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Riporto questo ottimo articolo di Kirkpatrick Sale (inviagli una mail), studioso, direttore del Middlebury Institute e autore di Secession is in the air (tradotto da Micaela Marri per il sito www.comedonchisciotte.org).
Un pezzo che merita di essere diffuso il più possibile.
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Di Kirkpatrick Sale
Più grande è lo stato, più sono i disastri economici e le vittime militari, è la legge della grandezza del governo.
Sì, Aristotele ha dichiarato che ci doveva essere un limite alla grandezza di uno stato: “un limite, come c’è per le altre cose, piante, animali, strumenti; perché nessuno di questi conserva la propria capacità naturale quando è troppo grande…, ma rimarrà interamente privo della propria natura, o si troverà in cattive condizioni”, così ha detto. Ma che diamine ne sapeva veramente? Ha vissuto in un’epoca in cui l’intera popolazione mondiale arrivava a circa 50 milioni di persone – pressappoco la grandezza dell’Inghilterra oggi – la popolazione delle città stato dove si parlava greco, che non erano unite in una nazione, potrà essere stata in tutto 8 milioni, ed Atene, dove viveva, considerata una grande città, avrebbe avuto meno di 100 000 abitanti. Limiti? Non poteva nemmeno immaginare un mondo (il nostro) con una popolazione di 6,8 miliardi, una nazione (la Cina) con 1,3 miliardi di abitanti, né una città (Tokyo) con 36 milioni di abitanti. In che modo ci può aiutare?
Innanzitutto sapeva che esistono dei limiti: “l’esperienza insegna che una città molto popolosa può raramente essere ben governata; dato che tutte le città che hanno fama di essere governate bene hanno un limite di popolazione. E questo è provato anche da un ragionamento convincente: poiché la legge è ordine, e la buona legge è buon ordine; ma un numero troppo smisurato non può avere ordine”. E non conta se quella città ha 1 milione o 36 milioni di abitanti – le entità politiche di tali dimensioni non potrebbero certamente essere democratiche in alcun senso, non potrebbero possibilmente funzionare in alcun modo che si avvicini all’efficienza, e potrebbero esistere solo con grandi sperequazioni di ricchezza e benessere materiale.
In secondo luogo, sapeva che gli esseri umani hanno un cervello di dimensioni e capacità di comprensione limitate, e che metterli in aggregazione non li rende più intelligenti – come ha detto un altro filosofo, Lemuel Gulliver, “la ragione non aumenta con la massa corporea”. C’è una scala umana per la politica umana, definita dalla natura dell’uomo, che funziona bene solamente in quelle aggregazioni che non solleciti e sovraccarichi troppo il … molto capace e ingegnoso ma limitato cervello umano, né la capacità umana.
Quindi le unità politiche, diceva Aristotele – pensava principalmente a città, non conoscendo le nazioni – ma anche se potessimo allargare tali unità con l’esperienza di altri 2000 anni fino ad unità più grandi come le nazioni, devono essere limitate: limitate dalla natura umana e dall’esperienza umana. Ed è con quella massima di Aristotele che adesso possiamo iniziare a contemplare quale dimensione di uno stato nel mondo odierno rappresenterebbe la grandezza ideale, o diciamo la grandezza ottimale, con questi due criteri di primaria importanza: “sufficiente”, citando Aristotele, “per una buona vita nella comunità politica” – che sarebbe una qualche forma di democrazia – e “il massimo numero che è sufficiente per gli scopi di una vita agiata” – che sarebbe l’efficienza. Democrazia ed efficienza.
E sentite – questa non è una di quelle futili ricerche filosofiche. È, o potrebbe essere, il fondamento di una seria riorganizzazione del nostro mondo politico, e di una riorganizzazione che il processo di secessione – in effetti, che solo il processo di secessione, per come la vedo io – potrebbe darci. Abbiamo prove in abbondanza che uno stato di 305 milioni di abitanti è ingovernabile – uno studioso ha detto a un quotidiano la scorsa domenica che siamo al quarto decennio dell’inabilità del Congresso di approvare il benché minimo provvedimento di utilità sociale. Gonfiato e corrotto oltre la sua abilità di affrontare, né tantomeno di risolvere, nessuno dei problemi come un impero che ha creato, è un palese fallimento. Allora dobbiamo chiederci cosa potrebbe sostituirlo, quali [dovrebbero essere] le dimensioni? La risposta, come sarà chiaro, sono stati indipendenti, ovvero le nazioni d’America.
