- Questi del Dubai
- 08:23 27/11/09
- Questi del Dubai martedì erano sui giornali e in TV a spiegare che non c'era problema e che l'Abu Dhabi che ha il petrolio garantiva per loro
Mercoledì sera annunciano che non pagano e il loro mercato chiude fino a lunedì per cui gli investitori nei loro bonds sono nel panico fino a lunedì e devono compensare la posizione su altri mercati
Lo shock è stato per il mercato che abbiano o mentito in modo sfacciato o che non sappiano più neanche loro cosa fare, cioè il voltafaccia totale in 24 ore che ha creato di colpo la sindrome del "...vatti a fidare di questi mercati emergenti...."
... I cantieri sono fermi, i prezzi delle case sono crollati del 50%. E il Dubai - candidato fino a pochi mesi fa a diventare la Wall Street (o la Disneyland, suggerisce qualcuno) del Medio Oriente - non ha più i soldi per onorare i suoi debiti. A tremare sono in tanti. In prima fila, ovviamente, le banche che hanno finanziato gli 80 miliardi di esposizione dell'emirato. E le aziende, migliaia tra cui molte italiane, che hanno investito sui suoi piani di sviluppo. Il pericolo vero, però, è che lo tsunami-Dubai tracimi verso gli altri paesi del Golfo, facendo scricchiolare le casse di quei fondi sovrani che negli ultimi due anni hanno recitato un ruolo da protagonisti nel salvataggio dell'economia mondiale. Puntellando a suon di petrodollari il capitale di banche e imprese sull'orlo del crac.
Gli analisti, per ora, gettano acqua sul fuoco. Gli Emirati sono realtà differenti tra loro, assicurano. Dubai è una mosca bianca, la sua crisi affonda le radici in un'economia "di carta", povera di greggio (rappresenta solo il 6% del pil) e travolta dal crac di un settore, il mattone, arrivato a rappresentare il 30% della ricchezza nazionale. I vicini, aggiungono, sono messi meglio. Abu Dhabi - nel cui sottosuolo c'è il 9% delle riserve petrolifere globali - è una macchina da soldi. Mentre Qatar e Kuwait non hanno conosciuto gli eccessi finanziari della dinastia degli Al Makhtoum.
Le borse però hanno drizzato le antenne. Le cifre in gioco, in effetti, sono altissime (i fondi sovrani del Golfo gestiscono un patrimonio superiore ai mille miliardi di dollari) e molte blue chip su entrambe le sponde dell'Atlantico sono ancora in vita grazie solo ai capitali degli emiri.
La cassaforte pubblica del Dubai ha in portafoglio il 20% della Borsa di Londra (che controlla anche Borsa Italiana spa), quote di Standard Chartered, Daimler, Eads - la casa madre di Airbus - e persino il 20% del Cirque du Soleil. In Italia gli Al Makhtoum hanno trattato a lungo per rilevare le aree di Zunino a Sesto San Giovanni e Santa Giulia. Il ricchissimo Abu Dhabi investment fund - con la sua potenza di fuoco da 700 miliardi di dollari - ha il 2% di Mediaset ed è stato il protagonista del salvataggio a stelle e strisce di Citigroup. I sovrani del Qatar hanno appena speso 7 miliardi per tenere a galla la Porsche dopo la disavventura della speculazione su Volkswagen e nella loro collezione di trofei finanziari hanno pure partecipazioni significative in Barclays, nella Borsa di Londra e nei grandi magazzini Sainsbury. Il Kuwait investment office ha contribuito a strappare dal crac la Merrill Lynch ed è socio di Bp e Daimler.
Il timore dei mercati - al di là delle conseguenze per le banche esposte con Dubai (Credit Suisse stima in 40 miliardi il rischio di quelle europee) - è che Dubai World sia in realtà solo il primo tassello di un domino di default immobiliari nel Golfo. Standard&Poor's stima che i progetti messi in stand by - opere stravaganti come le piste da sci nel deserto, isole artificiali a forma di planisfero e grattacieli modellati sulle figure degli scacchi o alti un chilometro - siano pari a quasi 500 miliardi di dollari. Una montagna di soldi che rischia di costringere gli emiri - reduci dal salvataggio del capitalismo occidentale - a liquidare le loro posizioni azionarie. Per sa
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