Presi per il virus

Morta una emergenza (o uno scandaletto), se ne fa subito un’altra. E così - dopo il dramma sicurezza; i papi e e le pupe; i trans e i marrazzi - giornali e tiggì hanno spedito in soffitta anche un altro cult del 2009: l’influenza suina. Ora è tempo di riscaldamento globale e di giustizia giusta (soprattutto per chi ha casa, anzi villone, ad Arcore). Domani, si vedrà.

Relegare così presto in soffitta il cosiddetto “virus dei porci”, però, è un vero peccato. Anche perchè, fin qui, la nuova supposta “spagnola” che avrebbe dovuto decimare il mondo aveva regalato paginate, articolesse e trasmissioni tivù davvero memorabili. Si erano scaldati i motori durante l’estate con robine sobrie, tipo “Allarme Oms: Influenza suina inarrestabile” (Il Giornale, 14 luglio 2009). O con tocchi esotici, stile “Influenza suina, i rimedi dei Dalai Lama” (Repubblica, 4 agosto 2009). Per poi scatenare un vero e proprio crescendo, con l’arrivo dei primi freddi: “Virus, Italia record in Europa: già ducentomila contagiati” (La Repubblica, 30 ottobre 2009); “Tra le mamme ora è psicosi” (La Repubblica, 3 novembre 2009); “Colpo di tosse, tutti fuggono” (Corriere della Sera, 4 novembre 2009); “Il virus fa 24 vittime, 6 in poche ore” (Repubblica, 5 novembre 2009); “Aule dimezzate, è fuga dalle scuole” (Repubblica, 5 novembre 2009). Fino al piccolo capolavoro di humor nero: “Allarme influenza, funerali senza baci” (La Repubblica, 29 novembre 2009).

Per la serie: più che l’affetto, potè la fifa.

E poi? E poi: il contagio ha raggiunto il picco e lo ha superato; la ressa di pazienti terrorizzati che affollava gli ospedali è calata; e la strage annunciata non c’è stata. Nè in Italia, nè altrove. E così giornali e tiggì hanno cambiato argomento. Per la gioia di lettori e telespettatori. Che hanno smesso di sorbirsi la loro dose quotidiana di memento mori a base di virus e bacilli di stagione.

Peccato, si diceva. Anche perchè - dopo le parole e la paura - sarebbe il momento dei bilanci e dei numeri. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità - quella degli allarmi estivi - ogni anno muoiono di influenza circa mezzo milione di persone. E sempre secondo l’Oms - che ha messo tutto nero su bianco in un report pubblicato da Bloomberg - l’influenza suina, al 22 novembre 2009, avrebbe ucciso solo 7.820 persone. Una mortalità più bassa di circa 70 volte. Risultato: secondo un rapporto pubblicato dalla rivista scientifica PlosMedicine, questa potrebbe essere la “più leggera pandemia della Storia”.

Ma dai? Massì.

E ci sarebbe quasi da gioire per lo scampato pericolo. Quasi, però. Perchè nel frattempo le grandi case farmaceutiche - secondo le stime della banca d’affari, JpMorgan - avrebbero guadagnato - dalla pandemia “più leggera della Storia - circa 10 miliardi di dolllari (ovvero 7 miliardi di euro). E solo l’Italia - grazie ad allarmi e panico - avrebbe sganciato senza fiatare, secondo alcuni indiscrezioni pubblicate dal Corriere della Sera, circa 200 milioni di euro per un fiume di vaccini.

Soldi - per altro - arrivati come una manna dal cielo e proprio al momento giusto. Il momento giusto chiaramente non per cittadini e contribuenti. Ma per le case farmaceutiche.

Perchè? Per via della crisi economica. Che - non fosse stato per l’influenza provvidenziale - avrebbe scavato buchi anche nei bilanci dei produttori di pastiglie e affini. O per lo meno così parrebbe, a giudicare da un’intervista rilasciata - a settembre, al “Sole 24 ore” - da David Brennan, amministratore delegato del gruppo farmaceutico anglo-svedese, AstraZeneca (31,6 miliardi di dollari di fatturato nel 2008); e presidente di turno di PhRma, l’associazione che raccoglie le 30 principali case farmaceutiche al mondo. Un’intervista così sfacciata che - se non c’era - nessuno sarebbe mai stato in grado di inventarla:

Domanda (del giornalista del “Sole”): Lo scoppio dell’influenza “A” sembra arrivato al momento giusto: le società farmaceutiche sono alle prese con la riduzione della spesa sanitaria da parte dei governi… Risposta (dell’ad di AstraZeneca): “Non c’è dubbio. (…) I governi aumentano gli stoccaggi di medicine e l’impatto positivo sui conti è rilevante. Con il governo americano abbiamo un contratto di fornitura da 12 milioni di dosi (di vaccino, NdA) dal valore complessivo di 120-140milioni di dollari. Obama acquisterà tutta la fornitura che oggi abbiamo a disposizione, e posto che i produttori di forniscano dispositivi inalatori (la AstraZeneca sta lavorando su un vaccino spray, NdA), potremo raggiungere un giro di affari globale da 500 milioni“.

Milioni, anzi miliardi che - col senno di poi - si poteva anche evitare di spendere. Come forse si potevano evitare gli allarmi lanciati dall’Organizzazione mondiale della Sanità, che - curiosamente - ha sede a Ginevra, in Svizzera. Dove hanno sede anche due delle principali case farmacuetiche al mondo: Roche e Novartis (nata dalla fusione di Ciba-Geigy e Sandoz). Proprio quella Novartis che - sempre per una coincidenza divina - è l’azienda che ha preso i milioni per riempire di vaccini proprio noi italiani.

E ancora. Si potevano evitare le paginate e le articolesse in stile fine del mondo dei giornali italiani. Che - sempre per un caso del destino cinico e baro - hanno le case farmaceutiche nostrane e non tra i loro inserzionisti. E che hanno deciso di non andare ascolto ai medici italiani che hanno sempre detto che si trattava di una normale influenza. E si potevano - per finire - evitare anche certe campagne terroristiche sui “vaccini-che-uccidono” lanciate da certi cospirazionisti alle vongole. Che invece di fare controinformazione, cercano di fare concorrenza ai grandi media con le stesse armi dei grandi media: sensazionalismo e falsi allarmi.

Si poteva, ma non ci si è riusciti. E prima di metter via cuffie, sciarpe e termometri - e passare al prossimo allarme, emergenza o scandalo - sarebbe bene riflettere sul perchè quando certi pifferai suonano, i topi li seguono. Sempre. Perchè a riempire i pronto soccorso e a intasare gli ospedali per un mal di gola sospetto, non erano certo i giornalisti allarmisti, i cospirazionisti alle vongole o i super esperti dell’Oms. Vero cari concittadini carciofoni?

http://bamboccioni-alla-riscossa.org/?p=4928

GRECIA A FERRO E FUOCO

10 dicembre 2009

Di fronte a 50 dipartimenti universitari occupati la soluzione che il nuovo governo socialista riesce a dare è “tolleranza zero” per i manifestanti e l'annuncio di 13000 poliziotti a presidiare Atene durante le commemorazioni di Alexandros Grigoropoulos. Per comprendere meglio questo fine settimana ellenico bisogna ricordare che la crisi economica si è manifestata chiaramente ai greci. La disoccupazione non cessa a diminuire e trovare un part-time in un ristorante è tanto difficile quanto ottenere un posto fisso. Tra quella ufficiale e quella nascosta, la disoccupazione colpisce quasi una persona su cinque. Dati allarmanti a cui vanno aggiunti i problemi macroeconomici legati alla difficile situazione delle banche e quelli dovuti al titanico debito pubblico. Una situazione talmente chiara e tanto grave che non si può nascondere né all'opinione pubblica né, tanto meno, ai giovani e agli studenti; uno scenario tanto problematico per cui Eppure la storia si ripete con precisione visto che la classe politica non potrebbe più nascondersi dietro le colonne del parlamento.il potere politico sceglie la via più semplice e più ceca: la via della repressione. Il venerdì che ha preceduto le commemorazioni il Ministro per la Pubblica Sicurezza Chrisochoïdis ha affermato che “Atene non sarà consegnata alla violenza” e ha aggiunto “non tollereremo atti di terrore nella città”. Ma è passato troppo poco tempo per non ricordare cosa è successo in quel vicolo pedonale poco sopra la piazza di Exarchia. Il terrore è quello in cui si sveglia ogni giorno la generazione di Alexandros perchè alla disoccupazione e allo smantellamento dei beni comuni si aggiunge un altro pugno nello stomaco da sopportare. Nel tempo che scorrerà da un anniversario all'altro, la generazione di Alexandros dovrà trovare la forza per non dimenticare l'uccisione brutale di un proprio coetaneo. Un adolescente che a volto scoperto gridava il proprio dissenso. Tra sabato e domenica, ad un anno di distanza da quella tragica sera, sono scese in piazza migliaia di persone in tutta la Grecia: Lamia, Volos, Arta, Giannina, Salonicco, Preveza, Argo, Sparta, Karditsa, Kallithea, Patrasso, Xanthi, Corfù, Irakleio, Larisa, Mitilini e Atene sono state attraversate da cortei rabbiosi. E' con la sua memoria e con le ombre a mezzogiorno che i giovani non smettono di lottare e ricordare. Ma nel frattempo la repressione non si ferma e in riferimento alla giornata di domenica il partito Syriza ha parlato di violenza inaudita della polizia, mentre il Ministro Chrisochoïdis si è complimentato in serata per le operazioni delle forze dell'ordine: 41 arresti a Keratsini, quartiere a Nord-Ovest del Pireo, 33 arresti per gli episodi di domenica mattina ad Omonia, nel centro di Atene, ed 8 arresti nell'irruzione della polizia dentro l'Università Aristotele di Salonicco grazie all'autorizzazione del rettore.Intanto ad Exarchia e nei dintorni del Politecnico continuano i lanci di molotov e i fronteggamenti tra polizia e manifestanti. La lotta continua, l'eterno ritorna. Fonte: http://www.reportonline.it/

