Il pensiero economico, fin dalle origini, ha spiegato lo scambio ricorrendo a parametri soggettivi - come il concetto di utilità, che è legato alla percezione reale o soltanto illusoria di un bisogno - oppure oggettivi - come la valorizzazione del lavoro socialmente necessario a produrre una certa merce. Il secondo approccio, tipico della scienza marxista, spiega non soltanto la sostanza dello scambio tra produttori all’interno del sistema, ma offre un fondamento teorico anche all’analisi dell’interscambio, cioè allo scambio tra sistemi. Infatti, partendo col distinguere tra prezzo e valore della merce, dimostra come la concorrenza e la ricerca del profitto, attraverso l’innovazione tecnologica e l’estensione della capacità produttiva, conducano all’apertura al resto del mondo.
Basandosi sulla teoria del valore lavoro, Karl Marx (1867) introduce, in primo luogo, il concetto di merce, che identifica ogni bene economico nella misura in cui viene prodotto non per uso personale ma per essere appunto scambiato con denaro o con altre merci. In secondo luogo, distingue tra prezzo e valore e della merce. Il prezzo si forma sul mercato, prevalentemente in base alla domanda e all’offerta. Sappiamo infatti che incidono anche altri fattori, talvolta complessi, come la speculazione legata a particolari eventi (es. guerra, catastrofi) o fasi della congiuntura (es. aspettative di rialzo o ribasso). Esistono inoltre forme diverse di concentrazione tra imprese che impongono un certo prezzo a prodotti e fattori produttivi. Considerata la varietà delle forme di scambio e l’eterogeneità dei fattori che influenzano il prezzo, Marx identifica un valore al di sotto del quale il prezzo di una merce non può scendere, cioè il tempo di lavoro necessario a produrla secondo la tecnologie esistenti e diffuse nella società in una determinata epoca. Secondo questo approccio lo scambio riguarda non i beni ma il lavoro necessario a produrli. Appare equo nella misura in cui i due produttori abbiano impiegato lo stesso tempo a produrre le merci. Ne risulta penalizzato il produttore che impiega più tempo, cioè quello tecnologicamente più arretrato o meno produttivo. Di conseguenza, laddove il conflitto competitivo comprime i prezzi, la ricerca di un maggiore profitto può essere perseguita in due modi. Poiché il sistema capitalista mercifica anche la capacità di svolgere ogni attività manuale o intellettuale, è possibile ridurre il costo della merce lavoro fino al suo valore limite, che è il tempo socialmente necessario a produrre i beni necessari alla sussistenza ed alla formazione del lavoratore. In alternativa la realizzazione del profitto può essere perseguita con l’introduzione di tecnologie che riducono i tempi di produzione. L’innovazione determina sempre e comunque un’estensione della capacità produttiva, e ciò impone la ricerca costante di nuovi mercati. Così il sistema si apre allo scambio con altri sistemi. Considerata la reale impossibilità che nel mondo contemporaneo possano esistere sistemi economici chiusi - a livello nazionale come a livello macroregionale - l’interscambio può essere sottoposto a restrizioni, ma non certo annullato. Esso consiste sia nel commercio di prodotti e servizi, sia nel trasferimento di capitali. I due fenomeni sono correlati. Infatti i flussi commerciali - che sono determinati dalla distribuzione ineguale dei fattori produttivi e dalla diversa competitività dei prodotti - presuppongono sempre un insieme di movimenti monetari a pagamento delle transazioni effettuate. A loro volta i flussi monetari - che sono rappresentati dalla concessione di crediti e dai movimenti di capitali - incidono fortemente sulla realtà produttiva e occupazionale del sistema beneficiario, soprattutto quando servono a finanziarie investimenti in impianti industriali ed infrastrutture. Così il resto del mondo influenza i comportamenti degli operatori interni al sistema ma, nell’interesse di famiglie ed imprese, lo Stato può limitarne o condizionarne l’impatto, sia stipulando accordi commerciali preferenziali, sia ricorrendo al protezionismo. Col termine protezionismo viene indicato l’insieme di misure adottate da un governo per difendere i produttori nazionali dalla concorrenza straniera. Le misure protezioniste si distinguono a seconda che incidano direttamente o indirettamente sui flussi commerciali. Tra le prime ricordiamo l’aumento dei dazi doganali all’importazione (barriere tariffarie), la fissazione di limiti alla tipologia o alla quantità di prodotti stranieri che possono essere importati (contingentamento o quota system), la messa in atto di procedure amministrative che rendano lento e complesso l’ingresso nel Paese di merci straniere e i relativi pagamenti (barriere non tariffarie). Le misure protezioniste indirette prendono la forma di sussidi di vario tipo ai produttori nazionali: citiamo ad esempio le facilitazioni creditizie, i finanziamenti a basso tasso d’interesse, l’accesso esclusivo a commesse pubbliche. La facoltà dello Stato di adottare misure protezionistiche è tra le forme di esercizio sovranità territoriale. Lo Stato ha il diritto di esercitare in modo esclusivo il potere di governo sulle risorse economiche del suo territorio. Tale principio è sancito dalla norma consuetudinaria sulla sovranità territoriale ed è stato più volte enunciato dall’Assemblea Generale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU), sia in specifiche risoluzioni, sia