Diamo innanzitutto uno sguardo ai numeri del mondo reale delle nazioni dei nostri giorni per farci un’idea delle dimensioni della popolazione che funzionano veramente.
Di tutte le entità politiche mondiali – ce ne sono 223, contando anche le isole indipendenti più piccole – 45 sono al di sotto dei 250 000 abitanti, 67 sotto 1 milione, 108 sotto i 5 milioni; in effetti il 50 per cento delle nazioni sono sotto i 5,5 milioni, ed un netto 58 per cento sono più piccole della popolazione della Svizzera di 7,7 milioni (Wikipedia: popolazioni mondiali in ordine di grandezza). Da questo si evince che è ovvio che la maggior parte dei paesi nel mondo funzionano con popolazioni relativamente piccole. E guardando alle nazioni che sono modelli riconosciuti di governo, ce ne sono otto persino sotto i 500 000 abitanti – il Lussemburgo, Malta, l’Islanda, le Barbados, l’Andorra, il Liechtenstein, il principato di Monaco e la repubblica di San Marino – e l’esempio dell’Islanda, con il parlamento più vecchio d’Europa e modello incontestato di democrazia (lasciando da parte i suoi problemi bancari), suggerisce che 319 000 abitanti sarebbero più che sufficienti. Salendo un po’ con le dimensioni, ci sono altri nove modelli di buon governo sotto i 5 milioni di abitanti, compresi Singapore, la Norvegia, la Costa Rica, l’Irlanda, la Nuova Zelanda, l’Estonia, il Lussemburgo e Malta.
Adesso diamo uno sguardo alle dimensioni delle nazioni più prospere in ordine di prodotto interno lordo (Wikipedia: elenco dei paesi per pil, CIA Factbook). (Tra parentesi, lasciatemi dire che mi rendo conto che il PIL è una misura cruda ed acritica della crescita economica, e riflette tutti i tipi di crescita, molti non desiderabili, ma fintantoché avremo nazioni dedite ad economie “steady state”, questo è il miglior modo per misurare la prestazione economica). Diciotto dei 20 maggiori paesi in ordine di PIL (un totale di 27 paesi a causa di situazioni di parità) sono piccoli, sotto i 5 milioni di abitanti, e tutti tranne uno dei primi dieci sono sotto i 5 milioni (sono gli Stati Uniti, al decimo posto, e gli altri sono, in ordine, il Liechtenstein, il Qatar, il Lussemburgo, le Bermuda, la Norvegia, il Kuwait, il Jersey, Singapore e il Sultanato del Brunei); la grandezza media di questi nove è di 1,9 milioni di abitanti. La grandezza media delle 27 nazioni più grandi, Stati Uniti esclusi, è di 5,1 milioni di abitanti. Si inizia a capire come stanno le cose.
Prendiamo un altro parametro – la libertà, come viene classificata da tre diversi siti, Freedom House, il Wall Street Journal, e il The Economist, usando misure delle libertà civili, elezioni aperte, media liberi, e via dicendo. Dei 14 stati ritenuti i più liberi al mondo, nove (il 64 per cento) hanno una popolazione minore di quella della Svizzera di 7,7 milioni, 11 minore di quella della Svezia di 9,3 milioni, e gli unici stati di una certa grandezza sono il Canada, il Regno Unito e la Germania, la più grande, con 8,1 milioni di abitanti.
C’è un’altra misura della libertà pubblicata da Freedom House, che classifica tutte le nazioni del mondo secondo i diritti politici e le libertà civili, e ci sono solo 46 nazioni con un punteggio perfetto. Di queste 46, la maggior parte hanno una popolazione sotto i 5 milioni, e per l’appunto 17 hanno una popolazione persino sotto il milione. Questo in sé è sbalorditivo. E solo 14 delle 46 nazioni libere superano i 7,5 milioni. Ad esclusione degli Stati Uniti, la cui reputazione per la libertà è del tutto smentita dall’incarcerazione di 2,3 milioni di persone, il 25 per cento dei detenuti nel mondo, ed escludendo il Regno Unito, la Spagna e la Polonia, la popolazione media degli stati liberi del mondo è di circa 5 milioni.
