Ma cos'è davvero Goldman Sachs? (versione per stampa)
IL PEGGIO ALLE SPALLE?
Spagna, disoccupazione oltre 20%
Ai massimi dal 1997, in primo trimestre 4,6mln senza lavoro
30 aprile, 14:29Le Carte degli Illuminati
Si parla spesso in rete di un particolare gioco di carte, chiamato “Illuminati Card Game”, che appartiene ad una vasta serie di giochi basati sulle diverse teorie che riguardano gli Illuminati, i poteri occulti e il cosiddetto Nuovo Ordine Mondiale. (*) Ciò che rende questo gioco interessante è la presenza di molte carte che descrivono con anticipo (“Illuminati Card Game” è del 1994) eventi di portata mondiale che sono poi realmente accaduti. Fra questi spiccano soprattutto la distruzione del Pentagono e delle Torri Gemelle, la cui rappresentazione grafica sembra addirittura ricalcata da una fotografia del fatto reale, avvenuto nel 2001. Altre sorprendenti “coincidenze“ sono, ad esempio, la pandemia con tanto di “quarantena", la “manipolazione dei mercati finanziari”, oppure “l’esplosione del vulcano”, che ci ricordano da vicino eventi accaduti di recente.
Ci sono poi immagini più generiche, come la “riduzione della popolazione“, o la “riscrittura della storia“, che corrispondono sicuramente ai sogni più o meno nascosti degli Illuminati del “Nuovo Ordine Mondiale”. Il fatto che questo set di carte sia stato effettivamente pubblicato nel ’94 sembra fuori discussione, in quanto il gioco è talmente diffuso che se certe carte non comparissero nel mazzo originale, ma fossero state aggiunte dopo, qualcuno lo avrebbe sicuramente denunciato. Siamo quindi di fronte ad un curioso minestrone di progetti attribuiti al “Nuovo Ordine Mondiale” - alcuni specifici, altri generici, alcuni realizzati e altri no - che di certo non può essere spiegato con una semplice serie di coincidenze. Fra le varie possibilità, la spiegazione più probabile è che il creatore del gioco, Steve Jackson, abbia ricevuto informazioni riservate da qualcuno che era a conoscenza diretta dei progetti che circolavano nell’ambito del “Nuovo Ordine Mondiale”. E’ possibile che Jackson sia stato usato come “altoparlante inconsapevole“, a cui vengono passate informazioni da diffondere, in modo apparentemente triviale, con l’intento di rafforzare la pubblica percezione del potere degli Illuminati. Oppure potrebbe appartenere lui stesso al NWO, oppure ancora può essere una persona che cerca solo di sfruttare commercialmente certe informazioni di cui in qualche modo è venuto in possesso. In fondo, la Steve Jackson Games dichiara un reddito lordo annuo superiore ai 2 milioni e mezzo di dollari. Il caso di Jackson ricorda da vicino quello di certi libri “fortunati”, come ad esempio “Il Candidato Manciuriano”, che hanno saputo descrivere in anticipo vicende che si sono poi realizzate nella realtà. Vi sono anche autori dotati di intuito particolare, che percepiscono in anticipo certe onde di “sentire collettivo”, come ad esempio “Il Nome della Rosa”, oppure il “Codice da Vinci”, sfruttando al meglio il nascente interesse popolare per certi argomenti “occulti” - o comunque occultati. In certi casi diventa addirittura difficile capire quanta informazione originale esista fra le righe di un libro, e quanta invece sia il riflesso di quel sentire collettivo, introdotto - consciamente o inconsciamente – dallo stesso autore nelle sue pagine. In realtà, a ben guardare, le carte degli Illuminati non rappresentano nulla di stupefacente, se non l’eventuale conferma che ciò che accade nel mondo sia spesso il risultato di una precisa volontà di un ristretto gruppo di persone. Il primo attentato al World Trade Center risale al 1993, indicando che un progetto di un attentato con esplosivi alle Torri Gemelle dovesse essere in circolazione almeno da quella data (che precede l’uscita del gioco di carte). Vi è anche una possibilità più remota, più difficile però da sostentare in modo analitico: che l’autore non riceva affatto informazioni esterne, ma che sia dotato di particolari “poteri di preveggenza“, che gli permetterebbero di visualizzare in anticipo eventi che poi accadono nella realtà. A sua volta, si potrebbe teorizzare che questo tipo di preveggenza consista nella capacità di accedere ad un insieme di archetipi, che esisterebbero fuori della nostra dimensione spazio-temporale, i quali vengono ad assumere le forme specifiche degli eventi che poi accadono nel nostro tempo. In questa ottica si può anche spiegare un fenomeno come quello di Nostradamus, le cui quartine, più che anticipare eventi specifici, sembrano rappresentare archetipi universali, sufficientemente dettagliati però da poterli applicare in seguito a certi fatti realmente avvenuti. Qui però dobbiamo fermarci, perchè stiamo entrando in un territorio assolutamente ipotetico, che non ci permette di utilizzare il metodo analitico, e ci offre risposte che possono avere al massimo un valore individuale. Di certo possiamo affermare una cosa: man mano che procede il cammino dell’umanità, scopriamo che è sempre più grande il numero di cose che non conosciamo rispetto a quelle che conosciamo. E questo è già un notevole passo in avanti, volendo, che ci possa almeno liberare da quell’ignoranza, travestita da falso sapere, che ci offusca costantemente la vista. Massimo Mazzucco * Uso il termine “cosiddetto”, per il Nuovo Ordine Mondiale, perchè personalmente ritengo che non esista un solo gruppo di potere, sic et simpliciter, ma che la questione sia molto più complessa ed intricata. http://www.luogocomune.net/site/modules/news/article.php?storyid=3529Che fine ha fatto la nube vulcanica?
Piloti depressi e in cura potranno volare
Davis Fiore
Tutto ciò nonostante le Black Box (etichette di avvertimento) approvate dall'FDA sul rischio di suicidio nei bambini e negli adulti, oltre a una lunga serie di pericolose reazioni, comprese: aggressione, ostilità, disinibizione, impulsività e manie. Con gli antidepressivi, la guida spericolata è una delle reazioni più comunemente segnalate, dove molte volte l'auto si trasforma in un arma di suicidio. Che cosa potrebbe mai fare un pilota di aereo sotto l'effetto di simili sostanze?
L'FAA dice di non poter stimare il numero di piloti interessati, ma crede che la percentuale di piloti depressi non sia dissimile da quella della popolazione, da loro stimata al 10%.
Fonti:
Il Fantasma di Eyjafjallajökull
Che fine ha fatto la nube vulcanica?
Da qualche settimana assistiamo in TV alle spettacolari ed inquietanti immagini del vulcano islandese, che erutta ancor oggi liberando fin oltre la tropopausa (1) una grossa e minacciosa nube.
