La crisi c’è ma non si deve vedere

Economiadi Pietro Salvato
pubblicato il 12 dicembre 2009 alle 11:00 dallo stesso autore - torna alla home

“L’Italia va meglio degli altri”. E’ la risposta automatica di ministri ed esponenti della maggioranza a chi chiede lumi sulla nostra situazione economica. Le cose stanno davvero così? Purtroppo no e vi spieghiamo perché.

Diciamoci la verità, quante volte ci è capitato di ascoltare, magari da un esponente del governo o della maggioranza, la seguente affermazione relativamente allo stato della nostra economia: “L’Italia va meglio degli altri”. In sostanza, questo refrain amplificato dai telegiornali e dalla stampa compiacente (al governo, s’intende) continua a sostenere, che l’Italia si trova in una condizione economica migliore degli altri paesi e che il nostro paese ha affrontato la crisi e ha reagito ad essa meglio di altri. Allo stesso tempo, si sostiene che la recessione italiana dipende essenzialmente dal crollo della componente estera della domanda: l’Italia, insieme alla Germania – si dice – è un paese con forte presenza di industria manifatturiera con produzione destinata alla esportazione; il crollo del commercio mondiale, di conseguenza, ha creato ripercussioni negative sui livelli di attività. In conclusione, secondo questo teorema, assurto però per bocca del governo quasi ad assioma, l’Italia è in condizioni di affrontare la ripresa meglio degli altri paesi.

LA SOLITUDINE DEI NUMERI… - Le cose, in realtà, stanno piuttosto diversamente e i motivi di preoccupazione per l’economia italiana sono molto forti. In proposito, basta considerare pochi dati. Consideriamo, per esempio, i tassi di crescita realizzati e previsti per il periodo 2008-2010 in alcuni paesi. Da essi si possono ricavare alcuni interessanti elementi di valutazione. Per prima cosa emerge che nel triennio considerato l’Italia è il paese che subisce maggiormente la crisi, a causa di una riduzione del Pil già nel 2008 (-1%), un calo del –4,8% nel 2009 e nonostante una ripresa “supposta” dell’1,1% nel 2010. Inoltre, sempre dai dati ricavati dagli ultimi outlook dell’Ocse e dal bollettino del Fondo monetario internazionale (Fmi), l’Italia fa peggio del Giappone, della Spagna, del Regno Unito, paesi notoriamente molto colpiti dalla crisi. Tra i grandi paesi europei è quello che ha il risultato peggiore: Regno Unito: -2,9; Francia: -0,6; Germania: -2,5; Spagna: -3,0. Nell’area euro solo l’Irlanda ha un risultato peggiore: –12,8. L’Italia crolla più dei paesi dell’euro: -2,6%, e dei paesi Ocse: -2,2%; nel suo complesso l’Europa fa peggio, molto peggio, degli Stati uniti, che pure sono stati l’epicentro della crisi: +0,4 rispetto a -2,6; indice del fatto che le politiche espansive e di contrasto della crisi poste in atto in America sono state molto più consistenti ed efficaci di quelle europee, non coordinate, insufficienti, o come nel caso italiano del tutto assenti.

UN’ANALISI COME NESSUNO VE LA PRESENTA - Inoltre, contrariamente alla vulgata mediatica fatta circolare artatamente dai dicasteri economici del governo Berlusconi, la caduta del Pil dell’Italia non è per niente dominata dalla caduta della domanda estera, al contrario. Infatti, i dati relativi ai primi 6 mesi del 2009 mostrano che nell’area dell’euro la recessione è dipesa per i due terzi 2/3 (67%) dalla caduta della domanda interna e per un terzo 1/3 dalla riduzione della esportazioni. In Italia, le proporzioni risultano rispettivamente tre quarti 3/4 (75%) dalla caduta della domanda interna e per un solo quarto 1/4 dal calo delle esportazioni. In sostanza, in Italia gli investimenti e soprattutto i consumi sono crollati ben più delle esportazioni. Questo sì che è un motivo di seria preoccupazione, accentuata, se possibile, dal fatto che già nel 2008 l’Italia ha mostrato una diminuzione del Pil di un punto percentuale dovuto per più del 100% (124%, per la precisione) al crollo della domanda interna, dal momento che invece il contributo netto alla crescita della bilancia commerciale è stato positivo. In poche parole, anche in questo periodo di crisi si conferma che i problemi dell’economia italiana sono seri e strutturali, e che ben difficilmente potremo fare affidamento su una ripresa rapida e sostenuta. Al contrario, il tasso potenziale di crescita dell’Italia è ormai prossimo allo zero. Con questa realtà dovremmo fare i conti nei prossimi mesi e forse anche nei prossimi anni. Ma proprio questa realtà imporrebbe scelte serie e, in ogni modo, diverse rispetto a quelle, per esempio, introdotte nella manovra Finanziaria lite 2010, ormai prossima ad essere licenziata (quasi sicuramente con l’ennesimo voto di fiducia) dalla Camera dei deputati.