nella celebre dichiarazione intitolata Carta dei diritti e dei doveri economici degli Stati (1974) secondo cui “ogni Stato possiede ed esercita liberamente una sovranità completa e permanente su tutte le ricchezze, risorse naturali ed attività economiche” (art.2) ed ha il diritto di “scegliere liberamente il proprio sistema economico, oltre che i suoi sistemi politici, sociali, culturali, conformemente alla volontà del suo popolo, senza influenza, pressione, o minaccia esterna di alcuna specie” (art.1), nonché di “scegliere i suoi obiettivi di sviluppo, di mobilitare e di utilizzare integralmente le sue risorse, di operare delle riforme economiche e sociali progressive e di assicurare le piena partecipazione del suo popolo al progresso ed ai vantaggi dello sviluppo (art.7). Ciò significa che uno Stato, in quanto espressione legittima di una comunità nazionale, è libero di regolare come crede le attività produttrici di ricchezza che si svolgono sul suo territorio. Gli unici limiti fissati dall’ordinamento giuridico internazionale riguardano il rispetto degli stranieri e dei loro beni che si trovino all’interno delle frontiere. I contenuti della sovranità territoriale incidono sulla mobilità delle risorse e l’apertura degli operatori a relazioni extrasistemiche. Il diritto internazionale generale non limita in alcun modo la libertà dello Stato di regolare il transito di beni attraverso le sue frontiere e di controllare i flussi monetari corrispondenti. Ogni restrizione all’esercizio della sovranità territoriale può derivare soltanto da norme convenzionali, cioè da accordi siglati dai governi. E’ l’operatore Stato che consente una maggiore o minore apertura di un sistema economico nazionale all’interscambio con i Paesi stranieri. Oppure sono gli organi di un istituzione sovranazionale, cui gli Stati hanno trasferito le proprie competenze in materia di commercio estero, che decide in merito all’apertura di un sistema economico macroregionale al resto del mondo. Le origini della cooperazione intergovernativa in materia commerciale sono assai remote. Una fitta rete di intese bilaterali venne sviluppandosi fin dal XII secolo tra i sovrani d’Europa e d’Oriente. I trattati di amicizia, commercio e navigazione, stipulati nel medioevo ed agli albori dell’età moderna, stabilivano i principi generali che avrebbero dovuto animare l’interscambio di merci tra le parti contraenti per la durata di anni o addirittura decenni. In materia doganale la prassi inizialmente seguita consisteva nel fissare l’ammontare dei dazi che sarebbero stati percepiti senza che le parti potessero modificarli per tutta la durata dell’accordo (dazi consolidati o incatenati). Col tempo questa forma di accordi fu abbandonata e gli Stati cominciarono ad adottare tariffe doganali nazionali riservandosi di concedere particolari riduzioni ad altri Stati in base ad accordi bilaterali. Essi conservavano la libertà di aumentare o diminuire l’ammontare dei dazi nazionali nel corso dell’accordo, mantenendo tuttavia lo scarto concordato col Paese amico. Per quanto importanti potessero risultare le concessioni tariffarie attribuite sulla base di accordi bilaterali, nel corso dei negoziati i governi erano indotti a chiedere, non solo un equo trattamento per le proprie merci, ma anche lo stesso regime preferenziale eventualmente riservato ad altri Paesi amici. Così è andata imponendosi la prassi internazionale di includere negli accordi commerciali bilaterali la cosiddetta clausola della nazione più favorita, secondo cui il trattamento che una delle parti contraenti rivolga ad uno Stato terzo si estende automaticamente, ove sia più favorevole, anche all’altra parte contraente. Questa clausola risale al trattato di pace e commercio stipulato tra Federico II ed il sovrano di Tunisi nel 1231. Ma si è diffusa soprattutto durante il secolo XIX, quando si era soliti condizionare l’estensione all’altra parte contraente del trattamento favorevole concesso ad uno Stato terzo solo nel caso in cui detta parte offrisse gli stessi benefici di cui godeva nei suoi rapporti con altri Stati. Dopo la prima guerra mondiale è prevalsa la tendenza ad estendere la clausola in maniera incondizionata, salvo alcune restrizioni riguardanti il rispetto di particolari regimi preferenziali - ad esempio un’unione doganale - eventualmente in vigore tra una parte contraente e Stati terzi. Sebbene non possano esistere sistemi chiusi ed i governi abbiano sempre cooperato per lo sviluppo del commercio internazionale, tuttavia il grado e le forme di apertura di un sistema al resto del mondo possono variare a seconda della congiuntura e trovare giustificazioni varie. Tutte le teorie sul commercio mondiale si basano su due fondamentali principi. Il primo presuppone che i sistemi economici nazionali non sono mai autosufficienti e si aprono necessariamente alle relazioni internazionali (principio della interdipendenza). Il secondo afferma che ciascun Paese tende a specializzarsi nella produzione di determinati merci o servizi (principio della divisione internazionale del lavoro). Quali che siano i vantaggi che ne derivano, in termini di benessere individuale e collettivo, bisogna difendere e valorizzare, specie in momenti di crisi, la sovranità dello Stato sulle risorse economiche del suo territorio e, con essa, la facoltà di adottare misure protezioniste per difendere l’economia nazionale.
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