Minacciosa, certo. Per la salute degli islandesi e per i motori degli aerei di linea.
Così, pochi giorni dopo l'inizio dell'esplosione,
Eurocontrol, l'ente europeo responsabile del flusso di traffico aereo, emetteva un'informativa SIGMET con tanto di cartografia ove specificava le tre categorie di zone a rischio: no fly (voli proibiti), conditional (voli ammessi a discrezione del comandante), no restriction (voli permessi). E allora uno dopo l'altro ogni paese europeo, Italia inclusa, chiudeva il suo spazio aereo a garanzia della sicurezza.
E allora? Tutto corretto, no?
Andando un pò, soltanto un pò a fondo nella questione ci si accorge che qualcosa, come sempre, non torna.
La polvere vulcanica fonde intorno alle temperature di
Ma ci riferiamo ad una nube che, appena fuoriuscita dall'esplosione, contiene particelle nell'ordine di millimetri cubici, cioè di entità tale da provocare quanto sopra. Queste particelle poi, nella misura in cui le correnti ascensionali non sono più sufficienti a mantenerle in sospensione, ricadono al suolo. Le altre, via via più piccole fin sotto il micron, restano sospese e potrebbero essere trasportate dalle correnti a getto (venti d'alta quota) anche per centinaia di chilometri.
Bene: secondo le carte pubblicate da Eurocontrol, le zone a rischio si estenderebbero dall'Islanda fino alla Russia ma anche dall'Islanda fino all'America Centrale! Capito bene? In altre parole, le correnti a getto, correnti che spirano da Ovest, avrebbero trasportato le nanoparticelle implicate verso Est fino a svariate migliaia di chilometri MA in qualche modo le stesse sarebbero anche state sospinte controcorrente fino al Portorico! Questa "curiosa" teoria non è mai stata verificata né avallata da analisi scientifiche dell'aria, effettuate da alcuno degli stati che avevano chiuso il proprio spazio aereo, e neppure da alcun avvistamento da parte di piloti. Puramente una teoria che, per qualche ragione, è apparsa a tutti ragionevole.
Ma perché soltanto oggi appare tale? Perché per decine d'anni si è volato sull'aeroporto di Catania, con l'Etna attivo e la quotidiana nube traversale alle rotte di volo, soltanto evitandola "a vista" e soltanto di qualche decina di chilometri? Il pilota sa bene che già a tale distanza, ove non è più visibile, la nube si è talmente rarefatta da non rappresentare più un pericolo "tecnico" per l'aeromobile. Semmai le nanoparticelle invisibili potrebbero porre un problema "medico", per la salute di chi all'interno dell'aereo le respira, essendo queste in grado di permeare la membrana cellulare e addirittura interferire col DNA: proprio come quelle emesse dai NON pericolosi inceneritori, no scusate, termovalorizzatori.
Ma questo vale anche e soprattutto di chi, nei pressi del vulcano, ci trascorre l'intera sua vita.
Ed ecco che, qualche giorno fa,
E come
Ma cosa è avvenuto nel frattempo? In una settimana di cancellazioni a tappeto e MILIONI di passeggeri e merci a terra, il mercato globale si è arrestato ed è già a rischio di tracollo: per i pezzi di ricambio non consegnati, l'industria automobilistica BMW è a rischio fallimento, così come lo sono migliaia di altre industrie, oltreché compagnie aeree, Alitalia-CAE in primis.
Cui prodest: a chi giova tutto ciò? Ci sono ancora dubbi?
Ai soliti noti, le eminenze grigie che controllano stati come
Che sia stata un'operazione finanziaria, un'esercitazione militare di portata sovranazionale o una manovra occulta d'altro tipo, è di certo qualcosa che comunque noi popolo non avevamo chiesto, votato o approvato, e di cui senza dubbio abbiamo assistito inermi all'ennesima manipolazione mediatica, nonostante ci sforziamo di sedare l'intima voce dell'intuizione in noi che ci pungola alla diffidenza. Chi può, comprenda. Chi ancora riesce ad avere il tempo e la salute per farlo, discerna ciò che gli viene offerto in pasto dall'establishment mediatico e politico. Se si vuol essere pecore, disinteressandosene, oppure struzzi, tenendo la testa sotto la sabbia e le chiappe esposte perché si è compreso ma non si ha il coraggio di alzare la testa, si prenda coscienza che presto la testa non la si potrà più alzare, poiché se si accetteranno determinate restrizioni prossime venture non si avrà più la possibilità di replica, di dissenso come ancora esiste oggi.
Quel giorno, a causa di tutte le nostre paure avremo ceduto la nostra autonomia, di azione ma anche di pensiero e sentimento: libertà sarà per noi essere finalmente controllati, perciò al sicuro! E senza neppure rendersene conto si avrà già il collare addosso, un chip a radiofrequenze sotto pelle come già oggi hanno cani e qualche star hollywoodiana, collegato al Golem, il messia elettronico, senza il cui marchio "non si potrà nè vendere nè comprare" (l'Apocalisse).
Ed il bello è che saremo stati noi, proprio noi, spaventati, lobotomizzati e malati, ad averlo chiesto!
(1) Tropopausa: è lo strato di atmosfera che separa la troposfera dalla stratosfera, in cui avvengono i fenomeni meteorologici. Si trova ad una quota media di circa 12 km e il suo spessore è variabile.
Dai Cds segnali di allarme sul debito britannico
Gli investitori sono preoccupati. Nuovamente pericoli in arrivo dalla Grecia? No, a guardate i dati relativi ai credit default swap (Cds), le nuove ansie arrivano dal Regno Unito. La quantità di capitali investiti infatti per acquistare tali prodotti derivati - attraverso i quali ci si assicura contro l’eventuale default di un debito sovrano - è schizzata a 443 milioni dollari.
A riferire il dato è la Depository Trust e Clearing Corp., secondo quanto riportato questa mattina dal Wall Street Journal. Qualche motivo di reale preoccupazione c’è del resto, se il totale dei Cds in circolazione raggiunge ormai gli 8,2 miliardi dollari e se George Soros, il miliardario a capo del fondo di investimenti reo di aver messo ko la sterlina britannica negli anni Novanta, ha dichiarato recentemente di aver ragione di credere che il Regno Unito possa trovare una maniera per gestire i propri debiti che non sia entrare nella zona Euro. E non è il solo, Parlamento britannico in testa. L’ammontare dei titoli di “protezione” nel Regno Unito è quasi raddoppiato dall’inizio dell’anno e supera di gran lunga la rincorsa ai Cds avvenuta in Grecia lo scorso autunno. Sebbene questo trend non abbia ancora dato luogo ad alcun crollo dei prezzi, come era invece accaduto in altre recenti situazioni, il comportamento del mercato britannico, in qualche modo, riecheggia quello che ha preceduto altre crisi, quella greca e altre simili.
