Pechino (AsiaNews/Agenzie) – Non accenna a fermarsi la “guerra dello yuan” in corso fra Pechino e Washington. Dopo le dichiarazioni con cui il premier cinese ha chiuso l’Assemblea nazionale del popolo, che di fatto blindano la valuta cinese, il Congresso americano ha deciso questa notte di minacciare il gigante asiatico: se non rivaluta la propria moneta, saranno applicati nuovi e più pesanti dazi sulle esportazioni. Inoltre, i deputati americani hanno chiesto all’Amministrazione Obama, qualora non cambino le cose, di definire ufficialmente Pechino “un manipolatore di valuta”.
Nel frattempo, però, non sembra volersi fermare la corsa economica del dragone: le stime di oggi della Banca mondiale, infatti, indicano una previsione al rialzo del prossimo Pil cinese. Secondo gli analisti della struttura sopranazionale, la crescita interna si attesterà sul 9,5%, un aumento di mezzo punto rispetto a quanto dichiarato dai vertici della Banca cinese. Per quanto possa sembrare una buona notizia, l’esecutivo di Pechino non è sereno sull’argomento: un aumento del Pil potrebbe comportare un’impennata dell’inflazione, con un conseguente aumento delle proteste sociali che ogni anno scuotono il Paese.
Una proposta di legge bipartisan, presentata a Washington, chiede al governo americano “degli sforzi legislativi per spingere la Cina a cambiare le proprie politiche monetarie. Tenendo volutamente lo yuan a bassi livelli, Pechino si comporta in maniera sleale nell’ambito della bilancia dell’import-export”. Il senatore repubblicano Sam Brownback, co-firmatario della proposta, spiega: “Se non rivalutano la moneta da soli, li costringeremo noi a farlo”.
La questione dello yuan va avanti da almeno cinque anni, ovvero da quando Pechino ha iniziato a comprare in maniera massiccia parti del debito estero Usa. La Cina ha già ventilato la possibilità di rivalutare lo yuan di circa il 10%. Secondo alcune stime, essa possiede riserve per un valore complessivo di circa 3mila miliardi di dollari: quindi una rivalutazione dello yuan significa una perdita teorica di 300 miliardi di dollari. E una rivalutazione del 40%, richiesta da alcuni economisti americani, avrebbe un valore di 1.200 miliardi.
Soprattutto, una rivalutazione dello yuan colpirebbe le esportazioni, e quindi avrebbe un effetto diretto sulla occupazione nelle aziende esportatrici. Calcoli del governo cinese sostengono che 1% di rivalutazione può corrispondere a un 1% di riduzione delle esportazioni e quindi a un diminuzione esponenziale dei posti di lavoro. Davanti a queste cifre, l’esecutivo di Zhongnanhai [il quartiere blindato nel cuore di Pechino, dove vive e lavora il governo] ha chiarito di non poter fare di più.
Oltre ai problemi della valuta, Pechino è chiamata a rispondere al proprio interno della crescita economica. I dati odierni della Banca mondiale, infatti, proiettano per il 2010 un aumento dell’inflazione pari al 3,7%: i massicci prestiti governativi con cui la Cina ha superato la crisi finanziaria dovranno inoltre essere restituiti. Gli oltre 7500 miliardi di yuan concessi dal governo alle industrie potrebbero far saltare i già fragili equilibri economici interni.
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