"La situazione continua a essere molto grave" ha detto dalla Casa Bianca il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, riferendosi alla grave carenza alimentare che affligge il Paese. Non poteva che essere d'accordo il presidente haitiano, Renè Preval, che nei giorni scorsi era volato a Washington per parlare con il suo omologo Usa.
Ma c'è un dato che deve far riflettere. Del miliardo e mezzo di dollari Usa accumulato per l'emergenza terremoto solo il 49 percento sarebbe stato destinato a progetti. Non solo. I troppi aiuti umanitari, soprattutto alimentari, piovuti dall'estero, potrebbero causare non pochi problemi a un'economia già praticamente inesistente.
E' stato il direttore della Fao, Jacques Diouf, a lanciare il problema. Secondo Diouf, infatti, ci sarebbe allarme per l'abbandono del settore agricolo haitiano, fondamentale per questo momento dell'isola.
Anche Preval ha accolto l'appello e ha chiesto alle organizzazioni non governative presenti nel Paese di fare acquisti alimentari all'interno dei confini nazionali, dove, secondo il presidente haitiano, ci sarebbe la possibilità di comprare la quantità di riso necessaria per sfamare la capitale per i prossimi mesi.
Ma il problema economico esiste davvero. Le troppe donazioni alimentari, infatti, potrebbero danneggiare la produzione locale, lasciando invenduta la produzione agricola stagionale.
Insomma, una questione non semplice da risolvere. Dalla regione haitiana dell'Artibonite, un tempo fiore all'occhiello della produzione nazionale di riso, se ne sono andati praticamente tutti qualche anno fa, quando la crisi economica aveva portato la popolazione a spostarsi in città. Nel 1995 infatti l'ex presidente Aristide fu costretto ad accettare le imposizioni del Fondo Monetario Internazionale e da quel giorno il mercato del riso nazionale cambio definitivamente. Sull'isola arrivò il riso di un colosso mondiale, la Riceland Food, cooperativa di produttori dello Stato Usa dell'Arkansas, una delle maggiori al mondo.
Il riso Usa, prodotto su larga scala e sovvenzionato da flussi di denaro statale, costava meno della metà di quello haitiano, con conseguente abbandono delle campagna di parte della popolazione agricola. Oggi molti una buona parte dei cinquecentomila sfollati del dopo terremoto sta tornando nelle zone agricole, ma non si sa con quale futuro.
La distribuzione del riso in Haiti, otto mila tonnellate nelle ultime due settimane fornite dal programma mondiale dell'alimentazione, sta assumendo dunque, nonostante le necessità della popolazione, le proporzioni di un grave problema sociale. Nella zona dell'Artibonite, dove da oltre due secoli i contadini haitiani coltivano il riso, un coltivatore si lamenta degli aiuti stranieri giunti nella capitale. "Ci colpiscono direttamente - dice in un video trasmesso dalla rete - ma la nostra produzione sarebbe capace di soddisfare i bisogni di Port au Prince".
I contadini locali da tempo lamentano difficoltà nella gestione del loro lavoro e il terremoto non ha fatto altro che aggravare la situazione. Gli strumenti con cui lavorano la terra sono ormai obsoleti. Per loro è impossibile accedere al credito, considerando che nel Paese non esiste un programma mirato. Le chiuse che controllano i canali d'acqua per l'irrigazione dei campi sono distrutte da anni. I prezzi dei fertilizzanti sono salati. A tutto questo si deve aggiungere che solo il 2 percento della solidarietà internazionale viene investito nel settore agricolo. Se poi consideriamo l'inondazione di riso arrivata su Haiti negli anni Ottanta dagli Stati Uniti, si può capire come la dipendenza alimentare dell'isola sia una certezza."Un tempo era diverso " raccontano i lavoratori della zona "anni fa eravamo noi a lavorare per il Paese". "Il riso importato e sovvenzionato dal governo Statunitense e da quello haitiano è il motivo principale che ci vieta di vendere il nostro prodotto sul mercato. Importano molto. Il riso costa meno del nostro. Noi abbiamo gravi difficolta a proporre il prodotto sul nostro mercato" dice triste una contadina sudata dopo una giornata passata nei campi a lavorare e a sognare un futuro migliore.
Fonte: PeaceReporter
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