Tra l’altro, è interessante notare come al contempo l'acquisto di Cds in Portogallo sia aumentato di soli 10 milioni di dollari la settimana scorsa, mentre risulta in calo sia per la Spagna che per l'Italia. E se c’è chi considera questi Paesi come possibili mete di contagio del virus in arrivo da Atene, i dati potrebbero suggerire che anche il Regno Unito sia tra i possibili bersagli.
http://www.valori.it/italian/finanza-globale.php?idnews=2306
Promesse di Presidente.
Ne abbiamo parlato spesso anche noi dei proclami presidenziali americani sulla dipendenza dal petrolio, che paiono susseguirsi sempre uguali anno dopo anno come se nulla fosse.
Business Insider ne ha fatto una presentazione, chiamandola "una patetica storia", e scopro divertita che si risale addiritttura ai tempi di Nixon! Eccoli qua:
- Richard Nixon, 1974. Alla fine di questo decennio, nel 1980, gli Stati Uniti non dipenderanno più da nessun Paese estero per il fabbisogno energetico. Petrolio importato: 36,1%.
- Gerald Ford, 1975. Dobbiamo ridurre le importazioni di petrolio di un milione di barili al giorno entro la fine dell'anno e di due milioni per la fine del 1997. Petrolio importato: 36,1%.
- Jimmy Carter, 1977. A partire da questo momento, la nostra Nazione non userà mai più più petrolio importato di quanto ha fatto nel 1977. Mai più. Petrolio importato: 40,5%.
- Ronald Reagan, 1983. Mentre la conservazione vale la pena di per sé, la migliore risposta è cercare di renderci indipendenti dalle fonti estere al massimo possibile per la nostra energia. Petrolio importato: 43,6%.
- George Bush, 1992. Quando la nostra amministrazione ha sviluppato la strategia energetica, tre punti ci hanno guidato: il primo è ridurre la nostra dipendenza dal petrolio straniero. Petrolio importato: 47,2%.
- Bill Clinton, 1995. La crescente dipendenza del Paese dal petrolio straniero è una minaccia per la nostra sicurezza (...) continueremo ad aumentare gli sforzi per stimolare la produzione nazionale. Petrolio importato: 49,8%.
- George Bush Jr, 2006. La tecnologia ci aiuterà a raggiungere un grande obiettivo: rimpiazzare il 75% delle importazioni petrolifere dal Medio Oriente entro il 2025. Petrolio importato: 65,5%.
- Barack Obama, 2009. Sarà primario nella mia amministrazione ridurre la nostra dipendenza dal petrolio estero costruendo un'economia energetica che offrirà milioni di posti di lavoro. Petrolio importato: 66,2%.
Ancora convinti che "volendo siamo in tempo"?
http://petrolio.blogosfere.it/2010/04/promesse-di-presidente.html
Ma noi ne usciremo meglio di altri – 11
Friday, 30 April, 2010
Pochi numeri, la sintesi di un problema che si aggrava di mese in mese. Come comunica oggi Istat, il numero di occupati a marzo 2010 è pari a 22 milioni 753 mila unità (dati destagionalizzati), in calo dello 0,2 per cento rispetto a febbraio e inferiore dell’1,6 per cento (-367 mila unità) rispetto a marzo 2009. Il tasso di occupazione è pari ad un disastroso 56,7 per cento (inferiore, rispetto a febbraio, di 0,1 punti percentuali e di 1,1 punti percentuali rispetto a marzo dell’anno precedente).
Il numero delle persone in cerca di occupazione risulta pari a 2 milioni 194 mila unità, in crescita del 2,7 per cento (+58 mila unità) rispetto al mese precedente e del 12 per cento (+236 mila unità) rispetto a marzo 2009. Il tasso di disoccupazione si posiziona all’8,8 per cento (+0,2 punti percentuali rispetto al mese precedente e +1 punto percentuale rispetto a marzo 2009), peggior risultato dal secondo trimestre 2002. Il tasso di disoccupazione giovanile è pari al 27,7 per cento, con un calo di 0,4 punti percentuali rispetto al mese precedente ma in aumento di 2,9 punti percentuali rispetto a marzo 2009.
Il numero di inattivi di età compresa tra 15 e 64 anni, è pari a 14 milioni 907 mila unità, con una riduzione dello 0,2 per cento (-24 mila unità) rispetto a febbraio 2010 e un aumento dell’1,6 per cento (+239 mila unità) rispetto a marzo 2009. Il tasso di inattività è pari al 37,8 per cento (-0,1 punti percentuali rispetto al mese precedente ma in aumento di 0,5 punti percentuali rispetto a marzo 2009).
Naturalmente, vi diranno che siamo messi meglio della media europea, che sta al 10 per cento. E non vi diranno nulla riguardo il fatto che abbiamo un tasso di attività che è di nove punti percentuali inferiore alla media Ue, situazione che tende a frenare l’ascesa della disoccupazione. Né vi diranno che abbiamo un ricorso alla cassa integrazione che non accenna a flettere, anzi che la cig sta lentamente trasformandosi in un ammortizzatore “a piè di lista”, gravando sempre più sulla finanza pubblica e riproducendo le condizioni degli anni Settanta, quando imprese decotte restavano in vita.
Né vi diranno che il numero di disoccupati tedeschi, in marzo (per rendere il confronto temporalmente omogeneo) era sceso dall’8,1 all’8 per cento, e che in aprile, dato comunicato ieri, si è ulteriormente contratto al 7,8 per cento. Se pensate che il dato tedesco derivi dal fenomeno dello scoraggiamento, ripensateci: il totale degli occupati tedeschi, a marzo, è cresciuto di 10.000 unità rispetto a febbraio.
Sono molte le cose che non vi diranno. Perché se ve le dicessero, esiste un’elevata probabilità che vi inquietereste.
CRAC GRECIA/ 2. Cosa accadrà se crollano anche Portogallo e Spagna?
venerdì 30 aprile 2010
Tranquilli, l’incendio sta per essere spento! I cervelloni di Bce e Fmi stanno per inviare dei dirigenti in Grecia per studiare la situazione e Barack Obama ha chiamato Angela Merkel convenendo sulla necessità di un’azione veloce ed efficace. Traduzione dal burocratese: alla Bce si sono resi conto che il giochino tedesco sta sfuggendo di mano e cercano una soluzione rapida, la quale sarà sicuramente tardiva e insufficiente.
Due potenziali bancarottieri politici si chiamano per decidere le prossime mosse: non prendiamoci in giro. Le società di rating, in mano alle banche e all’establishment Usa, per due anni non si sono resi conti della crescita esponenziale del debito privato delle banche, la cosiddetta “leva” e ora, invece, sono diventate precisissime e puntualissime nel punire l’eccesso di debito degli Stati.