Lo spettro delle insolvenze sovrane e il dilemma della BCE

10 dicembre 2009 (MoviSol) - Come abbiamo scritto nell'ultimo numero della newsletter gratuita, la cosiddetta crisi di Dubai è in realtà la crisi dell'intero sistema finanziario. I nostri lettori ricorderanno che LaRouche aveva ammonito che il sistema sarebbe entrato in una nuova fase di instabilità a partire dallo scorso ottobre, come risultato dell'accelerazione della dinamica descritta nella sua funzione della "tripla curva". L'insolvenza del centro finanziario di Dubai ha inaugurato la fase di "insolvenze sovrane" del collasso. Ora gli occhi sono puntati sull'eurozona, e sui paesi che gli anglosassoni chiamano gentilmente PIGS (Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna, a cui si aggiunge l'Italia a giorni alterni).

Nonostante le smentite ufficiali dei leader dell'UE – l'ultimo in ordine di tempo è stato il capo dell'Eurogruppo Jean-Claude Juncker il 6 dicembre – un'insolvenza sovrana nell'eurozona è da sempre l'incubo degli eurocrati, in quanto non esistono strumenti per far fronte ad una simile eventualità nel sistema dell'euro. Infatti, il Trattato di Lisbona impedisce ogni salvataggio.

La recente decisione della BCE di ritirare qualche "Misura di liquidità di emergenza", come il tender a un anno all'1% d'interesse, pur dettata da giustificati timori di inflazione, aumenterà il rischio di insolvenza sovrana. I paesi membri dell'UE dipendono dalle banche private per finanziare i crescenti debiti pubblici. Le banche hanno usato proprio la liquidità d'emergenza per acquistare buoni del tesoro. Se la BCE toglie il paracadute, una crisi del debito pubblico è difficilmente evitabile.

Un rapporto speciale della banca francese Natixis affronta il problema, con un diagramma sui paesi a rischio. Il debito estero di Spagna, Portogallo, Grecia e Irlanda è rispettivamente di €1.089, €166, €543 e €182 miliardi. In termini di percentuale del PIL, siamo spesso oltre il 100%.

George Provopoulos, governatore della banca centrale greca, ha dichiarato ai giornalisti che "se il debito greco continua a deteriorare, ci troveremo in una posizione terrificante in cui non riusciremo più a trovare liquidità, perché la BCE non accetterà più le nostre garanzie".

Jean Pisani-Ferry, capo del pensatoio belga Bruegel, ha dichiarato al Le Figaro del 3 dicembre che la stessa UE non possiede "strumenti finanziari per affrontare una crisi di liquidità di uno dei suoi membri". Il Trattato di Maastricht, incorporato in quello di Lisbona, è contraddittorio al riguardo, perché "da una parte proibisce procedure di salvataggio per i debiti di uno stato membro (Art. 104B). D'altra parte, afferma che 'qualora uno Stato membro sia seriamente minacciato da gravi difficoltà a causa di circostanze eccezionali che sfuggono al suo controllo, il Consiglio, a maggioranza qualificata, può concedere a determinate condizioni un'assistenza finanziaria comunitaria allo Stato membro interessato' (Art. 103A), secondo l'analista di Natixis Sylvain Broyer.

Nell'attuale sistema, la BCE sarà prima o poi costretta a riprendere le iniezioni di liquidità, o assistere al "meltdown". Solo la soluzione della riorganizzazione fallimentare del sistema, indicata da LaRouche, può funzionare.

http://www.movisol.org/09news237.htm

Perchè Pechino corre in soccorso di Atene?