Lasciatemi infine prendere in esame altre classifiche nazionali: Alfabetizzazione: dei 44 paesi che sostengono di avere una percentuale di alfabetizzazione pari al 99 per cento o maggiore, (dico sostengono, dato che è difficile verificarlo), solo 15 sono grandi, 29 (il 66 per cento) dei 44 sono sotto i 7,5 milioni. Sanità: misurata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, 12 dei primi 20 paesi sono sotto i 7 milioni di abitanti, nessuno supera i 65 milioni. In una classifica della felicità e del tenore di vita secondo il sociologo Steven Hales, le nazioni in testa sono la Norvegia, l’Islanda, la Svezia, i Paesi Bassi, l’Australia, il Lussemburgo, la Svizzera, il Canada, l’Irlanda, la Danimarca, l’Austria e la Finlandia, tutti tranne il Canada e l’Australia sono paesi piccoli. Ed un “indice di società sostenibile” creato da due studiosi l’anno scorso, che tiene conto di fattori ambientali ed ecologici, classifica solo i paesi più piccoli tra i primi 10 – in ordine sono Svezia, Svizzera, Norvegia, Finlandia, Austria, Islanda, Vietnam, Georgia, Nuova Zelanda e Latvia.
In sostanza – la mia idea è chiara e semplice. Una nazione può essere non solo possibile e sostenibile a livelli di popolazione abbastanza bassi, un modello di governo efficiente e più o meno democratico, ma può in effetti fornire tutte le qualità necessarie ad una vita superiore. Per l’appunto, le cifre sembrano suggerire che, seppure sia possibile prosperare a dimensioni sotto il milione di abitanti, esiste una grandezza più o meno ottimale per uno stato riuscito, ossia tra i 3 e i 5 milioni di abitanti.
Adesso diamo una rapida scorta alla grandezza geografica delle nazioni prospere. Molte nazioni sono sorprendentemente piccole – sottolineando il fatto, spesso non notato dai critici della secessione, che una nazione non deve essere autosufficiente per funzionare bene nel mondo moderno. Infatti ci sono 85 entità politiche, delle 223 contate dall’ONU, che sono più piccole di 16 000 chilometri quadrati – ossia la grandezza del Vermont o anche più piccole – e comprendono Israele, El Salvador, le Bahamas, il Qatar, il Libano, il Lussemburgo, Singapore e l’Andorra.
E se torniamo a quella misura di forza economica che è il prodotto interno lordo pro capite, le nazioni piccole dimostrano di essere decisamente vantaggiose: delle prime 20 nazioni nella classifica (27 in totale incluse quelle pari merito), tutte tranne otto sono piccole per territorio, meno di 56000 chilometri quadrati, la media globale (grande come il South Carolina) e due di quelle otto includono la Norvegia e la Svezia, tecnicamente grandi, ma che escluse le loro aree settentrionali deserte, sono effettivamente piccole; in altre parole il 77 per cento delle nazioni prospere sono piccole. E la maggior parte di queste sono davvero piuttosto piccole, meno di 16000 chilometri quadrati (Liechtenstein, Qatar, Lussemburgo, Bermuda, Kuwait, Jersey, Singapore, Brunei, Guernsey, Isole Cayman, Hong Kong, San Marino, Isole Vergini Britanniche e Gibilterra).
Tutto questo è prova certa che le nazioni economicamente coronate da successo non devono necessariamente essere grandi in quanto a dimensioni geografiche, e anzi, questo è il punto importante: è molto indicativo che la grandezza possa essere in effetti un ostacolo. Il motivo di ciò è che i costi di amministrazione, distribuzione, trasporto e di simili operazioni ovviamente devono crescere, forse esponenzialmente, con l’aumento delle dimensioni geografiche. Anche il controllo e la comunicazione diventano più difficili da gestire sulle lunghe distanze, spesso fino al punto che autorità e governo centrali diventano quasi impossibili, e mentre le linee e i segnali diventano più complessi, l’abilità di gestire efficientemente diminuisce fortemente.
Piccolo, ammettiamolo, non è solo bello ma vuol dire anche ricchezza.
[Una volta capita questa importante idea, ne può derivare un ulteriore argomento logico: che in molti casi una nazione piccola potrebbe desiderare di suddividersi ulteriormente per sfruttare il vantaggio di aree più piccole per funzioni economiche più efficienti. Questo potrebbe comportare una secessione vera e propria, in alcuni luoghi dove porterebbe semplicemente un buon vantaggio economico – e in altri posti dove avrebbe anche vantaggi politici e culturali. Ma potrebbe anche prendere la forma di una “devolution” economica e politica, in cui si concedono autonomia e potere ad aree più piccole senza una vera e propria secessione, un po’ secondo il modello svizzero].