I quali, è vero, hanno truccato o gonfiato i conti ma non meritano di essere massacrati: vanno messi in riga, questo sì ma non per far fare soldi a chi sta scommettendo allo scoperto sul crollo e sulle oscillazioni delle piazze finanziarie. Appare infatti un po’ poco credibile che il declassamento del rating sul debito spagnolo effettuato l’altro giorno da S&P sia arrivato a mezz’ora dalla chiusura dell’indice Ibex, crollato poi del 3%.
Stanno volontariamente utilizzando la crisi per rifarsi dell’esposizione greca: le banche, i soggetti istituzionali, in questi giorni si stanno comportando in maniera alle soglie della delinquenzialità. Fanno pagare ai contribuenti, attraverso i salvataggi di Fmi e Ue, la contabilità allegra di Grecia, Spagna e altri e nel frattempo fanno incetta di cds e utilizzano le società di rating, che controllano, per muovere i corsi azionari in modo a loro favorevole.
Non fatevi ingannare dai titoli degli istituti che crollano: le banche, ormai, fanno solo investment banking e quindi hanno un portafoglio di investimenti da portare avanti, i loro bilanci se li fanno mettere a posto dagli Stati - vedi la Germania - e poi fanno profitti sul mercato drogato del debito e delle certificazioni ad personam delle società di rating.
La Grecia, infatti, è di fatto già insolvente e una ristrutturazione del debito, seria, sarà presto necessaria: un default porterebbe con sé, infatti, un duplice effetto. Perdite pesantissime per le istituzioni finanziarie che detengono titoli di debito greco e rischio di contagio, di fatto già partito, verso Portogallo, Spagna, Irlanda e in ultima istanza, Italia in un perverso effetto domino.
Il problema sostanziale è che un peggioramento del debito e quindi un’ulteriore avversione dei mercati porterà con sé, inevitabilmente, il crollo del valore degli assets a livello globale: fatto, questo, che potrebbe contemplare un calo della crescita, almeno negli Stati Uniti, attorno al 2% in base a calcoli compiuti da Nouriel Roubini. La Grecia, nei fatti, è oggettivamente la punta dell’iceberg, però i crolli generalizzati poco si accoppiano con la sostanziale tenuta dell’euro sul mercato dei cambi: c’è qualcosa di strutturale ed eterodiretto in quanto sta accadendo, in molti stanno beneficiando del cosiddetto incendio in atto e le sole parole di Olli Rehn, Commissario agli affari economici e monetari dell’Ue, non possono essere sufficienti a spiegare questa discrasia in atto. D’altronde se il destino della Grecia dipendesse dalle banche europee, sarebbero guai seri. Mentre i governi cercano l’accordo su come salvare il salvabile, gli istituti di credito la loro decisione strategica l’hanno infatti già presa: fuggire da Atene. A gambe levate. Stando ai dati della Banca internazionale dei regolamenti, negli ultimi tre mesi del 2009 le banche europee hanno infatti mediamente ridotto l’esposizione sulla Grecia del 29%: dopo lo scoppio in ottobre della crisi, hanno “scaricato” sul mercato 79 miliardi di dollari di debiti targati Atene. Insomma, le banche sapevano o almeno avevano intuito il rischio, i capoccioni di Bce e Ue no: confortante essere governati da gente del genere. Questo cosa comporta? Questa fuga ha causato l’impennata dei rendimenti su livelli insostenibili, tanto che ora la Grecia non riesce più a rifinanziare (dunque a rimborsare) i suoi debiti. Fin che questo resta un problema greco non succede nulla, almeno a livello di contagio ma se la stessa fuga contagiasse altri Paesi come Portogallo e Spagna sarebbe un gran brutto segnale. E sta accadendo, almeno a giudicare dall’impennata dei rendimenti: la fuga da Madrid e Lisbona è già in atto. Anche perché da quando la Bce ha ridotto le sue operazioni di rifinanziamento, le speculazioni con i titoli di Stato (il cosiddetto carry trade) sono diventate meno convenienti. Ecco, allora, il perché del forte di rischio di contagio: quest’anno gli Stati dovranno emettere tantissimi titoli di Stato, visto che Deutsche Bank stima che il fabbisogno di liquidità di Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia e Spagna sfiori, nell’intero 2010, i 900 miliardi di dollari. Riusciranno a ottenerlo? È questa, oggi, la domanda da porsi. E il grande rischio che ci sta di fronte. La Borsa di Atene, ieri, è schizzata al +8% dopo il formale ok di Berlino al salvataggio: follia. La stessa che pervade da due anni almeno le azioni di soggetti istituzionali e regolatori, altro che speculazione ed hedge funds, le vere locuste sono le stesse persone che millantano di cercare soluzioni ai presunti danni del libero mercato. P.S. Le banche spagnole e italiane sono quelle maggiormente esposte verso la cosiddetta “Europa periferica”, mentre la maggiore esposizione delle banche francesi a livello periferico è proprio verso l’Italia: basta un singolo cortocircuito bancario, un errore di intervento e saranno guai davvero, ma davvero seri. L’ultimo outlook di Citi sul debito sovrano, in tal senso, è agghiacciante.
Spingendo il dissesto più in là
Uno degli effetti dell’acuirsi della crisi greca, ma anche della sua pretesa “soluzione”, è stato l’aumento del rischio di credito sugli emittenti finanziari europei, così come evidenziato dall’indice iTraxx Senior Financials. Il motivo è facilmente intuibile: i mercati stanno diventando nervosi riguardo la crescente dipendenza del merito di credito delle banche dai salvataggi pubblici, e si interrogano su quanto ancora questa situazione potrà durare e, soprattutto, che accadrà agli stessi rating sovrani, sempre più fragili.
Nell’ultimo biennio, i governi hanno trasferito il rischio di insolvenza dal bilancio delle banche a quelli pubblici, attraverso garanzie dirette ed indirette. Ma oggi i bilanci pubblici sono stremati e sempre più sotto la lente delle agenzie di rating. La situazione complessivamente più fragile è quella europea, con un sistema bancario sottocapitalizzato e scarsissima trasparenza, soprattutto riguardo la reale consistenza dei veicoli fuori bilancio nelle banche (tedesche e non solo).