di Lucio Caracciolo - 10/12/2009 Fonte: La Repubblica [scheda fonte] Grecia: la sindrome cinese, l’Europa e il G2 La Grecia sta disperatamente cercando di evitare il collasso delle sue finanze pubbliche. È una partita esistenziale per Atene. Almeno ad ascoltare il grido d´allarme del primo ministro George Papandreou. «Lo stallo della finanza pubblica minaccia la nostra sovranità». L´emergenza s´è aggravata dopo che martedì l´agenzia Fitch ha abbassato il rating del debito sovrano greco da «A-minus» a «BBB plus con outlook negativo», mentre Standard&Poor´s sta valutando una misura analoga. Mercati, agenzie e governi interessati non si fidano troppo delle promesse di risanamento del governo di Atene. Il deficit è pari al 12,7% del pil, mentre il debito l´anno prossimo potrebbe toccare quota 125% sul pil. Le cadute a ripetizione della Borsa e dei bond greci, in un contesto politico e sociale alquanto agitato, confermano che la crisi ellenica sarebbe già finita in tragedia se il paese non godesse della protezione dell´euro, peraltro non illimitata. Questo non è solo un dramma greco. È anche un paradigma utile a rivelare le strategie delle principali potenze mondiali, specie della Cina, in una tempesta economica tutt´altro che placata. Non si tratta solo di capire se ed eventualmente fino a che punto gli europei, in particolare i tedeschi, siano disposti a muovere in soccorso di un´economia debole dell´Eurozona, a costo di sacrificare quel che resta del patto di stabilità. Ma attraverso il prisma greco ci si può anche fare un´idea sul grado di intesa della strana coppia Usa-Cina e testarne il modo di approcciarsi all´Europa e al Mediterraneo. In tale prospettiva, occorre ricordare che, per esorcizzare lo spettro del default del suo Stato, Papandreou ha speso le ultime settimane in frenetici quanto riservati contatti con Pechino, in particolare con la Bank of China. Obiettivo: convincere i cinesi ad acquistare a partire dal mese prossimo almeno 25 miliardi di bond greci. Questa mossa sarebbe supportata, fra gli altri, da alcuni influenti amici americani del premier greco (Papandreou è di madre statunitense). Goldman Sachs e JP Morgan sarebbero della partita. Complessivamente, per non affogare Atene punta a piazzare 47 miliardi di bond in euro l´anno prossimo. I cinesi sono disponibili ad acquistare titoli greci. Ma avendo da tempo appurato di poter prendere Atene per il collo, puntano in cambio ai "bocconi buoni" ellenici, ad alcuni asset industriali di valore strategico. Soprattutto vogliono stringere la presa sul porto del Pireo, principale scalo container nel Mediterraneo orientale, destinato in prospettiva non breve a crescere grazie al previsto rafforzamento dell´aggancio alla rete ferroviaria europea via Balcani. Sicché le navi portacontainer che trasportano merci dalla Cina e dall´Asia verso l´Europa centrale potrebbero sempre più guardare al Pireo come a un´ottima alternativa ai porti del Northern Range (Le Havre, Rotterdam, Amburgo), che richiedono otto giorni di navigazione in più ma offrono servizi e collegamenti straordinariamente convenienti rispetto ai concorrenti mediterranei. Fatto è che la cinese Cosco Pacific Ltd. ha concluso nel 2008 un accordo per operare i moli 2 e 3 del Pireo per 35 anni (prezzo: 4,3 miliardi di dollari), e sta mirando ad altri investimenti logistici. Perché Pechino corre in soccorso di Atene? I cinesi partono ovviamente dalla constatazione che sono i greci ad aver bisogno di loro, non viceversa. Pechino è impegnata a diversificare gradualmente e con molta prudenza il credito accumulato in questi anni nei confronti degli Usa, che minaccia di diventare un peso insostenibile, vista la profondità della crisi americana e i dubbi sulla tenuta del dollaro. In ogni caso a Pechino non si parla di ricadute geopolitiche, semmai si ricorda che gli investimenti cinesi in Europa sono ben inferiori a quelli europei in Cina e derivano da valutazioni puramente economico-finanziarie. Inoltre vengono evocate le radici americane di Papandreou, i suoi legami con ambienti bancari e finanziari di New York, a suggerire che dietro la Grecia c´è l´ombra degli Stati Uniti, che non vorrebbero lasciar fallire un paese comunque alleato e strategicamente collocato nel Mediterraneo – specie ora che della Turchia si fidano molto meno. Insomma, l´intesa salva-Grecia avverrebbe sotto l´egida del G2. A queste considerazioni converrebbe aggiungere una postilla geoeconomica (A) e una geopolitica (B), più una considerazione finale su che cosa (non) è l´Europa per i cinesi (C). A) Per la Cina il Mediterraneo è il principale corridoio di sbocco delle sue merci verso il grande mercato europeo. In questa prospettiva il Pireo è solo uno degli anelli della catena globale del valore – dalla fabbrica al consumatore, ossia dalla Cina all´Europa via Mediterraneo – che Pechino sta cercando di irrobustire. Con buon successo. Le imprese cinesi investono su tutta la portualità mediterranea, anche nordafricana (qui si va alla grande, anche se il crollo di Dubai World lascerà qualche traccia), e perfino a Napoli, dove la cinese Cosco ha stabilito una partnership paritetica al 46% con Msc. Si noti di passaggio che i porti italiani sarebbero davvero interessanti per gli investimenti cinesi, non fosse che per due fattori: la modestia dei retroporti e quindi dei collegamenti con i mercati di consumo, e l´attivismo neoprotezionistico delle mafie. Esempio: a Gioia Tauro si è mobilitata a suo tempo la ‘ndrangheta, inventando uno pseudosindacato con tanto di bandiere rosse, per ostacolarvi lo sbarco di investitori con gli occhi a mandorla. Non c´è dubbio che gli investimenti cinesi abbiano una logica economica. Che siano determinati anche dal privilegio/vincolo di disporre di enormi quantità di denaro. Ma c´è ancora meno dubbio sul fatto che le operazioni economiche e finanziarie di Pechino abbiano ricadute geopolitiche, in termini di crescente influenza cinese nell´area mediterranea intesa nel suo complesso: europea, africana, mediorientale. Un´area dove negli ultimi anni gli americani stanno ammainando bandiera, mentre non solo cinesi, ma anche arabi, indiani e brasiliani stanno entrando alla grande. E lo chiamavamo mare nostrum. B) I cinesi guardano al mondo con gli occhiali del G2, ma questo orizzonte non è ancora una realtà strutturata. La simbiosi economica non basta a produrre un´alleanza. Che i cinesi finora hanno perseguito, sottotraccia e talvolta apertamente. Ma i dubbi aumentano. Dopo averlo mitizzato, Pechino è sempre più delusa dal colosso americano, dalla pochezza della sua leadership politica e dalla inaffidabilità delle sue strutture finanziarie. Come gli amanti delusi, i leader cinesi oscillano fra il sentimento che li porterebbe a stringersi comunque all´America, e la sensazione di aver puntato troppo su un cavallo che sta percorrendo il viale del tramonto. Questa delusione si esprime in codice. Come quando Wen Jiabao, subito dopo il crollo di Wall Street, faceva notare che in America si legge solo mezzo Adam Smith, quello della Ricchezza delle Nazioni, mentre si dimentica l´altro Smith, quello che teorizzava la necessità dell´intervento statale per redistribuire la ricchezza e garantire l´armonia sociale. O quando in novembre il numero due del regime, Xi Jinping, parlando alla Scuola centrale del Partito, ha raccomandato di «incoraggiare attivamente nel partito egemone la creazione di un modello di studio del marxismo». Che i cinesi riscoprano Marx è una notizia. Tradotto in italiano: forse ci siamo sbagliati a cercare di imitare troppo gli americani, a legarci troppo a loro, immaginando un percorso di riforme economiche e poi politiche in direzione liberaleggiante e parademocratica. Conviene invece puntare sul nostro capitalismo guidato e autoritario come modello utile per noi e spendibile nel resto del mondo. C) Il mese scorso il nostro ministro dell´Economia, Giulio Tremonti, ha avuto il privilegio di parlare davanti alla succitata Scuola del Partito. Tremonti è stato brillante nel promuovere il ruolo del nostro paese e dell´Europa, ricordano i suoi uditori. La sua tesi: il G2 non basta, ci vuole il G3, ossia un treppiede Cina-Europa-Usa come garanzia della stabilità mondiale. «I tavoli si reggono su tre gambe, non su due», ha notato Tremonti. Un tempo questa constatazione avrebbe acceso la fantasia degli eurofili cinesi. Oggi il clima a Pechino è più sobrio. Dopo essersi illusi, per wishful thinking, sulla crescita di un fattore di potenza europeo autonomo dagli Usa e dalla Russia, con il quale la Cina avrebbe stabilito una partnership privilegiata in funzione antirussa e di bilanciamento dell´egemonia americana, i cinesi hanno rinunciato a sperare nell´Europa in quanto soggetto geopolitico. Preferiscono coltivare relazioni con i singoli paesi, specie con la Germania. A noi guardano soprattutto per il nostro stile di vita e in quanto eredi di un millenario patrimonio culturale, sperando che si abbia qualcosa da insegnar loro nella gestione di tale eredità (i cinesi stanno scoprendo con molto ritardo l´importanza economica e di soft power del patrimonio artistico-culturale). Per il resto, sono a caccia di asset. Con la consapevolezza che molti paesi europei – la Grecia è in cima alla lista – hanno bisogno di loro. Nel negoziato bilaterale sono i cinesi a tenere il coltello dalla parte del manico. Ciò che dovrebbe, ancora una volta, spingerci a fare l´Europa. E che invece, ancora una volta, ci trova chiusi nei tragicomici particolarismi nostrani. Tante altre notizie su www.ariannaeditrice.it