In effetti, voglio proporre, considerando queste cifre ed ancor più considerando la storia del mondo, che c’è una Legge di Grandezza del Governo, che dice: la miseria sociale ed economica aumenta proporzionalmente alla grandezza e al potere del governo centrale di una nazione.
Nel verificare questa legge – la legge di Sale, come mi piace chiamarla – alla luce della storia, lasciatemi iniziare con lo studio giustificabilmente classico della civilizzazione dell’uomo di Arnold Toynbee, la cui conclusione primaria è che il penultimo stadio di qualunque società, che conduce direttamente al suo finale stadio di crollo è “la sua forzata unificazione politica in uno stato centralizzato”, e cita come esempi gli imperi romano, ottomano, bengalese e mongolo, e lo Shogunato Tokugawa, ed infine gli imperi spagnolo, britannico, francese e portoghese. Il consolidamento delle nazioni in imperi potenti porta, non a periodi felici di pace e prosperità e al progresso del miglioramento umano, ma ad un aumento delle restrizioni, alla guerra, all’autocrazia, l’affollamento, la riduzione in miseria, le sperequazioni, la povertà e la fame.
La ragione di tutto questo non è un mistero. Mentre il governo cresce, allarga sia il suo potere burocratico sugli affari interni che il suo potere militare sugli affari esteri. Si deve trovare il denaro per tale espansione, e questo arriva o sotto forma di tassazione, che porta all’aumento dei prezzi ed infine all’inflazione – un risultato che Micawber definirebbe miseria sociale – o [proviene] dalla stampa di nuove banconote, che porta lo stesso a prezzi più alti e all’inflazione – il risultato, ancora, è la miseria sociale. Si crede inoltre che la ricchezza provenga dalla conquista e dalla colonizzazione, dall’aumento dei saccheggi attraverso la guerra, ma si paga con l’imposizione di un maggiore controllo da parte del governo e del reclutamento militare in patria (“la guerra è la salute degli stati” come avrebbe detto Randolph Bourne), con più violenza, spargimenti di sangue e miseria per il proprio esercito e per i propri civili e per le forze di opposizione all’estero. Risultato: miseria economica e sociale. Ho trattato approfonditamente questo argomento nel mio libro Human Scale (disponibile su richiesta dalla New Catalist Books), ma lasciatemene dare giusto una versione riassuntiva qui, concentrandoci sull’Europa. Ci sono stati quattro maggiori periodi di grande consolidamento ed espansione statale nell’ultimo millennio:
1. Dal 1150 al 1300 d.C., con l’instaurarsi delle dinastie reali che hanno rimpiazzato le baronie medievali e le città stato in Inghilterra, Aquitania, Sicilia, Aragona e Castiglia, portando come risultato un’inflazione rampante di quasi il 400 per cento e guerre quasi ininterrotte, con l’aumento dei caduti in battaglia da qualche centinaia a più di quasi un milione.
2. Dal 1525 al 1650, con il consolidamento del potere nazionale attraverso eserciti permanenti, tassazione regia, banche centrali, burocrazie civili, e religioni di stato, si è visto un tasso di inflazione di oltre il 700 per cento in soli 125 anni ed un aumento delle guerre senza precedenti, un’intensità bellica sette volte maggiore di quanto l’Europa avesse mai visto prima, l’aumento delle morti in guerra fino a forse 8 milioni, forse 5 milioni di caduti solo durante la Guerra dei Trent’anni.
3. Dal 1775 al 1815, il periodo del governo dello stato moderno in gran parte d’Europa, comprese le forze di polizia nazionali, gli eserciti di coscritti, il potere statale centralizzato in stile napoleonico, c’è stato un tasso d’inflazione di oltre il 250 per cento in soli 40 anni, nel 1815 è stato il più alto in assoluto fino a quello degli anni ’20, e i caduti di guerra hanno raggiunto i 15 milioni (forse 5 milioni nelle guerre napoleoniche) in quel breve periodo.