IL LAVORO CHE NON C’È – Secondo una minuziosa analisi dell’economista Antonio Misiani dell’istituto Nens la crisi economica del 2008-2009 sta provocando in tutta Europa un forte deterioramento di tutti gli indicatori occupazionali. L’occupazione è in netto calo, e l’Italia non si discosta da questa tendenza. Per quanto riguarda la posizione nella professione, particolarmente marcata (in Italia più che in Europa) è la riduzione degli occupati indipendenti e dei dipendenti a tempo determinato. Reggono meglio l’impatto della recessione i dipendenti “standard” a tempo indeterminato. La crisi ha investito innanzitutto i settori produttivi maturi, e ciò si è puntualmente riflesso sugli andamenti del mercato del lavoro: il calo degli occupati si è concentrato nell’industria in senso stretto, nelle costruzioni e nel commercio, lasciando (relativamente) indenne il resto dell’economia. Il tasso di disoccupazione ha subito un aumento generalizzato: più accentuato per i maschi, gli stranieri, i giovani ed i lavoratori con istruzione medio-bassa; inferiore alla media per le donne e i lavoratori nazionali. L’Italia ha generalmente registrato dinamiche simili a quelle europee, con alcune significative eccezioni: Innanzitutto le forze di lavoro sono diminuite (occupati più persone in cerca di occupazione). Questa dinamica, territorialmente concentrata nel Mezzogiorno, è evidentemente legata ad un forte effetto di scoraggiamento dell’offerta di lavoro: nei territori (il Sud) e nelle fasce sociali più deboli (le donne, i giovani, i lavoratori meno istruiti) la crisi economica ha indotto molti più all’inattività che alla disoccupazione. Va ricordato come l’Istat considera “in cerca di occupazione” (ovvero disoccupato) chi ha compiuto almeno un’azione attiva di ricerca di lavoro nei trenta giorni precedenti l’intervista. E’ invece classificato come “inattivo” chi non fa parte delle forze di lavoro, ovvero chi non è occupato o in cerca di occupazione. La crescita della disoccupazione è stata (apparentemente) più limitata rispetto all’Europa. Un primo fattore che può spiegare questa dinamica è la diminuzione dell’offerta di lavoro, che non ha riscontro in Europa. Nel nostro Paese, con la crisi, una quota rilevante di lavoratori ha abbandonato la ricerca attiva di occupazione, gonfiando lo stock degli inattivi e non quello dei disoccupati. Senza l’effetto “scoraggiamento” la disoccupazione sarebbe aumentata molto di più. Se, per esempio, nel Sud le forze di lavoro non fossero diminuite, il tasso di disoccupazione sarebbe stato di oltre 4 punti più alto nel Mezzogiorno e di oltre 1 punto nella media nazionale. Il secondo fattore rilevante è l’impennata del ricorso alla Cassa Integrazione Guadagni (CIG), un istituto pressoché assente negli altri Paesi europei. In base ai dati Inps (corretti per tener conto dell’effettivo utilizzo delle ore autorizzate) nel secondo trimestre 2009 la CIG ha interessato 320 mila occupati equivalenti (1,3% delle forze di lavoro), a fronte delle 85 mila dello stesso periodo del 2008 (0,3% delle forze di lavoro). Davanti a queste gelide cifre, dietro cui si nascondono però le storie, le vicende e purtroppo anche i drammi di centinaia di migliaia di persone, è davvero difficile giocare. Noi, almeno, non ce la sentiamo.

http://www.giornalettismo.com/archives/44090/la-crisi-c%e2%80%99e-ma-non-si-%e2%80%9cdeve%e2%80%9d-vedere/

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