COMMERCIO DEL CARBONIO: L' ACQUISTO DEL DIRITTO DI INQUINARE

10 dicembre 2009

di Carmelo Ruiz Marrero Inquinare senza preoccupazioni. Contribuire al riscaldamento globale e al “disastro che il cinema anticipa” senza che l' immagine corporativa si veda colpita. Già ci sono aziende che vi vendono grandi quantità di carbonio, equivalenti agli inquinanti che disperdono nell’atmosfera. IL RISCALDAMENTO GLOBALE ha dato luogo ad un nuovo tipo di commercio: il commercio del carbonio. Questa nuova attività consiste nell’acquisto e nella vendita di “servizi ambientali”. Tali servizi, che includono la rimozione dei gas che causano l’effetto serra dell’atmosfera, sono identificati ed acquistati da aziende di eco- consulenza e dopo venduti ad individui o corporazioni per “compensare” le loro emissioni inquinanti. Alcune ONG e aziende “ecologiche” favoriscono il commercio del carbonio e lo vedono come la soluzione nella quale tutti vincono, che concilia la tutela dell’ambiente con l'imperativo del profitto capitalista. Ma ci sono ambientalisti e organizzazioni di base che sostengono che questo commercio non è una soluzione al riscaldamento globale dato che non prestano attenzione alle cause del problema. Funziona in questo modo: un' azienda di eco-consulenza fa un’eco- assistenza ad un cliente e arriva ad un calcolo presumibilmente esatto di quanto carbonio rilascia nell'atmosfera con le sue attività. Il carbonio è il denominatore comune di tutti i gas inquinanti che causano il riscaldamento globale. L' azienda cerca in tutto il mondo servizi ambientali che possano compensare le emissioni dei loro clienti. Questi servizi sono di solito boschi e progetti di semina di alberi e sono conosciuti come serbatoi di carbonio (gli alberi rimuovono carbonio dall’atmosfera e lo fissano “sequestrandolo” nel loro legno). Usando una varietà di metodologie, l’agente dei servizi ambientali arriva ad un calcolo di quanto carbonio "sequestra" un somministratore particolare, gli assegna un valore monetario e lo vende a qualcuno dei suoi clienti. Il cliente allora può sottrarre dal suo conto la quantità di carbonio "sequestrata" dal somministratore che ha comprato. Quando un cliente possiede sufficienti somministratori per compensare tutte le emissioni si può vantare di non inquinare. Il commercio del carbonio ha l'approvazione dal Gruppo Intergovernativo degli Esperti sul Cambio Climatico (IPCC), prestigioso corpo scientifico che consiglia la Convenzione sul Cambiamento Climatico ed è anche autorizzato dal Meccanismo dello Sviluppo Pulito (MDL) del Protocollo di Kyoto, accordo internazionale per affrontare la minaccia del riscaldamento globale. Contrario a quanto molti ecologisti credono, il Protocollo non contempla realmente le soluzioni sostanziali nelle emissioni di gas inquinanti. Impegna i paesi industrializzati a riduzioni di solo un 5,2 % sotto i livelli di quell’anno. Tuttavia, l'IPCC ha avvertito che per evitare una catastrofe globale queste riduzioni dovrebbero essere del 60% rispetto ai livelli del 1990. IL MDL è uno dei tre meccanismi “flessibili” del mercato nel Protocollo. Gli altri due sono il commercio delle emissioni, nel quale i paesi industrializzati commerciano tra di loro permessi per inquinare, e l’Implementazione Congiunta, nella quale i paesi industrializzati finanziano progetti di mitigazione del cambiamento climatico nell’antico blocco ex-sovietico. I partecipanti al commercio di carbonio includono:
  • Imprese che forniscono consulenza e intermediazione dei serbatoi di carbonio, come EcoSecurities, NatSource, Co2.com e Climate Change Capital.
  • Società dedicate a "validare" e "verificare" la quantità di carbonio fissato o sequestrato da parte dei "serbatoi", come Det Norske Veritas e Societe Generale de Surveillance, entrambe europee.
  • Organismi delle Nazioni Unite, come il Programma per lo Sviluppo (UNDP) e il Programma Ambientale (UNEP), che aiuta le corporazioni ad indagare ed avere nuovi somministratori.
  • Organizzazioni ambientaliste, come la statunitense World Resources Institute e l’ Environmental Defense
  • Istituti bancari multilaterali come la Banca Mondiale, che ha stabilito il Fondo Prototipo di Carbonio.
  • Climate Care e Future Forets, entrambe in Inghilterra, sono enti privati che hanno avuto la principale voce in capitolo a favore del commercio del carbonio attraverso il dispiegamento di grandi campagne pubblicitarie. Climate Care è un gruppo no-profit che vende serbatoi di carbonio ad individui e imprese ed usa il denaro per investire in progetti ecologici come la protezione della vita silvestre in Uganda, efficienza energetica nell’isola Mauritius nell’ oceano indiano, e microaziende in Bulgaria. I clienti di Climate Care sono per la maggior parte agenzie di viaggi ed ecoturismo, come l’ Ecotours, Whale Watch Azores e Nature Trek.
  • Future Forets, azienda con fini pecuniari, dice nella sua pagina web : "Noi ti aiutiamo a vedere Quanto CO2 (anidride carbonica) viene prodotto dalle attività che realizza, e suggeriamo i modi in cui può ridurre quelle emissioni. Quello che non potrà ridurre, noi lo possiamo neutralizzare (o compensare), piantando alberi che riassorbano CO2 o investendo in progetti che riducano le emissioni di CO2, come quelli che usano risorse di energia rinnovabile”. I clienti di Future Forest includono celebrità come i Pink Floyd, Simple Red, Kitaro, il cineasta Ridley Scott, e corporazioni come la Fiat, Mazda, Volvo, la catena di hotel Marriott, BP, Price Waterhouse Coopers, Warner Brothers e Harper Collins.
Alcuni ecologisti credono che il commercio del carbonio ed il concetto di servizi ambientali non fermano veramente il riscaldamento globale. A maggio del 2004 vari gruppi hanno pubblicato un comunicato contro Climate Care e Future Forests, protestando contro quello che considerano una “propaganda ingannevole” da parte di queste aziende. Heidi Bachram, del Carbon Trade Watch, ha dichiarato: “Ci preoccupa che queste compagnie stiano indirettamente ostacolando la vera soluzione al riscaldamento globale, che è quello di ridurre e poi smettere di bruciare combustibili fossili... L’idea che la gente possa bruciare combustibili fossili e piantare alberi per pulire il diossido di carbonio risultante è semplicemente sbagliata. Questa falsa “soluzione” continuerà solo a mantenere l’estrazione di petrolio e del carbonio invece di passare ad energie pulite”. "Affermare che una tonnellata di carbonio immagazzinato negli alberi è la stessa di una tonnellata di carbonio fossile ignora i concetti più elementari del ciclo naturale del carbonio", ha detto Jutta Kill, che è a capo Sinkswatch. “C’è una grande controversia scientifica riguardo a quanto diossido di carbonio può emettere nell’aria una piantagione di alberi e per quanto tempo. C’è una differenza tra il piantare alberi, di cui beneficia il clima, e piantare alberi come parte di un programma che sancisce che si continui a bruciare combustibili fossili, di cui non beneficia il clima”, ha sostenuto Mandy Haggith, di Worldforests. “La vera soluzione è la conservazione dell’energia, la riduzione del consumo, un uso delle risorse più equitativo, e la distribuzione di fonti energetiche a basso impatto, pulite e rinnovabili”, ha dichiarato il Movimento Mondiale per i Boschi Tropicali, che è molto critico sul MDL e sull’uso della fornitura di carbonio. “Anche se è quasi un’ovvietà dirlo, la volontà politica dei governi sarà necessaria. Questa è scarsa, e quando esiste, si deve scontrare con interessi molto potenti ed implacabili”. Fonte: http://www.ecoportal.net/Contenido/Temas_Especiales/Cambio_Climatico/Comercio_de_Carbono._La_Compra_del_Derecho_a_Contaminar Traduzione per Voci Dalla Strada a cura di VANESA Articoli correlati: IL "CAMBIAMENTO CLIMATICO" DEI MAIALI COPENAGHEN NON INVERTIRA' IL CAMBIAMENTO CLIMATICO

Pecore e banchieri

giovedì 10 dicembre 2009

Il mondo rimane attonito chiedendosi cosa potrà accadere se davvero si concretizzasse la proposta di Alistair Darling, ministro delle Finanze di Sua Maestà Britannica, di tassare al 50% i premi milionari dei banchieri della City di Londra. L'esempio potrebbe allargarsi a macchia d'olio a cominciare dal resto d'Europa e degli Stati Uniti mettendo in fuga i migliori cervelli della finanza. Come si conviene a dei banchieri, si alza dalla categoria una indignata e sommessa protesta con la quale si rivendicano i meriti e l'insostituibile funzione di amministratori delegati, presidenti e manager che dagli anni '70 in poi hanno prodotto le più geniali innovazioni finanziarie che tanto benessere e ricchezza hanno portato all'umanità tutta. Innovazioni che possono essere paragonate ad invenzioni come l'energia elettrica, il telefono, la penicillina: le cartolarizzazioni, i cds, i derivati, i mutui ARM e chi più ne ha più ne metta. Qualcuno ha fatto notare che in realtà l'ultima vera rivoluzione nel mondo del credito è rappresentata dall'introduzione del bancomat e forse, negli anni '50, delle carte di credito. Ma vuoi mettere la sofisticata utilità di uno swap o di un Asset Backed Securities? No, non possiamo permettere che i laboratori di ingegneria finanziaria chiudano i battenti e vada disperso un patrimonio scientifico di tale portata. Poco importano gli incidenti di percorso, i titoli tossici, il credit crunch, la crisi dei subprime, la recessione. Sono il giusto prezzo che noi consumatori dobbiamo lasciare sull'altare del progresso, insieme ai miliardi di dollari o euro necessari al salvataggio di banchieri falliti perchè continuino a fare il loro mestiere. L'arte del banchiere, diceva pochi anni fa un rampante amministratore delegato di una banca italiana, è quella di tosare il cliente come una pecora senza che se ne accorga, lasciandogli quel poco di pelo che permetta una ricrescita e una nuova tosatura l'anno successivo.
http://ildiariodiperestroika.blogspot.com/2009/12/pecore-e-banchieri.html

Berlusconi e i suoi affari con Mosca

Riporto da Mosca, dove mi trovo in questo momento, qualche appunto sulla strategia berlusconiana verso la Russia. Mi limito a esporre modestamente i miei pensieri in merito. Com'è noto Berlusconi pensa di essere eterno. E dunque pensa in termini lunghi, almeno per quanto concerne il suo ruolo nella storia d'Italia. E io credo che gli piaccia pensare a se stesso come colui che garantirà al nostro paese il riscaldamento per un tempo indefinito a venire. Il fatto che al progetto South Stream partecipi, in posizione di primo piano, l'Eni di Scaroni, dice semplicemente che Berlusconi lo vuole. Per i motivi sopra detti e per altri motivi, meno "storici" ma politicamente assai utili. Come il North Stream che, dalle rive di San Pietroburgo porterà il gas direttamente in Germania, passando sul fondo del Mar Baltico e soprattutto bypassando i paesi baltici, Polonia, Ucraina e tutta l'Europa Centrale, Il South Stream costituisce la seconda linea di trasporto del gas indipendente da ogni ricatto intermedio. L'ex cancelliere Gerhard Schroeder ha dato una mano decisiva per il North Stream. Berlusconi sta dando la mano decisiva per il South Stream, che porterà il gas in Europa dalla parte sud. Quando i due grandi gasdotti saranno pronti non ci saranno più "guerre del gas". E Berlusconi potrà dire -se ci sarà ancora - di essere stato lui a garantire all'Europa (a tutta l'Europa, anche a quella dell'est) l'energia fossile necessaria per far andare avanti le fabbriche e, in genere, per tutta l'economia. Un favore alla Russia? Certo. Perchè la Russia è vitalmente interessata a vendere il suo gas e a ricavarne ingenti e costanti entrate valutarie. Putin e Medvedev hanno ormai capito che l'Ucraina è una strozzatura insidiosa , che permette ai circoli occidentali più aggressivi di ricattare la Russia, e di mantenere un clima permanente di tensione tra Russia ed Europa, e hanno deciso di aggirare l'ostacolo. Ma anche un favore che Berlusconi fa a se stesso. E' evidente che questa Italia sempre più autoritaria si avvia a entrare in rotta di collisione con l'Europa dei diritti umani (che non è tutta l'Europa, ma è l'Europa che conta di più al momento attuale). A quel momento Berlusconi potrà far valere i suoi "meriti energetici". E, se non scamparla, almeno costringere Bruxelles a fare i conti con lui. Resta da capire quali prezzi Berlusconi paga in America, per la sua politica filo-russa. Se Obama continua nelle sue intenzioni di "resettare" i rapporti con Mosca, il prezzo per Berlusconi sarà piccolo o nullo. Ma in America, come in Europa, specie nei circoli Nato, c'è parecchia gente che vuole l'Ucraina nella Nato, la Georgia nella Nato. Polonia e baltici sono il club più antirusso e sono molto attivi, con Londra, nel piantare grane. A questi circoli, molto vicini ai neocon di Washington, Berlusconi non piace. Per i motivi opposti a quelli per cui non piace a noi. Se Obama affondasse in Afghanistan tornerebbero in primo piano. di Giulietto Chiesa Fonte: www.megachipdue.info Link: Megachipdue

Energie alternative: crisi di crescita o fine di un’illusione?