Le quali banche europee hanno un calendario di rinnovo del debito per il 2010 particolarmente impegnativo, prossimo all’equivalente di 800 miliardi di dollari. Negli Stati Uniti il salvataggio del sistema bancario, attuato col famigerato TARP, si è basato (e si basa) sulla creazione di una curva dei rendimenti molto ripida, con il costo del funding per le banche prossimo allo zero, grazie alla Fed. In questo modo, in un arco di tempo sufficientemente ampio, le banche riescono a trarsi d’impaccio. In Europa, ammesso e non concesso che il “salvataggio” greco possa rappresentare l’inizio del nostro TARP, le banche spagnole e portoghesi si trovano tagliate fuori dal mercato interbancario, mentre le stesse banche tedesche e francesi stanno sperimentando un aumento dei costi di finanziamento all’ingrosso.
Ancora una volta, spetterà alla Banca Centrale Europea puntellare il sistema, con le aste di rifinanziamento a tasso fisso e pié di lista. Ma questa dinamica rappresenta di fatto una monetizzazione dei deficit pubblici. Le banche sottoscrivono i titoli di debito pubblico e li finanziano all’1 per cento presso la Bce, dandoli in garanzia. Una perfetta macchina da soldi, per le banche. Almeno fino al giorno in cui i mercati diranno basta. E quel giorno potrebbe essere più vicino di quanto si pensi.
http://www.chicago-blog.it/2010/04/30/spingendo-il-dissesto-piu-in-la/
ECCO PERCHÉ FINGERE DI ESSERE OTTIMISTI È IL MODO PEGGIORE DI AFFRONTARE I PROBLEMI
Uno scenario esplosivo, da buona notte a tutti
Prima un antipasto, questo bel Martin Feldstein che Dio ce lo preservi alungo, in cui aritmetica alla mano spiega come e qualmente la Grecia ormai non ce la può fare, e andrà comunque al default dopo aver aspettato tanto. Ma dopo che vi siete appena appena amareggiati il palato, fatevi andare tutta la cena per traverso con queste 65 pagine di spietato realismo. Ve le raccomando davvero. L’autore è William Buiter, ex professore alla LSE, poi al Financial Times e da gennaio 2010 capoeconomista a Citi. E’ la più completa, analitica e documentata analisi comparata e complessiva della situazione di finanza pubblica mondiale che abbia letto recentemente. Se i politici italiani frequentassero consimili letture, avrebbero un dato di cui menar vanto e 65 pagine di cui spaventarsi. Il dato è quello della figura 7 a pagina 16: che ci crediate o no, per dare stabilità alla sua finanza pubblica l’Italia deve correggere il suo deficit tendenziale con misure strutturali non superiori a 4 punti di Pil tra 2010 e 2020 per giungere al 60% di debito pubblico al 2030, cioè meno della metà di quanto ormai serva alla media dei Paesi Ocse. Ma la notizia è che Stati Uniti, Regno Unito e Giappone hanno tutti bisogno di aggiustanmenti strutturali superiori al 10% di Pil, cioè – sì, avete capito bene – maggiori di quelli che servano alla Grecia per evitare il default. Buiter stima che sia la peggior situazione che si sia mai vista, dal punto di vista delle finanze pubbliche mondiali. Ritiene che la risposta di un massiccio way out inflazionistico sia improbabile, per quanto la FED sia attualmente tra le grandi banche centrali quella più dipendente dal governo e dalla politica. E ne conclude che l’unica soluzione sia quella del panico fiscale, con massicci aumenti di imposte e minori spese che deprimeranno sicuramente per un biennio ma perfino a un un quinquennio a venire ogni prospettiva di sostenuta crescita dei Paesi avanzati. Di qui il terrore che deve venirci comunque, come italiani: perché da Paesi Ocse in brusca correzione e bassa domanda per ragioni fiscali, il nostro export avrà di che piangere e la nostra crescita si appiattirebbe ulteriormente. Serissimo il capitolo sulla Grecia, e sul nuovo patto di stabilità europeo – un Fondo monetario europeo più meccanismi di default-a tempo dichiarati ex ante per le istituzioni finanziarie in difficoltà – di cui c’è bisogno nella crisi attuale. Altro che fine della crisi.
http://www.chicago-blog.it/2010/04/29/uno-scenario-esplosivo-da-buona-notte-a-tutti/
L'innesco di una crisi sistemica
Con il precipitare della crisi greca si confermano le analisi di chi non era compromesso con la propaganda o con i pii desideri. La crisi si colloca nel solco di una crisi molto più vasta, una crisi sistemica. Si poteva comprendere da subito. Chi ha causato la crisi, ossia il sistema bancario ombra, punta ancora ai soliti suoi superprofitti,
soverchiando i poteri collocati più alla luce del sole.
I giganti della speculazione di Wall Street sanno che il dollaro, l’architrave della finanza mondiale, dovrà cedere, perché allo stato è impossibile rifinanziare la valanga di titoli del debito pubblico statunitense che verrà a scadere fra pochi mesi. Perciò va fatta crollare l’alternativa monetaria disponibile, l’euro, e creare un bisogno forzoso ed estremo di dollari.
Nel frattempo, con i meccanismi delle "profezie che si autoadempiono", da loro dominati attraverso spaventose entità criminali (le agenzie di rating), gli speculatori decidono i tempi e i modi dei crolli, su cui hanno scommesso montagne di soldi con la certezza – a breve – di vincere.
Lo schema somiglia al crollo del 2008-2009. Allora affossavano le banche, che sapevano gravate di scommesse impossibili su debitori insolventi. Ora affossano gli stati sovrani, che sanno esposti verso trucchi creati dagli stessi speculatori e verso piramidi di debiti fuori controllo. Ecco Standard & Poor's , Moody's e Fitch a decidere ancora quando un titolo deve andare all’inferno.
Se ne fregano di avere una pessima reputazione e di non essere attendibili agli occhi di chi usa la ragione per valutare la loro “oggettività” nelle valutazioni. I meccanismi legali sono inesorabilmente dalla loro parte. La Banca Centrale europea non può acquistare i bond spagnoli o greci se il loro rating non raggiunge una certa soglia. Così, chi decide il rating può decidere quando e come far cadere i pezzi di un sistema. Stati interi.
E questo gioco da padroni dell’universo è condotto dagli speculatori non solo a dispetto di ciò che abbiamo chiamato reputazione, ma perfino nonostante le inchieste del Congresso, della Sec e della Fed. Così, per capire quali sono i veri “poteri forti”.
L’annuncio delle facce di bronzo di Goldman Sachs e JP Morgan Chase è che non si parla più di 45 miliardi di euro per salvare Atene, ma di almeno 600 miliardi di euro per salvare il “Club Med” dell’euro. Una cifra superiore a quanto dissanguò le casse Usa per impedire il collasso totale nel 2008, quando i contribuenti furono salassati per 700 miliardi di dollari, una parte dei quali allegramente finiti nei bonus dei “Masters of Universe”.
Con l’uso di titoli derivati "credit default swaps" (Cds), la speculazione anziché assicurarsi contro la bancarotta (problema di medio termine), vi ci punta direttamente per guadagnarci subito, creando contagio finanziario, di cui non avverte la minima responsabilità. Nella sua ottica, questi al momento saranno problemi insolubili delle banche europee.
