
- La fiscalità degli Stati, ereditata principalmente dall’epoca fordista, si basa su un’imposta indiretta o diretta – sul reddito – che non è progressiva, giusta e tantomeno sufficiente. Come ricorda Martín Seco, il deficit pubblico spagnolo – come quello di altri paesi – si deve fondamentalmente al calo della riscossione, non alla spesa pubblica. Tale deficit continua a essere più basso di quello di altri paesi della zona euro. E la banca spagnola, che esige un taglio dei salari, non dice che l’indebitamento in Spagna è soprattutto privato
[Debito pubblico in percentuale del PIL, nel 1997 e 2007. Il debito pubblico spagnolo in relazione al suo PIL è relativamente basso in confronto agli altri paesi dell’OCSE. Fonte: http://krugman.blogs.nytimes.com/2010/02/05/the-spanish-tragedy/]
In mancanza di entrate via imposte, gli Stati sono ricorsi all’emissione di obbligazioni a tasso variabile per appoggiare il sistema finanziario, creando le condizioni per una nuova bolla. Amara ironia: i creditori privati hanno accettato questa congiuntura e le carenze politiche della zona euro, per fomentare la sfiducia sulle capacità degli Stati di rimborsare il loro debito e attaccare in questo modo i sistemi di protezione sociale in Europa. Non che vogliano solo avere grandi benefici, come George Soros quando provocò la svalutazione della sterlina nel 1992; il loro obiettivo è imporre determinate politiche. Vogliono evitare che i governi facciano politiche di stimolo della domanda attraverso la spesa pubblica e soprattutto vogliono evitare qualsiasi evoluzione politica che implichi una riappropriazione collettiva della ricchezza prodotta socialmente.
L’attacco finanziario, dunque, deve essere considerato un attacco preventivo, quello che i mafiosi chiamerebbero “una lezione”. Basti pensare all’atteggiamento dei giornali finanziari: “Se questa volta il giovane Papandreu sbaglia, la Grecia verrà punita ancor più duramente”, avverte The Economist. Se gli investitori si accaniscono sulla Grecia non è per l’incompetenza o la corruzione dei suoi governi, ma per la sua “debolezza” rispetto alla pressione sociale che reclama cambi radicali, debolezza messa in evidenza dal cambio elettorale dell’ottobre 2009. Già nel dicembre 2008, a qualche giorno dallo scoppio della gran rivolta che si sviluppò in tutto il paese dopo la morte di Alexandros Grigoropulos, l’interest spread (che viene coperto in base al tipo di interesse delle obbligazioni tedesche) raggiunse i livelli più alti da quando la Grecia aveva adottato l’euro. Nel caso spagnolo, si teme che in futuro il governo possa imbarcarsi in politiche “sbagliate”, cosa che il presidente della Banca Santander, Emilio Botín (gran protettore – e beneficiario- di José Luis Rodríguez Zapatero) si è affrettato a smentire. Finchè le faville come quella greca non infiammano l’Europa, non ci sarà nulla da temere, nonostante i milioni di disoccupati. La Spagna non sarà la nuova Argentina o Islanda! Botín, come già fece Buffet a suo tempo, ha ben chiaro in testa chi, al momento, impone il proprio volere. Noi continuiamo a discutere su come dimostrare che si sbagliano.
* "Nulla sarà come prima. Dieci tesi sulla crisi finanziaria", Andrea Fumagalli
Titolo originale: "Un ataque (financiero) preventivo"
Fonte: http://www.rebelion.org/
Link
08.02.2010
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di MARINA GERENZANI
Nessun commento:
Posta un commento