Economiadi Luca Conforti
pubblicato il 10 dicembre 2009 alle 10:30 dallo stesso autore - torna alla home

Il crollo della credibilità della “green economy” in poco più di un anno è stato verticale così Copenaghen, da apoteosi di un nuovo paradigma politico ed economico, si trasforma in una lotta per la sopravvivenza.

Hopenaghen, come la chiamano in queste ore gli ambientalisti, ha un obiettivo minimo: garantire l’attuale livello di sostegno finanziario e normativo e mantenere, almeno a parole, un’elevata tensione dei grandi del mondo verso l’argomento. Se il clima dovesse scendere nella lista delle priorità sarebbe la fine, per cui la parola d’ordine è ottimismo, qualunque cosa uscirà del vertice sarà positiva. Anche se questo traguardo minimo dovesse essere centrato, il destino della “Green Inc” si deciderà nei mesi successivi in posti lontani da Copenhagen: Washington, Pechino, Bruxelles e Benevento. Tra truffe, ipocrisie, favori e scandali bisogna riconoscere che l’obiettivo teorico ed encomiabile di costruire un’economia più sostenibile ha permesso un’applicazione pratica che non disdegna la speculazione, il calcolo politico e la manipolazione. Ecco a voi un breve viaggio nel lato oscuro dei salvatori del pianeta e i peccati che potrebbero distruggerne le sorti magnifiche e progressive.

QUI WASHINGTON - La vera delusione per chi lotta ogni giorno contro il riscaldamento globale è stato, persino più dei professori del Cru che truccano i dati, Barack Obama. È salito al potere promettendo un Green Deal, soldi pubblici per le tecnologie amiche dell’ambiente, invece sono stati trovati i capitali per salvare le banche, l’industria dell’auto, i proprietari di casa sfrattati, ma quelli per le società verdi dovranno aspettare la riforma per la sanità. Il “climate bill” è al Senato dove è già stato parecchio stravolto, un voto definitivo non ci sarà fino alla primavera prossima; a sentire i giornali americani non avrebbe al momento la maggioranza per essere approvato. Dentro ai testi in discussione è già entrato di tutto: sostegno al carbone americano e penalizzazione per il solare se i pannelli sono realizzati in Cina. In attesa di un chiarimento a livello nazionale, l’incentivazione alle fonti rinnovabili è lasciato ai singoli Stati e alla loro “sensibilità” verde. Il presidente nero-verde si è parzialmente riabilitato proprio con il suo blitz su Copenhagen, ma il rischio che il leader del mondo libero prendesse un impegno politico davanti ad altri capi di Stato che poi avrebbe dovuto essere recepito nella legge, ha dato una sferzata ai lavori per far sì che nel discorso di Copenhagen venisse già recepita la linea del congresso. Rimane il fatto che per ora soldi veri la lotta non ce ne sono, l’impegno del taglio del 17% nel 2020 (rispetto al 2005, il 4% sul 1990) rappresenta veramente poco anche rispetto agli impegni presi dall’Europa. Il capo negoziatore Usa, Todd Stern, ha dichiarato che «l’amministrazione Obama non si sta concentrando sugli obiettivi al 2020». La domanda è: fino a quando il presidente riuscirà a cavarsela con il carisma e le promesse prima che gli Usa vengano considerati inaffidabili nella riduzione delle proprie emissioni?

QUI PECHINO – Il rischio, paventato da molti commentatori ai tempi Bush e del protocollo di Kyoto (ma abbiamo veramente fatto tanta strada da allora?) è che senza un coinvolgimento degli Usa l’altro grande inquinatore, la Cina, non si sarebbe mai piegato a ridurre la sua “sporca” crescita. In realtà le cose stanno andando diversamente, anche se non meglio. Il governo di Pechino ha mostrato molto interesse per le tecnologie più moderne, per l’energia producibile con il vento ed il sole e l’efficienza energetica, ma ha altrettanto chiaramente fatto capire che non è disposto a farsi indirizzare dagli obiettivi “globali” (leggi “occidentali”). Ogni richiesta verde accolta dai cinesi è stata abilmente trasformata in un’occasione di guadagno: progetti di enormi parchi idroelettrici o la costruzione a tappe forzate di centrali nucleari ridurranno le emissioni di gas serra, ma non possono essere considerate delle vittorie per gli ecologisti. Il vero fronte caldo poi sono i fondi provenienti dall’estero, al centro di un vero e proprio scandalo internazionale: le Nazioni Unite hanno sospeso i sussidi ad oltre 50 progetti di campi eolici cinesi, perché sospettano che il governo di Pechino avrebbe ottenuto negli anni precedenti oltre un miliardo di dollari sotto forma di “carbon credits” che non gli spettavano. Il meccanismo sfruttato è quello dei Cdm, come spiegano qui, ovvero la vendita sul mercato di certificati verdi per gli interventi nei paesi emergenti da parte dei paesi industrializzati. I campi eolici cinesi avrebbero presentato dei risultati peggiori del reale per ottenere il sussidio internazionale in quanto “non profittevoli” senza aiuto esterno. Il problema non è tanto che i cinesi imbroglino, ma che i paesi industrializzati ci facciano caso, segno che il flusso degli investimenti non è più così copioso, la volontà di usare meglio i soldi di solito indica che stanno per finire. Sempre gli Usa puntano a togliere la Cina dall’elenco dei paesi emergenti visto che ormai li considerano il principale interlocutore (se non avversario) nello scacchiere globale. Senza gli incentivi esterni, la conversione dell’economia cinese è destinata a rallentare parecchio.

QUI BRUXELLES – Se anche l’Europa, leader politica e filosofica dell’impegno contro l’effetto serra, corregge la rotta, allora il problema è serio. Al centro del contendere ancora gli incentivi alle energie prodotte con il sole e con il vento: ha iniziato la Spagna con il ridurre il prezzo di favore concesso ai pionieri di queste tecnologie, l’Italia dovrebbe farlo dal 2011 (ma una decisione è attesa entro l’anno prossimo). Decisioni normali visto che nel frattempo queste industrie sono cresciute e l’efficienza delle tecnologie ha fatto passi avanti enormi, la necessità di trattamenti di favore rispetto al petrolio e al gas, considerando il costo della Co2 prodotta, andava riducendo. Non mancano gli studi, targati solo 2008, in cui persino il costoso Kwh prodotto con i pannelli solari avrebbe raggiunto la Grid parity (costo di accesso alla rete) rispetto alle fonti tradizionali nel giro di qualche anno. La reazione negativa dell’industria del settore ai tagli decisi o solo annunciati derivano da tre cause: 1) I settori abituati ai sussidi non riescono a privarsene, nemmeno quando i fondamentali economici lo permetterebbero (chiedere al mondo dell’auto) 2) la prospettiva che il prezzo del petrolio non superi gli 80 dollari sta facendo crollare la disponibilità di capitali privati per gli investimenti. I soldi pubblici dovrebbero compensare questa riduzione. 3) Se i governi dovessero riformare il meccanismo degli incentivi è probabile che una parte dei fondi venga dirottata dalla produzione alla distribuzione. La crescita delle centrali eoliche e solari non viene sfruttata al meglio perché le reti attuali non sono in grado di gestire l’intermittenza di questo tipo di produzione. Il problema è che chi costruisce e gestisce gli elettrodotti non sono le stesse società che fanno produzione, se si rimettesse mano alle norme i due fronti sarebbero in forte concorrenza.