Lo ricorda Federico Rampini su «la Repubblica» del 29 aprile 2010: «Un'inchiesta del Department of Justice accusa i più importanti hedge fund (Soros, Paulson, Grenlight, Sac capital) di aver concordato un attacco simultaneo all'euro, in una cena segreta l'8 febbraio a Wall Street. Il giorno dopo, 9 febbraio, al Chicago Mercantile Exchange i contratti futures che scommettevano su un tracollo dell'euro erano schizzati oltre 54.000, un record storico. Con Goldman Sachs e Barclays in buona vista nelle cronache su quelle grandi manovre.»
La grande finanza anglosassone sta decidendo che gli europei saranno divisi in nordici e sudici. Noi sudici a ciucciarci il default, da subito.
In realtà anche la Gran Bretagna è seduta su una voragine di debiti e bugie contabili, che si rinvia il più possibile, almeno a dopo le elezioni politiche.
E sullo sfondo, irrisolvibile con gli strumenti ordinari, c’è il nodo più grosso, gli USA.
Tanti Stati, non solo i PIGS mediterranei, per coprire i debiti e le scadenze, avranno scelte estremamente costose da fare: aumentare le imposte, scatenare l’inflazione per ridurre il peso del debito, altrimenti fare bancarotta. Quel che è peggio, queste situazioni possono addirittura arrivare in contemporanea, anche negli Stati Uniti.
La politica sarà investita naturalmente da tensioni e novità di enorme portata, che spazzeranno via interi sistemi.
Tante altre notizie su www.ariannaeditrice.itStati in fallimento e dubbi atroci.
Pubblicato da Debora Billi alle 11:30 in Finanza
Io avevo già da un po' questo dubbio, ma mi ero astenuta dall'esternarlo. In fin dei conti di finanza capisco meno di zero, l'addetto qui è Pietro, e quindi i miei pensieri sull'argomento mi tocca tenerli ben nascosti per evitare storiche figuracce.
Poi ho letto l'ultimo post di Uriel, e ho trovato conferma ai miei sospetti. So perfettamente che Uriel non è la voce della verità e molti di voi lo vedono come il fumo agli occhi, ma leggere nero su bianco ad opera di uno che si intende di finanza quello che segretamente rimuginavo, un po' mi ha colpito.
Così, ecco qua:
La mappa del rischio internazionale, di fatto, segue piu' la mappa degli indebitamenti dei privati che quello degli indebitamenti pubblici.
Inoltre, segue dei trend che rispecchiano anche dei razzismi: il Belgio e' messo come il porco a Natale sul piano economico, finanziario e adesso anche politico. IL suo debito pubblico e' altissimo e l'indebitamento anche. Non si vede per quale motivo dovrebbe essere in condizioni migliori di un' Irlanda o di un Portogallo, se non per il fatto che sono piu' ariani e piu' vicini al centro dell' UE. Di fatto, il razzismo di fondo sollevato dalla crisi dei PIIGS e' quello di paesi mediterranei o culturalmente in opposizione al mondo protestante (ovvero paesi mediterranei o cattolici): la geografia del rischio e' molto diversa.
Era proprio quello che mi chiedevo anch'io. Da tutte le parti si elencano le varie tragiche situazioni di Paesi come l'Inghilterra (che sta come l'agnello a Pasqua), gli Stati Uniti (il Paese più indebitato del mondo, che stampa dollari notte e giorno), e vari altri Paesi europei. Eppure, guarda caso, i PIIGS siamo noi. E non osiamo neppure metterlo in dubbio, dato che ogni giorno constatiamo la corruzione dei nostri governanti e ci viene ricordato il debito fin da quando siamo nella culla. Non sappiamo nulla degli altri, e li presumiamo sicuramente più virtuosi: quando la mazzata arriverà, saremo convinti di essercela meritata.
Ieri sera un amico mi ricordava come si vive(va) bene in Grecia. Se ci siete stati, avrete avuto anche voi l'impressione di gente libera, spensierata, cortese, semplice, molto diversa insomma dalla volgarità, dalla prepotenza e dall'arrivismo imperanti qui da noi. Sui forum americani, invece, i greci vengono dipinti come un popolo di anarchici rivoltosi e comunisti a cui ben gli sta una lezione. Una lezione: forse chi è nel mirino sono i Paesi che hanno bisogno, per un verso o un altro, di una lezione.
Oppure quelli privi di atomiche e cacciabombardieri.
Che ne pensate?
http://crisis.blogosfere.it/2010/04/stati-in-fallimento-e-dubbi-atroci.html
BERNASCONI
Mentre la maggior parte dei piccoli cigni non osano abbandonare la madre, c'é un ribelle che preferisce l'indipendenza. Gli altri osservano perplessi. Mentre la massa degli investitori é felicemente riunita sul carrozzone del rialzo si notano i primi abbandoni. Vedremo chi ha ragione nel prossimo futuro.
Ieri le borse europee sono oscillate senza costrutto seguendo gli impulsi forniti dall' America e dai dati economici. Hanno terminato la seduta in guadagno anche se le plusvalenze sono state al di sotto delle aspettative. A Wall Street é successo poco. L'S&P500 ha guadagnato un punto muovendosi in un range ristretto di 5 punti. Forti invece trasporti e tecnologia. La nostra opinione tecnica é invariata: "È evidente che, malgrado la situazione di ipercomperato e la scarsa partecipazione, gli indici azionari non vogliono più correggere. È questo un segno evidente che ci avviciniamo alla fine del lungo rialzo iniziato il 6 marzo dell'anno scorso. I mercati sono ormai arrivati alla fase esaustiva di questo movimento. Non ci saranno più correzioni né ritracciamenti superiori ai tre giorni fino al raggiungimento di un massimo definitivo." Per quel che riguarda gli obiettivi vi abbiamo dato questa indicazione: "Sembra che il top non sia imminente. Prepariamoci quindi ad un'ulteriore salita dell'S&P500. Abbiamo definito un range tra i 1200 ed i 1270 punti per il massimo definitivo di questo lungo rialzo." Stamattina le borse asiatiche sono a sorpresa deboli. I futures americani scendono del -0.5% e anche l'apertura in Europa sarà in calo. Oggi scadono le opzioni di aprile. In teoria non dovrebbe succedere molto ma proprio per questo potrebbe essere il momento ideale per un forte movimento. Il cambio EUR/USD stamattina é sceso a 1.3545. Il cambio potrebbe nelle prossime settimane risalire fino a 1.38 prima che il ribasso riprenda in direzione 1.30. L'oro é stabile a 1154 USD/oncia e resta sotto la resistenza a 1160 USD. Prossimamente dovrebbe seguire un tentativo verso l'alto. La rottura di questa resistenza segnerà l'inizio di una nuova gamba di rialzo a medio termine con obiettivo 1220 USD.
