Il populismo antibanche di Obama si ritorcerà contro il presidente

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Scritto da Oscar Giannino
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Proprietà e libertà sono due parole che indicano la stessa cosa, ricorda a tutti il grande Ronald Coase. La lezione in Europa tende a essere regolarmente dimenticata. Perché da noi i cittadini, intesi come contribuenti, sono abituati da secoli ormai ad avere un rapporto con lo Stato che è rimasto sostanzialmente di sudditanza, di fatalistica acquiescienza al mutevole bisogno del sovrano di richiedere per sé parti crescenti del reddito di cittadini e imprese per coprire le spese pubbliche più diverse.

Praticate in deficit, ed è il deficit a giustificare emergenzialmente che le tasse debbano salire. Solo che l’emergenza è permanente, come la fame di nuova spesa pubblica. Infatti in molti Stati europei la pressione fiscale tende sempre a salire. Senonché, negli Stati Uniti e in molti paesi di tradizione anglosassone, non funziona così. Non è questione di essere americanofili o di negare la grande civiltà europea di cui quella americana è figlia tardiva, per quanto energica. È la storia, che è diversa. Gli States sono nati mandando a quel paese con una dura guerra l’impero europeo che li teneva come colonie, e pretendeva più tasse. Ecco perché laggiù detassazione e libertà tendono a coincidere più che da noi. È questa banale lezione che ha portato il presidente Obama a una crisi vera, a un anno solo dal suo insediamento, e alla sconfitta senatoriale in Massachussetts, che priva i democratici della maggioranza di blocco a 60 seggi in Senato, impedendo alla Casa Bianca di poter contare a tavolino sull’approvazione di tutte le misure considerate essenziali per il mandato presidenziale. A cominciare dalla riforma sanitaria, che per i democrat si è rivelata elettoralmente un disastro. Perché gli americani apprezzeranno pure ciò che riempie la bocca agli obamiani europei (cioè che alcuni milioni di cittadini siano sottratti alla mancata copertura sanitaria), ma intanto respingono l’idea che debba costare migliaia di miliardi di dollari di spesa pubblica (il che significa più tasse, appunto). Eppure la prima reazione di Obama non è stata coerente al messaggio. O meglio, mercoledì, nel suo primo discorso sullo stato dell’Unione (pronunciato in un’atmosfera ben diversa da quel tripudio orgiastico che segnò l’esordio presidenziale) ha tentato di aggiustare il tiro. Ma all’indomani della sberla elettorale e dei sondaggi scesi al più basso livello rispetto a tutti i presidenti da Ike Eisenhower in avanti, Obama ha reagito in senso opposto. Apparentemente, lo schiaffo mollato alle grandi banche definendo «osceni» i superbonus dei manager e la proposta di maxitassa per i maggiori 50 istituti di credito puntano ad alzare il tono populista e a riprendere consensi tra le vittime della crisi. Tuttavia, se si prende alla lettera la levata di scudi obamiana contro Wall Street, essa indica tre cose molto diverse. La prima è che in un anno l’amministrazione Obama aveva tenacemente respinto ogni rimessa in discussione del distinguo tra banche commerciali e banche d’investimento. Ben Bernanke (Fed), Tim Geithner (Tesoro) e il superconsigliere Larry Summers, l’intera prima fila dei responsabili economici obamiani, sono e restano espressione della investment bankers community, non certo di una regolazione autonoma e severa alla Paul Volcker, che sarebbe stato più utile indicare sin dall’inizio all’America e al mondo intero. La seconda è che il tono populista, in campo democratico, asseconda tardivamente gli iperinflazionisti alla Paul Krugman, tutti coloro che sostengono che il vero limite dell’amministrazione Obama, al di là dell’acquiescenza alle grandi banche, è stato il non aver disposto spesa pubblica in deficit ancora superiore a quel 18 per cento di Pil che si calcola sia il debito aggiuntivo disposto nel 2009. Ma se questa è la strada che Obama intende imboccare, la rabbia dei contribuenti americani contro le tasse aggiuntive che ciò comporterà, oltre alla disoccupazione al 10 per cento, sarà destinata a crescere, non certo a diminuire. La terza cosa è la più preoccupante per noi tutti. La comunità mondiale – e in piccolo noi dell’euro, i più deboli rispetto ad Asia e Usa – non ha da guadagnare, ma solo da temere, da una leadership americana dedita agli sbandamenti populistici, dettati dall’avvicinarsi del voto di metà mandato (2 novembre). La ripresa non è per nulla solida, e con un Obama malcerto urlatore può solo indebolirsi.

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