BENEVENTO DOCET – Per capire la situazione italiana bisogna andare in curva tra i tifosi del Benevento che domenica scorsa festeggiavano: “Oreste Vigorito è tornato in libertà!! Il popolo giallorosso potrà finalmente riabbracciare il suo GLADIATORE, il suo leader EMOTIVO, colui che con bellissime parole ma, soprattutto tanti fatti, ha insegnato al popolo giallorosso che si può vincere anche nella sconfitta, e che prima o poi con i VIGORITO realizzeremo il nostro sogno: la serie B!! IO STO CON I VIGORITO!!”. Vigorito era appena uscito dagli arresti domiciliari per aver truffato sui contributi pubblici alle sue aziende, su tutti la Ipvc, società pioniera e leader dei parchi eolici in Italia. La situazione “pericolosa” in cui versa il settore eolico nel meridione è già stata più volte sottolineata. Non abbiamo fatto molta strada da questa bella inchiesta dell’Espresso di un anno e mezzo fa, in cui peraltro Vigorito era già protagonista. La situazione è peggiorata dal punto di vista tecnico nel senso che i posti ricchi di vento diminuiscono sempre più: il 10% degli impianti eolici installati semplicemente non lavora, la quota dei “funzionanti 0 ore” rimane costante nel corso degli ultimi 5 anni. Il tempo in cui il vento è sufficiente forte per far girale le turbine è basso rispetto ad altri paesi europei più fortunati: 1413 ore l’anno contro le oltre 2000 della Danimarca e le oltre tremila della Scozia. In più la quota delle pale più attive, oltre le 1800 ore, diminuisce anno dopo anno (erano il 48% nel 2004 e sono il 38% nel 2008). Il gap della produzione con le centrali tradizionali, che funzionano circa 7000 mila ore l’anno, si allarga anziché restringersi. Da anni corriamo meno degli altri in Europa: dal 2005 al 2008 siamo passati dal quarto al settimo posto come produzione dal vento, sorpassati da Portogallo, Francia e staccati dal Regno Unito con cui ci contendevamo il podio. Lo spazio per una crescita solo “di carta” che vive dei contributi pubblici, ma non produce energia è dunque aumentato. La risposta sarebbe spostare i campi eolici in mare (il famoso eolico off shore), ma nessuno sembra volerlo davvero.

RISACCA – Dopo Copenhagen i problemi rimangono tutti: riduzione dei capitali disponibili, incapacità della lobby verde di muoversi su un’agenda unica, crisi di credibilità e perdita di appeal verso i politici. Anche l’opinione pubblica sembra ritirare il proprio appoggio incondizionato: secondo un sondaggio riportato da Rinnovabili.it, l’Osservatorio Scienza e Società di Observa ha rilevato che, rispetto ai dati del 2007, la percentuale degli italiani che credono realmente che stia avvenendo un cambiamento della temperatura globale è scesa dal 90 al 71,7%. Tra chi si è dichiarato incerto rimane comunque di valore l’opinione scientifica mentre è risultata meno rilevante il pensiero delle associazioni ambientaliste: solo il 13% degli intervistati ritiene che abbiano, con il loro operato e con le campagne di sensibilizzazione, influenzato la percezione del cambiamento climatico. Tra gli scettici è diffuso il pensiero che gli ambientalisti siano catastrofisti spingendo al limite le conseguenze del global warming. Un’altra indagine commissionata dalla Nielsen in collaborazione con l’Oxford University Institute per il cambiamento climatico, ha raccolto i pareri di oltre 27.000 consumatori di ben 54 Paesi sparsi in tutto il mondo: la percentuale dei sensibili al tema è stata stimata del 37% registrando una diminuzione del 4% dell’interesse rispetto ai dati raccolti nell’anno 2007. Entrando maggiormente nel dettaglio, mentre negli Usa il numero delle persone che hanno dimostrato preoccupazione è di gran lunga scemato, dal 34% del 2007 al 25% di quest’anno, un apprensione maggiore è stata invece riscontrata in America latina e in Asia, rispettivamente con percentuali del 57% e del 42%. Tutto ciò non cambia il dato di fondo, ovvero che il riscaldamento globale esiste ed il più grande pericolo del nostro tempo, se non porci un ulteriore domanda: se chi dovrebbe combatterlo sbaglia strategia, quante possibilità abbiamo di uscirne vivi?

http://www.giornalettismo.com/archives/44010/energie-alternative-crisi-di-crescita-o-fine-di-un%e2%80%99illusione/

BCE Alla prova

La Grecia ha un disavanzo pubblico insostenibile al punto da mettere in dubbio la capacità del suo governo di procedere con regolarità a pagare gli interessi e rimborsare i titoli di Stato. La causa è una spesa pubblica fuori controllo e un gettito delle imposte diminuito dalla crisi economica. La crisi spiega anche in parte l’aumento eccessivo e improduttivo della spesa pubblica con cui si è cercato di attutire l’impatto della congiuntura sui redditi e l’occupazione. La credibilità del Paese sui mercati internazionali è poi ridotta dalle ripetute scorrettezze statistiche con cui è stata rappresentata la sua situazione macroeconomica. Il problema ha radici lontane e una dimensione tale che non si può ripararlo d’un colpo. Servono anni di disciplina di bilancio e riforme strutturali. Se la Bce cominciasse a far risalire i tassi di interesse l’aggiustamento sarà ancor più difficile perché l’onere del debito greco aumenterà. D’altra parte, se il governo fosse in grado di fare un piano di riforme e di ripresa di controllo del bilancio graduale ma credibile, il miglioramento delle aspettative faciliterebbe subito le cose perché i mercati darebbero alla Grecia, a tassi meno punitivi, il credito necessario a superare il periodo di riordino. La dimensione dell’economia greca, meno di un quinto dell’Italia, rende il suo problema gestibile nell’ambito dell’Ue. Ci sono però due difficoltà che, oltre a complicare la questione greca, la rendono più dannosa per l’area dell’euro nel suo insieme. La prima è che, per ragioni e in misure solo in parte diverse, la situazione della finanza pubblica è difficile anche altrove nell’Ue, all’interno e appena fuori dall’area dell’euro. E’ inutile fare tanti esempi quando è ben noto che la crisi globale ha accresciuto l’indebitamento pubblico anche nei Paesi tradizionalmente più disciplinati e avendo sott’occhio il caso italiano dove, nonostante gli sforzi per contenere il disavanzo, il debito pubblico è, in rapporto al Pil, dell’ordine di grandezza di quello greco e, in assoluto, molto più grande e diffuso nel mondo. Il punto cruciale è che nessun Paese europeo può «stampare» euro, cioè creare la moneta che, pur minacciando l’inflazione nel medio periodo, aiuterebbe subito a onorare il debito. Lo può fare solo la Bce che è indipendente dai governi ed è tenuta a regolare la quantità di moneta in modo da garantire la stabilità dei prezzi. Il fatto che molti governi abbiano contemporaneamente seri problemi di indebitamento mette però a dura prova l’indipendenza della Bce, soprattutto se le case di rating, che hanno già cominciato a declassare la Grecia, diffondono paure riconoscendo ufficialmente la minor qualità dei titoli di Stato di altri Paesi. La pressione a creare euro per aiutare la Grecia, e non solo la Grecia, diventa più forte e rende meno credibile la capacità della Bce di regolare la liquidità e i tassi di interesse in modo da non svalutare il potere d’acquisto interno dell’euro e il suo cambio con le altre valute. Le banche europee hanno già ricevuto dalla Bce finanziamenti abbondanti a tassi bassissimi che facilitano il loro acquisto di titoli governativi. La stessa Bce ha accettato come garanzia dei suoi finanziamenti titoli gradualmente più rischiosi. Se smarrissimo la disciplina monetaria su scala europea, aumenterebbe anche la fragilità delle banche e delle Borse e i primi a subire danni gravi sarebbero proprio i Paesi più deboli come la Grecia. Meglio dunque mantenere la fiducia nell’indipendenza e nella capacità della Bce e sperare che i governi indebitati non vengano aiutati creando moneta la quale, fra l’altro, attenua il loro incentivo a correggere la finanza pubblica in modi più opportuni. Ma i modi opportuni sono le riforme strutturali necessarie per contrarre durevolmente i disavanzi. Riforme politicamente costose che, per un certo periodo, richiedono sacrifici senza risparmiare i gruppi sociali meno forti e fortunati. In Europa si è voluto finora difendere gelosamente l’autonomia dei governi nazionali nel decidere le politiche di bilancio. Ecco la seconda difficoltà, per la Grecia ma anche per noi: tagliare i disavanzi con misure decise a livello nazionale rende l’operazione più ardua. Più difficile da decidere in modo tempestivo e credibile, da coordinare e da sopportare. Quando fu creato l’euro, togliendo il controllo della moneta ai singoli governi, si comprese che si sarebbero potute creare queste situazioni di debiti pubblici difficili da sopportare. E’ per questo che fu inventato il Patto di Stabilità: per aiutarsi vicendevolmente a controllare la quantità e la qualità dei disavanzi ma anche come primo passo verso un governo più condiviso e accentrato delle finanze pubbliche. Purtroppo il Patto ha avuto un’interpretazione limitativa e sembra aver perso credibilità e capacità di incidere sulla qualità delle politiche di bilancio dei Paesi europei. Eppure è nel funzionamento del Patto che anche la Grecia deve sperare: è all’interno di un risveglio orgoglioso del Patto che la Commissione e il Consiglio europei possono e debbono aiutare la Grecia a formulare, realizzare, garantire il progetto di aggiustamento che le serve. Franco Bruni (franco.bruni@unibocconi.it ) Fonte: www.lastampa.it/ Link: http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=6719&ID_sezione=&sezione= 10..12.2009

LO SPORCO SEGRETO DI “HOPENAGHEN”

