2010: DI MALE IN PEGGIO...

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di Guillermo Almeyra
Entriamo in un anno che, per i lavoratori e i settori popolari di tutto il mondo, porterà ancora più difficoltà, penurie e disgrazie. I guadagni delle banche e le borse non vogliono dire che la crisi è finita, ma che il loro salvataggio sulle spalle dei contribuenti, ha mantenuto la bolla finanziaria, facendo si che gli investimenti in questo settore speculativo sia più attraente dell' investimento nella produzione di beni industriali. Le politiche di rianimazione industriale che la prima potenza mondiale applica- gli USA- aggravano la stessa crisi. In effetti, mantenere e aumentare la produzione sovvenzionata di automobili equivale ad un maggiore sperpero di materie prime, con un aumento della produzione di gas ad effetto serra che aumenterà il riscaldamento globale. E sia la produzione di energia nucleare come quella di biocarburanti eserciteranno una pressione molto più grande sulle risorse idriche, sempre più scarse e minacciate dalla privatizzazione e a questo si dovranno aggiungere i costi della distruzione dei suoli, in competizione con l’alimentazione o la contaminazione da rifiuti radioattivi. Interi paesi africani si priveranno della loro terra- come fa l’Etiopia- per darla alla Cina, Corea del Sud, India che semineranno in esse gli alimenti di cui hanno bisogno, ovviamente a costo della fame dei paesi ospitanti. L’impossibilità di arrivare ad un accordo a Copenaghen sul problema climatico perchè ogni potenza difende ai “suoi” capitalisti a spese del futuro umano (inclusa la Cina) avrà anche enormi conseguenze a causa dell’innalzamento dei mari, minaccerà tutte le zone e città costiere (sia dei paesi meno industrializzati come delle metropoli), la desertificazione di intere regioni e la crescente carenza di acqua è unita in altre zone a grandi inondazioni e aumenteranno l’intensità ed il numero dei sempre più distruttivi uragani tropicali. Dall’altra parte, continuerà la debolezza del dollaro ma tutti quelli che annunciano la fine del biglietto verde e la sua sostituzione per un altro equivalente, così come quelli che credono in un crollo del sistema capitalista, sono pessimi analisti e non tengono conto nè dei fatti nè della storia. La Cina, in effetti, sta cercando disperatamente un accordo a lungo termine con gli Stati Uniti, la cui economia è sostenuta con l'acquisto di buoni e i suoi investimenti e da cui dipende il mercato delle esportazioni. Gli Stati Uniti, inoltre, hanno un potere militare che supera di di gran lunga quello degli altri concorrenti (Cina, Russia,India, Giappone, UE e Brasile) messi insieme e, anche se dalla Seconda Guerra Mondiale ha perso (o “pareggiato”) tutte le guerre (Corea, Vietnam, Iraq, Afghanistan) continua a subordinare alla sua politica bellica gli europei, come dimostra la trasformazione della Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO), nata per affrontare l’Unione Sovietica, in un apparato militare che agisce in Medio e Estremo Oriente in funzione della geopolitica di Washington. L’egemonia statunitense è in crisi ma non è in discussione e la Cina, che ha bisogno di crescere economicamente al meno di un 8% annuo per mantenere i suoi posti di lavoro, sente già gli effetti della crisi negli USA e in Europa ( i suoi mercati di export), ai quali è strettamente legata e comincia ad avere gravi problemi sociali, in modo che non può nè vuole aspirare ad essere il nuovo Egemone. In quanto al BRIC (Brasile, Russia, India, Cina) non bisogna vedere le etichette “made in Cina” o “feito em Brasil” ma chi produce ed esporta. Robert Reich, ex ministro del Lavoro di Bill Clinton, ha scritto al riguardo ne "Il lavoro delle nazioni" che “il cittadino statunitense che, ad esempio, compra una macchina della General Motors entra senza saperlo in una transazione internazionale. Dei 10.000 dollari pagati alla GM, circa 3000 vanno alla Corea del Sud per il montaggio, 1750 al Giappone per i componenti avanzati, motori, albero di trasmissione, elettronica; 750 alla Germania per la progettazione stilistica; 400 a Taiwan e Singapore per i piccoli componenti; 250 al Regno Uniti per servizi pubblicitari e marketing e 50 all’Irlanda e alle Barbados per l’elaborazione dei dati”. Non esportano, in effetti, “i paesi” ma le grandi transnazionali che in esse sfruttano la mano d’opera in modo che non è possibile ignorare nè la lotta di classe tra gli sfruttati, oppressi e sfruttatori capitalisti, nè la lotta delle transnazionali con i governi e il capitale nazionale. Questo è il grande problema: il capitalismo non crollerà se nessuno lo seppellisce e se le sue vittime non sono capaci di usare la crisi per unirsi in un ordine chiuso, per affrontarlo su scala regionale, continentale, internazionale, per rompere con la politica criminale di continuare a produrre lo stesso per i consumi inutili a scapito di tutto e tutti, e se è possibile, in cambio, imporre direttamente, in autonomia, una produzione alternativa e un consumo socialmente responsabile. Più disoccupazione- per il capitalismo- significa più offerta di mano d’opera a basso costo, meno sindacati, più disunione dei lavoratori. Cioè, poter alzare il tasso di guadagno per uscire da questa crisi, fino alla prossima. Per questo non basta preservare le attuali fonti di lavoro: se vogliamo uscire dal disastro, inoltre, bisogna ri-orientare la produzione ed il consumo e lottare per costruire un altro sistema sociale. Fonte: http://www.jornada.unam.mx/2010/01/03/index.php?section=opinion&article=012a2pol Traduzione per Voci Dalla Strada a cura di VANESA

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