Infine, nel quarto periodo, dal 1910 al 1970, familiare a noi tutti, tutte le nazioni europee si sono consolidate ed hanno ampliato il loro potere, conosciuto in molti luoghi come totalitarismo (seppure conosciuto negli USA come libertà e democrazia – pur avendo avuto tutte le componenti del totalitarismo – potere centrale consolidato, banca nazionale, imposta sul reddito, polizia nazionale, reclutamento, presidenza imperiale), avendo come risultato la peggior depressione della storia e un’inflazione del 1400 per cento, e certamente le due guerre più devastanti di tutta la storia dell’umanità, avendo contribuito alla morte di 100 milioni di persone o più.
Conclusione inevitabile: più grande è lo stato, più sono i disastri economici e le vittime militari. La legge della grandezza del governo.
Adesso che abbiamo stabilito la virtù dell’essere piccolo in tutto il mondo, applichiamo questi numeri agli Stati Uniti e vediamo cosa ci dicono.
Dei 50 stati, appena più della metà (29) sono al di sotto dei 5 milioni di abitanti. La metà della popolazione vive in 40 stati che hanno in media 3,7 milioni di abitanti; l’altra metà è nei 10 stati più grandi. Ci sono 10 stati ed una colonia nella classe che va dai 3 ai 5 milioni di abitanti, che, suggerirei, sarebbero candidati ideali per una secessione – Iowa, Connecticut, Oklahoma, Oregon, Porto Rico, Kentucky, Louisiana, South Carolina, Alabama, Colorado, e Mississippi – altri 13 stati tra 1 e 3 milioni di abitanti - Montana, Rhode Island, Hawaii, New Hampshire, Maine, Idaho, Nebraska, West Virginia, New Mexico, Nevada, Utah, Kansas, ed Arkansas – ed altri otto stati sotto il milione di abitanti ma più grandi dell’Islanda, compreso l’amato Vermont. In altre parole, 30 degli stati (insieme al Porto Rico) rientrano in una categoria dove stati di simili dimensioni nel resto del mondo avrebbero prodotto nazioni indipendenti riuscite. Questi sono i candidati a una secessione di successo.
Aggiungiamoci le lezioni imparate dalle dimensioni geografiche. Abbiamo già visto che 84 aree politiche nel mondo sono più piccole del Vermont, il penultimo stato americano in ordine di grandezza. Ora vediamo come gli stati si rapportano alle cifre mondiali. La dimensione media dell’area di uno stato americano è di circa 93 000 chilometri quadrati – 25 stati sono più piccoli, 25 più grandi. Se tutti quelli al di sotto di 93 000 fossero indipendenti, sarebbero come altre 79 nazioni nel mondo, tra cui Grecia, Nicaragua, Islanda, Ungheria, Portogallo, Austria, Repubblica Ceca, Irlanda, Sri Lanka, Danimarca, Svizzera, Paesi Bassi e Taiwan. In altre parole, la grandezza non è in alcun modo di intralcio al successo del funzionamento delle nazioni nel mondo – e, come ho suggerito, le piccole dimensioni sembrano appunto essere una virtù.
Non devono necessariamente importare solo la popolazione o le dimensioni geografiche – un fattore importante di coesione sociale, infrastruttura sviluppata, identità storica e affini – ma quello certamente mi sembra il punto più logico da cui iniziare, quando si considerano stati possibili. E dato che l’esperienza del mondo ha dimostrato – per l’appunto, di volta in volta nella formazione delle nazioni a partire dal XIX secolo – che le entità nella fascia dai 3 ai 5 milioni di abitanti possono essere l’optimum per governabilità e l’efficienza, ed alcuni nella fascia da 1 milione a 7 milioni, è così che si deve iniziare a valutare gli stati per il loro potenziale di secessione e per le loro possibilità di successo nazionale.
Spero che tutto questo esame aristotelico non venga considerato come un mero esercizio accademico, anche se ci è voluto un bel po’ di esercizio, vi assicuro, [per scriverlo]. Credo che stabilisca qualcosa alla maniera di un impeto propellente per quegli Americani che capiscono che il loro governo nazionale (ossimoro non intenzionale) è rotto e non può essere riparato (ce n’erano un 70 per cento in un sondaggio nazionale non tanto tempo fa), e che si rendono conto che l’unica maniera di ridare energia alla politica americana e ricreare la vibrante collezione di democrazie, che si era figurata la generazione dei fondatori nel XVIII secolo, è quella di creare stati veramente sovrani attraverso una secessione pacifica, popolare e potente.
Lasciatemi sottolineare questa conclusione: l’unica speranza è la secessione.
Copyright © 2010 Middlebury Institute
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