Data: Giovedì, 10 dicembre @ 05:58:54 CST Argomento: Ecologia DI PEPE ESCOBAR atimes.com Il 21 novembre sul China Daily è apparsa questa didascalia: “Tre donne fanno sembrare più piccolo il Nido d'Uccello [lo Stadio Nazionale] mentre si godono il cielo azzurro e il sole invernale, venerdì. Venerdì Pechino ha sperimentato il suo 260° giorno sereno del 2009, raggiungendo il proprio obiettivo 41 giorni prima della fine dell'anno”. Si potrebbe pensare che il segreto del controllo climatico cinese e il raggiungimento degli “obiettivi” sia che Dio ha la tessera del Partito Comunista, e che i suoi obiettivi sono i piani quinquennali, come per chiunque altro (eccetto gli “scissionisti”). Dio, ovviamente, non si sognerebbe mai di diventare uno scissionista. Solo nell'ultimo mese in Cina sono stati venduti 1,34 milioni di automobili. Sono una gran bella fonte di gas serra. Confrontateli con il nuovo obiettivo di Pechino, quello di ridurre l’intensità di carbonio – emissioni di anidride carbonica per unità di prodotto interno lordo – dal 40 al 45% entro il 2020, rispetto ai livelli del 2005. Cosa se ne faranno di tutte queste auto, le esilieranno in Corea del Nord? Gli imprenditori cinesi, però, continuano a concentrarsi sull'obiettivo. Molti sono giunti a Copenhagen per la conferenza sul clima delle Nazioni Unite, e oltre a concludere una caterva di nuovi grossi contratti hanno già reso pubblico il loro “impegno a esplorare modelli di crescita economica a bassa emissione di carbonio”. Stretch limo da Kyoto Congestionata da 1200 limousine (e solo cinque auto elettriche) e 140 jet privati riservati ai veri VIP tra i 15.000 delegati, 5000 giornalisti e 98 leader mondiali che si ingozzavano di foie gras sostenibile (e sesso libero, offerto dalle 1400 lavoratrici del sindacato delle prostitute di Copenhagen, questo sì che è carbon dating*...), Copenhagen è stata ribattezzata Hopenhagen. Ma non c'è da stare molto allegri. Parlando per conto del Gruppo dei 77 e della Cina, l'ambasciatore sudanese Ibrahim Mirghani Ibrahim ha messo in chiaro che le manovre del Nord per aggirare il protocollo di Kyoto e per mettere con le spalle al muro il Sud non avranno vita facile. In base a Kyoto, adottato nel 1997, il Nord industrializzato si è impegnato a ridurre le emissioni del gas serra del 5% rispetto ai livelli del 1990 nel 2008-2012. Tutti i paesi hanno sfondato i limiti. Poi, all'inizio di questa settimana, è trapelato il testo “segreto” di una bozza dell'accordo politico conclusivo che il 18 dicembre, cioè alla fine del summit, dovrebbe essere ratificato da tutti, compreso il Presidente degli Stati Uniti Barack Obama. E Lumumba Di-Aping, il presidente sudanese del Gruppo dei 77 più la Cina, è partito in quarta: “Il testo ruba ai paesi in via di sviluppo la loro quota giusta ed equa di spazio atmosferico. Cerca di trattare ricchi e poveri allo stesso modo”. La Cina e l'India ovviamente si oppongono fermamente al testo “segreto”. Ecco dunque quello che il Nord ricco sta architettando, secondo il Sud: “Distruggere sia la convenzione delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico che il protocollo di Kyoto”, come ha detto Di-Aping. Kyoto è finora il solo accordo globale che obblighi il Nord a ridurre le emissioni di gas. Adesso il Nord vuole un losco “fondo verde” condotto da un consiglio misterioso che alla fine si tradurrà nella Banca Mondiale e in un consorzio di organi non-ONU. In breve: il Nord l'ha fatta franca con l'inquinamento del pianeta, mentre quello che va regolamentato è il Sud. I tagli della Cina da soli corrispondono a non meno del 25% della riduzione globale delle emissioni necessaria a evitare un aumento di più di due gradi Celsius della temperatura del pianeta. La Cina batte perfino la correttezza ambientale dell'Unione Europea, impegnatasi a ridurre le emissioni del 20% entro il 2020. I principali responsabili dell'inquinamento mondiale, gli Stati Uniti, non vogliono prendere nessun impegno. Washington – che ha snobbato Kyoto – vuole un “accordo politico”, non un “trattato legale”, e si è vagamente offerta di tagliare le emissioni del solo 17% entro il 2020, e in riferimento ai livelli del 2005. Il Nord ha comunque già deciso che a Copenhagen non ci sarà alcun accordo globale, solo una vaga dichiarazione di intenti. Porca vacca Qualunque sia l'esito della festa di Copenhagen, non affronterà il problema del funzionamento del turbo-capitalismo, un sistema che è schiavo del petrolio. La maggior parte della realtà che conosciamo ruota essenzialmente attorno a Padre, Figlio e Spirito Santo, cioè Cina, Stati Uniti e Medio Oriente. Funziona praticamente così. I produttori di petrolio del Medio Oriente vendono il petrolio che alimenta un esercito di industrie cinesi, soprattutto nella cosiddetta “fabbrica del mondo”, il Guangdong. Queste industrie usano il petrolio per produrre praticamente tutto quello che il mondo consuma, e che va a finire in gran parte negli Stati Uniti. I consumatori americani acquistano tutti questi prodotti nei grandi magazzini con carte di credito prosciugate. Poi i magnati del petrolio mediorientali investono il loro surplus negli Stati Uniti. È così che alcuni investitori arabi – per lo più fondi sovrani – sono ora tra i principali creditori degli Stati Uniti. Mentre gli Stati Uniti sono colpiti dalla più grave crisi dell'occupazione dai tempi della Grande Depressione, la Cina avrà ancora bisogno di tutto questo petrolio per far muovere la propria economia e gli arabi avranno ancora bisogno di consumare prodotti made in China nei Wal-Mart, dove andranno a bordo dei loro SUV. I cinesi saranno gli ultimi a guastare questo equilibrio. Ridurranno zitti zitti le loro emissioni e in ogni caso continueranno a crescere del 9% annuo – secondo il famoso proverbio cinese "fare è meglio che parlare" (shao shuo duo zuo, parla poco e fai di più). Dunque chi vincerà, alla fine? Chi se non Wall Street, se mai vedrà la luce un sistema basato sul mercato delle emissioni per “salvare il pianeta”. Goldman Sachs, JP Morgan e Morgan Stanley farebbero così il colpaccio grazie a un mercato del carbonio incentrato sui derivati. Preparatevi a una valanga di contratti derivati e di prodotti finanziari legati allo scambio di emissioni. Wall Street attirerà importanti investitori dai fondi speculativi e dai fondi pensione, dato che ha investito una fortuna in lobbisti e in contratti con compagnie in grado di offrire “carbon offset” [cedole di credito emesse da organizzazioni che operano nel campo della protezione dell’ambiente e che si impegnano a investire quel denaro per compensare le emissioni di anidride carbonica, N.d.T.] da vendere ai clienti. Sarà una pacchia per gli speculatori. Le banche di Wall Street sono destinate a trasformare i cambiamenti climatici in un nuovo mercato delle materie prime – e a venderli come un prodotto di investimento. Abbiamo già visto tutti questo film, ma che diavolo; benvenuti nella nuova bolla da migliaia di miliardi, l'ancora teorico mercato “cap and trade” [tetto per le emissioni e scambio di quote delle emissioni, N.d.T.]. Anche Big Oil – da Exxon Mobil a Shell e BP – insieme alle maggiori corporazioni globali, molte delle quali legate direttamente a Big Oil, metterà a segno un bel colpo. Queste compagnie vogliono una “carbon tax” globale diretta (esplicitamente chiesta da ExxonMobil). Il sistema di scambio delle quote di emissione legherà i mercati “cap and trade” nazionali; i “tetti” saranno in linea con gli obiettivi di riduzione delle emissioni. Questo spiega perché paradossalmente Big Oil sia di fatto favorevole a combattere il surriscaldamento globale. Difficile stupirsi alla vista di Wall Street e Big Oil che traggono allegramente vantaggio dai risultati di Copenhagen. La “carbon tax” globale che hanno proposto colpirà tutto il pianeta, e il bello è che Wall Street e Big Oil non dovranno farne le spese. Ma, si potrebbe contestare, perché no, visto che verrà tassato anche il miliardo e mezzo di vacche presenti in tutto il mondo. Secondo la FAO, l'Organizzazione per il Cibo e l'Agricoltura delle Nazioni Unite, le “emissioni” delle vacche sono tra le principali cause del surriscaldamento globale. E così, malgrado tutte le buffonate del fardello dell'uomo bianco, sembra che i mammiferi daranno il colpo di grazia a quella Madre Terra che gli umani avranno ormai praticamente distrutto: questa ironia sarebbe piaciuta molto al teorico dell'evoluzione Charles Darwin. *Gioco di parole intraducibile: dating è la datazione (al carbonio) ma si riferisce anche all'uscire con qualcuno. Versione originale: Pepe Escobar Fonte: http://atimes.com Link: http://atimes.com/atimes/China/KL10Ad01.html 9.12.2009 Versione italiana: Fonte: www.tlaxcala.es Link: http://www.tlaxcala.es/pp.asp?reference=9464&lg=it 12.11.2009 Traduzione a cuar di Manuela Vittorelli membro di Tlaxcala , la rete di traduttori per la diversità linguistica. Questo articolo è liberamente riproducibile, a condizione di rispettarne l'integrità e di menzionarne autori, traduttori, revisori e la fonte.
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Il cul de sac: Chicago-blog anticipa l’accordo di Copenhagen

Parlare tra sordi è uno sport poco esaltante, ma ciascuno è libero di farlo, se crede. A spese sue. A Copenhagen, invece, i sordi stanno discutendo animosamente, tra una portata e l’altra, al ritmo di un tassametro che, dopo 11 giorni di battibecchi, segnerà 143 milioni di euro. Per decidere cosa? Chicago-blog è in grado di anticipare i contenuti dell’accordo politicamente vincolante che uscirà dal vertice.

