La forza delle argomentazioni – 3

Ci è voluto un po’ di tempo, ma alla fine l’argomentato attacco alla assai ipotetica candidatura di Mario Draghi alla guida della Banca Centrale Europea è arrivato. Il pulpito non è dei più qualificati (il quotidiano tedesco Bild), ma certo di grande presa popolare. Il tema dell’ortodossia monetaria è very pop in Germania, un po’ come quello dell’immigrazione da noi, dove può capitare di leggere titoli del tipo “I negri hanno ragione“, e Bild lo declina a modo suo. Il posto oggi occupato da Jean-Claude Trichet potrà andare solo ad un tedesco, e chi meglio di Axel Weber? Quanto a Draghi, lui è “un uomo della lira”, ma non solo: ha pure lavorato per Goldman Sachs, argomenta Bild.

Quest’ultima accusa, a onor del vero, è molto popolare anche da noi, ad uso e consumo di quanti ritengono che sia possibile ridurre l’ansia trovandosi un capro espiatorio, e poco importa che la parentesi di Draghi a Goldman sia terminata molto tempo addietro, o che egli non fosse (ovviamente) coinvolto in operazioni di finanza strutturata, avendo un ruolo di relationship istituzionale più o meno uguale a quello che nel corso degli anni hanno avuto Mario Monti, Romano Prodi e (udite, udite) Gianni Letta. Tornando ad Axel Weber, all’eroe senza macchia e senza paura della stabilità monetaria (mica come Draghi, che la notte di nascosto stampa banconote nella cantina di casa), potrebbero e dovrebbero essere girate le domande di Simon Johnson.

Weber, nel suo pluriennale ruolo di dominus e custode dell’ortodossia economica e monetaria tedesca, potrebbe ad esempio spiegare dov’era quando Deutsche Bank è diventata una delle banche con la maggior leva finanziaria al mondo, suggerisce Johnson. Oppure potrebbe spiegare il ruolo della Bundesbank, in quanto regolatore del sistema creditizio tedesco, nel caso di Hypo Real Estate, il buco nero di Germania. O ancora, la strenua resistenza tedesca alle proposte di incremento dei requisiti di capitale, e l’aver tenuto rigorosamente segreti i risultati degli stress test bancari europei, per evitare qualcosa di più dello stigma a carico di alcuni istituti non particolarmente virtuosi. E potrebbe forse anche spiegare il ruolo tedesco nel contesto di quella che Johnson definisce la politica monetaria fortemente prociclica dell’eurozona, che ha indirettamente favorito gli esportatori tedeschi.

Weber, è l’argomentazione di Johnson, in quanto ascoltatissimo consigliere economico dei governi di Berlino, è stato determinante nel perseguire un modello di policy basato sull’export e sulla stretta fiscale sistematica. Che notoriamente è cosa diversa da una politica fiscale anticiclica, tale cioè da risultare moderatamente espansiva in recessione e restrittiva in espansione (a somma zero, quindi), ma evidentemente per i tedeschi questi sono dettagli.

Al di là delle campagne dei giornali popolari, Berlino resta il crocevia dei destini dell’Unione monetaria europea, oltre che della sua evoluzione politica. Spetta ai tedeschi scegliere se continuare a spremere esportazioni dal Sud di Eurolandia (se e quando ciò potrà tornare ad accadere), salvo poi salire in cattedra nel momento in cui gli squilibri diventano insostenibili, oppure se puntare ad un vero coordinamento delle politiche economiche. Sperando che a Berlino riescano a comprendere che gli squilibri macroeconomici sono come il tango (cioè che occorre essere in due per ballare), e che un deficit non è altro che un surplus visto allo specchio.

Update: questi stessi concetti li ritrovate (ovviamente espressi meglio) in questo post di Edward Harrison per Naked Capitalism, che riprende lo schema dei saldi tra settore pubblico, privato e conto capitale, frequentemente utilizzato da Martin Wolf. La morale è che l’Europa, applicando la ricetta tedesca, va dritta ad infilarsi in un double dip.

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