Leggete il nostro avviso o visitate il nuovo sito !!!
Passiamo ora ad esaminare la situazione (charts a sei mesi) dell'S&P500.
L'S&P500 (+0.08% a 1211 punti) non si é mosso. La fase esaustiva del rialzo segue le nostre previsioni: "Durante il fine settimana abbiamo precisato il nostro scenario per la fase finale di questo lungo rialzo dal minimo del marzo 2009. Abbiamo fissato un range 1200-1270 punti nel quale il rialzo si esaurirà senza più correggere."
Scenario 2010 (aggiornato a marzo 2010) Nel corso del 2010 ed al termine di alcuni mesi di distribuzione prevediamo una sostanziale correzione delle borse dopo il rally di marzo 2009 - gennaio 2010. Probabilmento l'S&P500 toccherà nel corso di quest'anno un minimo tra i 740 ed i 820 punti. La performance annuale dovrebbe essere negativa e l'S&P500 dovrebbe terminare il 2010 intorno ai 900 punti. Ora che la recessione sembra alle nostre spalle, le stime ufficiali per per gli utili operativi 2009 (al 3 novembre 2009) delle societâ dell'S&P500 sono risalite a 56.22 USD. Quelle per il 2010 sono addirittura al'incredibile livello di 74.99 USD. Capitalizzando gli utili 2009 con un P/E normale di 15/16 si arriva ad un valore teorico dell'S&P500 di 900 punti. In questi dati é però scontato un recupero marcato dell'economia ed un forte aumento degli utili delle imprese. Ricordiamoci che gli utili operativi 2008 delle società dell'S&P500 sono stati di 15.09 USD. Debitiamo inoltre che i dati relativi al 2010 siano realistici. In America si differenzia tra Operating Earnings (i guadagni ripuliti da tutti quelli che il Management definisce perdite o guadagni straordinari) e i Reported Earnings (che sono i soldi guadagnati o persi dalla società indipendentemente dalla loro provenienza o causa). Fino all'inizio del 2000 tra questi due valori le differenze erano trascurabili. Poi é arrivata la moda di definire tutte le grandi perdite come eventi straordinari che non vengono più attribuiti alla normale attività della società. Il risultato é una sovrastima sistematica dei guadagni. Una prova? Le stime ufficiali per i Reported Earnings 2010 per l'S&P500 sono a 45.50 USD (contro i 74.99 USD di Operating Earnings). La capacità delle società di generare profitti viene sistematicamente gonfiata. Se un giorno gli investitori aprissero gli occhi si renderebbero conto che una oggettiva valutazione dell'S&P500 con i tassi d'interesse sul USTB a 10 anni al 3.70% (stato ad inizio marzo 2010) é sui 790 punti (nostro calcolo). Immaginatevi cosa potrebbe succedere se i tassi d'interesse aumentassero! Ammettiamo che stimare ora correttamente gli utili delle società e determinare un giusto rapporto P/E per capitalizzare questo valore é un'impresa ardua. Troppe sono le variabili e le incognite. La nostra valutazione tecnica e fondamentale é però che i 1150 punti di S&P500 raggiunti a gennaio 2010 corrispondono ad una sopravalutazione. La prossima dovuta sostanziale correzione ci dirà a quale punto si trova la congiuntura mondiale.
Richiedete informazioni a analisi_tecnica@longshortinvest.com Non rispondiamo a mails anonime.
Bernasconi Consult, gestione patrimoniale e consulenza finanziaria Rütistrasse 13, CH-8702 Zollikon Tel. +41 43 499 63 84 EMail: bernasconi@longshortinvest.comFINANZA/ La Germania sogna un nuovo euro senza l’Italia
venerdì 16 aprile 2010
Fortuna che Ue e Fmi avevano salvato la Grecia e i suoi conti pubblici da incubo! Ieri è infatti schizzato di nuovo verso l’alto il differenziale fra il rendimento dei titoli di stato tedeschi e quelli greci: lo spread è arrivato a 426 punti base, il valore più alto da una settimana, dopo che l’altro giorno era risalito oltre i 400 punti a 406 punti base.
Per quanto le autorità europee professino ottimismo, i mercati hanno tutt’altra idea rispetto a quanto sta accadendo. E ne hanno ben donde. Basta rileggere alla luce di quanto sta accadendo le parole di George Soros, durante una lecture tenuta a Londra alcuni giorni fa: «I tedeschi hanno sempre fatto le concessioni necessarie per far avanzare il progetto europeista. Ora non è più così, ecco perché l’Ue è in uno stato di stallo».
Già, nonostante “frau nein” Angela Merkel abbia abbassato i toni rispetto al salvataggio della Grecia, l’assegno tedesco deve essere ancora non solo staccato ma anche firmato: da Francoforte sono arrivate secche smentite alle voci che volevano il piano di salvataggio addirittura da 90 miliardi di euro - la Grecia deve rifinanziarne 110, 50 dei quali entro la fine dell’anno - e la Bundesbank manda segnali inequivocabili rispetto a quanto sta accadendo. Ovvero, di deciso c’è poco. Pochissimo.
Ovviamente è interesse di tutti in Europa evitare un default controllato della Grecia, di tutti tranne che della Grecia stessa. La quale, infatti, avrebbe tutto da guadagnare da una procedura di ristrutturazione del debito in stile uruguayano gestita unicamente dal Fmi: certo, al Fondo chiedono sacrifici in cambio dei soldi, ma Atene non è destinata ad anni di vacche magre anche dal piano europeo? Il quale, tra parentesi, espone il mercato a enormi sbalzi di umore: le montagne russe dello spread greco rispetto ai bund parlano infatti questa lingua. Anche perché la ricetta europea non fa che eliminare i problemi di liquidità nel breve termine, ma i rischi di insolvenza sul medio-lungo termine restano tutti quanti sul tappeto.
