La folle passione della sinistra per il neoliberismo
Negli anni passati la sinistra che voleva prendere congedo dalle esperienzesocialdemocratiche, comuniste del Novecento attingeva a piene mani a un insieme di idee raccolte nel contenitore chiamato neoliberismo, di cui sosteneva la capacità euristica di spiegare il funzionamento dell'economia e il potere di indicare la strada per costruire una «buona società». Da Toni Blair a Anthony Giddens, da Walter Veltroni a Bill Clinton, da Gerhard Schröder a Romano Prodi, sono stati molti i leader politici fulminati sulla via di Damasco del libero mercato. Poco importava che negli anni Trenta de Novecento un gentiluomo inglese, John Maynard Keynes, frequentatore di circoli intellettuali tanto esclusivi quanto poco convenzionali, aveva spiegato che il mercato lasciato a se stesso avrebbe portato alla rovina il capitalismo, invocando un intervento dello Stato per evitare che i rentiers continuassero a distruggere ciò che onesti imprenditori e infaticabili lavoratori costruivano giorno dopo giorno. E poco interessati erano verso il giudizio che aveva accompagnato le analisi dei liberisti Milton Friedman e Friedrich August von Hayek, considerate infatti per decenni poco più che fantasie. Con il passato, andava gettato alle ortiche quando di buono le politiche economiche keynesiane avevano prodotto. Ora dopo che la crisi ha messo a nudo la fragilità del neoliberismo, si può cominciare nuovamente a ragionare con serietà su come possa funzionare l'economia e la società.
È questa la tesi avanzata nel dissacrante saggio Liberista sarà lei! firmato da Emilio Carnevali e Pierfranco Pellizzetti avanzano (Codice edizione, pp. 131, euro 14). I due giornalisti/studiosi annotano con puntigliosa chiarezza tutti i passaggi che hanno portato gran parte della sinistra europea e il partito democratico statunitense a fare proprio il verbo neoliberista, magari mascherando le politiche sociali di dismissione del welfare state di cui sono stati protagonisti.
Dopo quasi tre decenni di neoliberismo non rimane in piedi quasi nulla dello stato sociale e la crisi dovrebbe almeno alimentare un ripensamento, ma la sinistra democratica continua invece a invocare le virtù del libero mercato che non si sono manifestate perché non sono state decise regole precise sulla libera concorrenza. Certo, un accenno di autocritica è venuto da parte di Romano Prodi, ma a cose fatte, cioè dopo che lo tsunami neoliberista ha privatizzato le imprese pubbliche, deregolamentato il mercato del lavoro, elevando la precarietà a norma universale nei rapporti di lavoro. Una pervicace adesione al neoliberismo alimentata da opinion makers - come Alberto Alesina e Francesco Giavazzi - che hanno pure scritto pamphlet per sostenere che il Liberismo è di sinistra. Ma se di fronte agli scritti di questi apprendisti stregoni si può tirare dritto, chiarezza va fatta sul fatto che la filosofia sociale e morale, ad esempio, di Adam Smith, ha ben poco a vedere con il mainstream liberista, visto che proprio il cantore del libero mercato nelle Teorie dei sentimenti morali invitava gli stati ottocenteschi a intraprendere politiche sociali a favore dei poveri, a tutelare il diritto dei lavoratori a un equo salario e a limitare il potere dei capitalisti.
Dunque, un libro utile, in particolar mondo laddove dissacra la volontà gregaria di molti esponenti politici della sinistra, che dopo la crisi, per contrappasso, devono ascoltare i sermoni di Giulio Tremonti contro gli ultras del libero mercato che mettono a rischio la convivenza civile.
Ciò che invece rimane da comprendere è come un insieme di idee fragili, intrise di pessima ideologia diffuse da personalità intellettuali mediocri sia riuscito a diventare il pensiero dominante per così tanti anni.
Una risposta sta nel fiume di denaro che le grandi multinazionali statunitensi hanno dirottato verso i think thank conservatori che pazientemente hanno costruito l'egemonia culturale neoliberista. E tuttavia è indubbio che le guerre culturali condotte dalla destra statunitense prima e europea dopo sono state vincenti perché hanno prodotto un consenso alle loro teorie. Consenso limaccioso, le cui origini stanno nella reazione rabbiosa dell'establishment industriale e finanziario all'assalto al cielo del Sessantotto. Le fortune politiche del populismo di destra vanno quindi cercate nella sconfitta di quel movimento globale e dal rovesciamento di segno che l'ideologia neoliberista è riuscita a imprimere alla sua promessa di libertà dalla necessità. E nella capacità dei think thank neoliberisti di produrre una vision adeguata alle nuove condizioni sociali e produttive ancorata tuttavia alle nuove condizioni sociali, produttive e culturali prodotte da quel movimento mondiale, non a caso ritenuto il movimento che ha dato la spinta decisiva alla globalizzazione. La forza dirompente del populismo politico e l'ideologia neoliberista non stava quindi nella scientificità della sua concezione dell'economia o della società, ma nella loro capacità politica di innovare le forme politiche e l'organizzazione produttiva attraverso le quali il capitalismo voleva riprendere il comando sulla società.
Benedetto Vecchi
Fonte: www.ilmanifesto.it
24.03.2010
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1 commento:
e li pubblicate pure sti articolacci?
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