Anzitutto, si preciserà che i rappresentanti degli Stati presenti al meeting si sono trovati d’accordo che il cambiamento climatico è una questione urgente. Non c’è più alcun dubbio, si dirà, che le temperature stiano aumentando e che di questo la colpa sia dell’uomo (forse, si aggiungerà che l’uomo industrializzato è un po’ più colpevole di quello in via di sviluppo).

Quindi, si stabilirà un duplice obiettivo: da un lato, contenere l’aumento delle temperature entro la soglia di 2 gradi al di sopra dei livelli pre-industriali (segnalo l’ottimo intervento di Carlo Carraro sulla Stampa, a questo proposito). Per evitarlo, ci si impegnerà a ridurre le emissioni del 50 per cento entro il 2050 (clicca qui per vedere cosa significa), dell’80 per cento entro il 2080, del 99 per cento entro il 2100, che poi, essendo tornati alle caverne, si potrà ricominciare il giro.

Infine, la ciccia. Poiché gli Usa non scuciranno un euro a favore della Cina, e la Cina non muoverà un dito senza gli euro americani, la ciccia non ci sarà. Forse si prenderanno gli aiuti allo sviluppo, quelli che erano già sul piatto, e gli si cambierà nome, etichettandoli incentivi verdi: ci perderanno le ong umanitarie (di salvare l’uomo, non gliene frega più un cazzo a nessuno) e ci guadagneranno gli speculatori verdi. Ma in aggregato cambierà poco.

Ah, dimenticavo: l’Ue ribadirà il suo impegno, magari con un’aggiustatina verso l’alto, e annuncerà trionfante la sua leadership nella lotta ai cambiamenti climatici. Se sentite un rumore, non fateci caso. E’ lo scolapiatti che cade dalla testa di Barroso.

http://www.chicago-blog.it/2009/12/10/il-cul-de-sac-chicago-blog-anticipa-laccordo-di-copenhagen/

FINANZA/ Così le banche hanno guadagnato sul crac del Dubai

giovedì 10 dicembre 2009

Una decina di giorni fa il mondo è stato scosso dalla notizia del potenziale default tecnico di Dubai sul proprio debito, un qualcosa che pareva impossibile fino a pochi giorni prima. Non è così e ilsussidiario.net è in grado di provarlo.

Il quattro novembre scorso, infatti, Barclays Capital in una nota di ricerca agli investitori definiva la situazione debitoria dello stato «altamente attrattiva» e addirittura un dipartimento dello stesso istituto invitava a scommettere long sulla sua capacità di ripagare il debito contratto nella messe folle di investimenti fatti in questi anni di boom.

Insomma, le banche d’affari - non solo Barclays, la quale ha avuto la sfortuna di essere colta sul fatto - conoscevano perfettamente la situazione reale di Dubai ma nonostante questo hanno cercato di introitare il più possibile - quasi un’operazione di copertura emergenziale della propria esposizione, oltre ovviamente al fatto che guadagna una percentuale sulle transazioni operate - inviando al mercato nella migliore delle ipotesi erronee, nella peggiore ma non così peregrina, false valutazioni di quanto in realtà stava accadendo.

In quel periodo le operazioni di investimento sul debito di Dubai sono cresciute del 90%, ma qualcosa fa pensare che la strategia messa in atto dalle banche fosse scientificamente partita anche prima, visto che in ottobre l’aumento dello stesso tipo di investimenti era del 52% su base mensile. BarCap, insomma, aveva preso a pretesto il downgrading di Moody’s rispetto a Dubai - giunto a fine ottobre - come potenziale arma per un grande investimento a basso prezzo di acquisto.

La scorsa settimana, nel marasma totale dei mercati, una nuova nota avvertiva la clientela di «un radicale e totale cambiamento di visione rispetto all’investimento in questione». Troppo tardi, ma qualcosa di ancora più inaccettabile è accaduto attorno a quest’ultima appendice della crisi finanziaria mondiale: nel primo semestre di quest’anno, infatti, Dubai World aveva già perso 2,2 miliardi di dollari, tamponati da un salvataggio statale operato in gran segreto - ma che ilsussidiario.net può confermare - che interpretato alla luce di quanto accaduto la scorsa settimana spiega il perché del “no” a ulteriori operazioni di rifinanziamento del buco di bilancio da parte del governo dell’emirato.

Ma non è tutto: altri 1,3 miliardi di dollari sono stati pompati prima dell’estate attraverso il Dubai Financial Support Fund, ma la decisione si rivelò inutile. I mercati, ovviamente, sapevano tutto. E infatti le variazioni grafiche rispetto ai cds ma anche alle operazioni sul debito parlano chiaro: magicamente, i volumi aumentavano in concomitanza degli interventi macro. Anche - e soprattutto - quando questi venivano compiuti in segreto e senza annunci che potessero turbare le piazze finanziarie: qualcuno, però, lo sapeva.

E il fatto che le quattro principali banche britanniche, tra cui la seminazionalizzata Royal Bank of Scotland, abbia giocato questa partita la dice lunga su come la crisi non abbia insegnato niente: i default di Dubai è stata una scommessa sbagliata ma qualcuno ci ha guadagnato molto. Il grafico dell’andamento del valore dei cds che vedete allegato lo dimostra, la crescita è esponenziale ma costante come le voci di crollo imminente: solo che le banche da un lato scommettevano contro e dall’altro consigliavano ai clienti di fare il contrario, ovvero andare long sull’ipotesi di rifinanziamento del debito ritenuto più che probabile visti i buoni indicatori macro che arrivavano dal settore immobiliare e turistico di Dubai.

Dati fatti circolare a mani basse per silenziare invece quello devastante sul debito. Hedging totale dal rischio ma alle spalle di tutti: quanto accaduto la scorsa settimana era non solo atteso ma risaputo e messo in conto, solo che invece di inviare segnali e informazioni si è ben pensato di operare per speculare sul breve finché la spazzatura poteva ancora essere nascosta sotto il tappeto.

La stessa cosa sta accedendo per la Grecia, colpita al cuore dalla crisi del debito e ieri declassata nel rating: l’ombrello Ue potrebbe non essere sufficiente allo stato ellenico per evitare un drastico ridimensionamento, lo stesso primo ministro ha infatti parlato di sovranità a rischio. Ecco cosa avevamo scritto la scorsa settimana, esattamente il 3 dicembre, nel silenzio generale: «In compenso l'Europa, quella reale, scricchiola: i cds dell'Irlanda stanno risalendo in maniera preoccupante e la Grecia è ormai sull'orlo del default tecnico dopo aver disatteso la promessa fatta a Bruxelles di varare misure concrete antideficit entro ottobre.

La “forbice” (spread) fra i BOT greci e quelli tedeschi a 10 anni è saltata a 178 punti-base: il che significa che il governo di Atene, per farsi prestare denaro dai mercati, deve offrire quasi il 2% di interessi in più di Berlino sui suoi titoli di debito pubblico. Il rincaro del debito è rovinoso per un Paese economicamente debole, nel pieno di una crisi mondiale dove i debiti pubblici più potenti (vedi gli Usa) faranno una concorrenza spietata: 18 miliardi di euro di debito pubblico greco stanno per andare a scadenza e andranno rinnovati nel secondo trimestre del 2010.

Quale strada per il governo socialista greco se non quella dei tagli sanguinosi, i quali però porteranno ulteriore tensione sociale in un paese già pervaso da forti pressioni interne. Non si può svalutare, né stampare moneta: si può, però, svendere gli assets del paese all'estero visto che un deficit di budget del 13% sul Pil non consente molti margini di manovra. E sta già accadendo: la Cina, di fatto, è pronta a comprarsi la Grecia a prezzo di saldo: i porti del Pireo sono ormai della Cosco, pronta a creare un hub cargo verso il Mar Nero. Pechino non comprerà bond governativi greci come spera il Pasok al governo, vuole gli assets e li vuole pagando poco, roba da take-away».

Le notizie di ieri non necessitano che si aggiunga altro. A essere pessimisti si fa peccato. Ma ci si azzecca quasi sempre in questo periodo.

http://www.ilsussidiario.net/News/Economia-e-Finanza/2009/12/10/FINANZA-Cos-le-banche-hanno-guadagnato-sul-crac-del-Dubai/54660/