A Morgan Stanley stanno monitorando la situazione e il loro ultimo report dice chiaramente una cosa: «Questi problemi di insolvenza, generalizzati, potrebbero portare a una frantumazione dell’area euro e alla fine dell’unione monetaria». Ciò che vuole, sempre più chiaramente la Germania, nostalgica come non mai del suo marco e del ruolo guida del continente senza la noia di partner arretrati e indebitati come i Pigs o l’Irlanda. L’euro, signori, finirà entro il 2012, ma la sua crisi sistemica comincerà quest’anno con l’abbandono della moneta unica da parte di uno Stato membro. È scritto, i tedeschi ci stanno lavorando dal 2006 almeno e la crisi economica innescata due anni fa dal crollo di Lehman Brothers sta facendo il loro gioco. Giova ricordare infatti, qualche particolare. Se l’America ha creato le condizioni perché la crisi finanziaria la travolgesse, l’Europa cosa ha fatto negli ultimi anni per prevenire quanto sta accadendo nel suo sistema bancario? Nulla nonostante nel corso del vertice informale tenutosi in Lussemburgo il 14 maggio del 2005 venne trovato un accordo a maggioranza su un unico punto: un memorandum d’intesa per la creazione di un piano di emergenza consistente nello scambio aperto e rapido di informazioni internazionali tra i membri su eventuali crisi in atto al fine di evitare la loro espansione al continente in una sorta di effetto domino, per fronteggiare un’ipotetica crisi finanziaria a livello europeo. Il documento, facilmente reperibile sui siti istituzionali dell’Ue, si intitolava “Memorandum d’intesa sulla cooperazione tra supervisori bancari, banche centrali e ministri delle Finanze dell’Unione Europea su situazioni di crisi finanziaria” e si basava su otto punti, sostanzialmente una riedizione rafforzata del precedente memorandum varato nel 2003. Nonostante si sottolineasse che questo atto non appariva vincolante per l’autonomia di intervento dei vari paesi in caso di crisi, lo scopo dell’operazione era chiaro. Ovvero, il sistema è ormai globale e nessuno di noi è un’isola. Questo nel maggio 2005. All’epoca la notizia non suscitò particolare scalpore, anche se alcuni ambienti londinesi non presero particolarmente bene la excusatio non petita del presidente della Bce, Jean-Claude Trichet, affannatosi a tranquillizzare i cronisti sul fatto che l’accordo non significasse «la presenza concreta di minacce reali in tal senso a medio termine». Bluffava o lo pensava davvero? In compenso, però, emerse che quella riunione decise che l’aprile dell’anno successivo si tenesse una simulazione di collasso bancario continentale sotto l’egida del Financial Services Committee a Francoforte. In sede Ecofin, insomma, si stava valutando l’ipotesi di una crisi finanziaria a livello europeo sul modello di quella che squassò l’Asia nel 1997-98 o di quella più limitata che nel 1992-94 toccò le regioni scandinave. A rendere il tutto ancora più credibile - lasciando in bocca un sapore di incombenza che le autorità invece negavano, Trichet in testa - fu poi la dinamica scelta per il piano di simulazione della crisi: stando agli studi dell’epoca, infatti, sarebbe stato il collasso di una grande banca operante a livello continentale a far scatenare l’effetto domino generale. All’epoca in sede comunitaria si parlava, riferendosi all’accordo, di nulla più che di un’estensione dell’intesa già esistente tra banche centrali e regolatori (quello del 2003 citato in precedenza), sfuggì però ai più che questa “estensione” vedeva coinvolti anche i ministri delle Finanze dei 25. Sempre in seno a questa operazione gestita dall’Ecofin fu bocciata a larga maggioranza la proposta di creare un super-comitato centrale - con sede a Bruxelles - che monitorasse tutti i possibili scenari di crisi interni all’eurozona. «I comitati non risolvono le crisi», fu il giudizio senza appello del capo del comitato per i servizi finanziari dell’Unione, l’olandese Kees Van Dijkhuizen. Il quale, interpellato dal Financial Times dopo il vertice del 14 maggio del 2005, disse: «Speriamo di occupare il nostro tempo con questioni che non ci vedranno mai diretti protagonisti, ma visto quanto accaduto in Asia e in altre parti del mondo non possiamo dire con certezza che questo non succederà mai da noi». E come andò quella simulazione? Il 9 settembre a Helsinki si tenne una nuova riunione dell’Ecofin tesa proprio a valutare i risultati ottenuti: nessun giornale sembrò dare troppa importanza alle parole del presidente finlandese, Tarja Halonen, il quale disse in maniera molto diplomatica che il sistema Ue di vigilanza e intervento era assolutamente inadeguato. Il 12 settembre, tre giorni dopo, un solo giornale, European Report, sottolineava la pesantezza della situazione con un articolo dal titolo “L’Europa si scopre impreparata a gestire una crisi finanziaria”. Da allora, cosa è accaduto? Alla riunione dell’Ecofin del 9 ottobre 2007, a scandalo Northern Rock già scoppiato, si discuteva di eccessive procedure sul deficit di Gran Bretagna e Repubblica Ceca, mentre il 23 gennaio di quest’anno, a crisi ormai esplosa, in Slovenia si tornava a parlare di necessità di rafforzare la cooperazione sulla supervisione. Parole. Solo parole. Come quelle, profeticamente scritte da Deutsche Bank in un outlook per gli azionisti istituzionali pubblicato più o meno nello stesso periodo, ovvero la primavera 2005: nel 2010 uno stato europeo abbandonerà l’euro dando vita a una crisi sistemica. Purtroppo, qualcuno aveva già capito tutto e stava preparando il terreno. Le parole di George Soros, giunte proprio in questi giorni, devono essere un campanello d’allarme: uno tra Grecia e Spagna, entro quest’anno, sarà costretto ad accettare le non vincolanti condizioni che la Germania voleva porre a corredo del piano di salvataggio di Atene, ovvero fuori dall’euro chi trucca i conti o non li tiene in ordine a livello di disciplina fiscale. Manca poco e l’atteggiamento della Bundesbank ci fa capire che ormai siamo allo showdown: il piano per salvare la Grecia, semplicemente, non serve a nulla se non a costringere Atene a dirci addio e chiedere protezione al Fmi. La fine del sogno monetario europeista è ormai all’orizzonte, cosa ci aspetterà dopo e davvero difficile dirlo. Per Morgan Stanley, «quello greco è un pessimo precedente per tutti gli altri paesi membri. Un precedente che potrebbe trasformare l’area euro in una zona di alta pressione inflazionistica e debolezza monetaria. Nazioni con una forte stabilità come la Germania potrebbero decidere che per loro sarebbe meglio un unione monetaria più piccola ma più rigida: ma visto che il Trattato di Maastricht non permette l’espulsione di nazioni dall’area euro, la Germania potrebbe optare per un’altra scelta. Ovvero, abbandonare essa stessa l’area euro per creare una voluta più forte». L’eventuale richiesta di opt-out greco o spagnolo, bocciata in sede comunitaria, sarebbe di fatto solo l’alibi per Berlino per andarsene: lo pensano a Morgan Stanley. Meglio dargli retta seriamente questa volta. La danza di spread e cds sul sovereign debt di questi giorni non rappresenta nulla di positivo, infatti. http://www.ilsussidiario.net/News/Economia-e-Finanza/2010/4/16/FINANZA-La-Germania-sogna-un-nuovo-euro-senza-l-Italia/3/79913/