Le istituzioni internazionali nate subito dopo la seconda guerra mondiale con gli accordi di Bretton Woods, dal Fondo Monetario Internazionale, alla Banca Mondiale, all’Organizzazione Mondiale per il Commercio, negli ultimi anni hanno teso a confrontarsi con difficoltà crescenti, che vanno dalla contestazione delle regole neoliberiste spinte del Washington Consensus - incarnato pienamente da tali organismi - sino alla concorrenza da parte di organismi finanziari alternativi, in particolare per quanto riguarda la Banca Mondiale.
Difficoltà che sono arrivate sino a mettere in discussione la loro stessa sopravvivenza. La crisi in atto ha accentuato alcuni di tali problemi, anche se il Fondo Monetario Internazionale ha per la verità visto il suo ruolo e le sue risorse incrementati di recente dal G-20; il Fondo sembra oggi, per alcuni aspetti, la parte meno caduca della costruzione di Bretton Woods. Più in generale, le novità che nelle ultime settimane ruotano intorno a tale ultimo organismo sembrano numerose, sia in positivo che in negativo.
Intanto, dopo che un cittadino dello stesso paese è diventato da qualche mese capo economista della Banca Mondiale, un importante esperto cinese è stato nominato come consulente speciale del Fondo; questa misura, peraltro, va incontro soltanto in minima parte alle richieste che vengono da tempo dai paesi emergenti per una forte crescita del loro ruolo all’interno di tale organismo, come degli altri sopra citati e sembra quasi avere il tono di una beffa, a meno che essa non preluda a decisioni molto più significative sul tema. Si pone da molto tempo la questione delle quote di partecipazione dei vari paesi a tali organismi e quella del dominio esercitato su di essi dagli Stati Uniti e in via ancillare dai paesi europei.
Nel frattempo, si fanno più concrete, anche se esse appaiono ancora un po’ remote, le minacce dello sviluppo di organismi che potrebbero fare concorrenza al Fondo. Così, alla fine del 2009 i paesi membri dell’Asean, insieme a Cina, Giappone, Corea del Sud, hanno creato in comune un fondo di stabilizzazione monetaria per difendere l’area dalle difficoltà della bilancia dei pagamenti e dai problemi di liquidità dei vari stati. Il fondo parte con una dotazione di 120 miliardi di dollari. Si tratta di un’iniziativa certamente e per il momento dai contorni relativamente limitati e varata su basi sostanzialmente sperimentali, ma per molti essa potrebbe con il tempo diventare un vero e proprio fondo monetario asiatico, come titola in proposito ad esempio un giornale cinese.
Nelle ultime settimane, le difficoltà della Grecia hanno poi messo in luce le debolezze della costruzione monetaria europea, per come almeno essa funziona attualmente. Ecco che da qualche parte, in particolare su suggerimento dei politici tedeschi, si affaccia seriamente la proposta della creazione di un fondo monetario europeo, il cui progetto dovrebbe essere preparato per il mese di giugno del 2010 dalla Commissione. Si tratterebbe di uno dei diversi passi necessari per porre su fondamenta adeguate la costruzione monetaria comune. La eventuale messa in opera di tale organismo richiederebbe peraltro del tempo, tempo che sarebbe necessario soprattutto per appianare i numerosi e rilevanti ostacoli politici –la Francia appare palesemente a disagio verso la proposta- e tecnici che si frappongono al progetto. Iniziative non molto differenti stanno intento probabilmente maturando in America Latina.
Resterebbero da definire poi i collegamenti operativi e strategici tra tali iniziative e lo stesso FMI; tutti si affannano a dire che i rapporti sarebbero ovviamente di fruttuosa collaborazione, ma il quadro si presenta come perlomeno confuso ed incerto su tale fronte. Ma un evento più ravvicinato e significativo segna in queste settimane il percorso del Fondo.
Alcuni studi pubblicati da poche settimane da esperti dello stesso Fondo Monetario e che hanno avuto una forte eco nella stampa internazionale specializzata mettono in discussione in maniera decisa due dei pilastri “ideologici” dell’operare tradizionale di tale organismo, pilastri fondamentali di quello che è stato chiamato “Washington Consensus”. Le novità appaiono per diversi aspetti clamorose. Le sintetizziamo qui di seguito.
Intanto, tradizionalmente, il Fondo Monetario era un fanatico sostenitore della piena libertà di movimento dei capitali, imponendo ai paesi in cui interveniva il rigido rispetto di tale regola, che, tra l’altro, bloccava o rendeva molto difficile ai paesi poveri di varare e portare avanti dei piani di sviluppo adeguati per le loro economie, economie che erano così soggette alla erratica volontà dei mercati finanziari; in pochi minuti i capitali arrivati in qualche modo nel paese potevano scomparire dalla vista, creando gravi ripercussioni economiche e finanziarie e costringendo così i vari stati a politiche restrittive invece che di sviluppo. Ora uno scritto firmato da sei studiosi, compreso il vice direttore della ricerca economica del Fondo, pur con molte cautele, sottolinea che i funzionari del Fondo, alla luce anche della crisi in atto, stanno riconsiderando l’opinione che i liberi movimenti dei capitali siano un fenomeno fondamentalmente positivo. Esso sottolinea che tali movimenti possono dare origine a dei danni collaterali, quali bolle di vario tipo, boom e crolli dei prezzi di azioni, obbligazioni, attività immobiliari, materie prime. Lo scritto apre inoltre alla possibilità da parte degli stati nazionali di imporre dei controlli nei movimenti dei capitali, sia pure in certi frangenti ed a certe condizioni.
Un altro scritto, pubblicato questa volta dall’economista capo del Fondo, O. Blanchard, rompe un altro e altrettanto radicato tabù fondamentalista, quello relativo all’inflazione. E’ noto che le banche centrali hanno al centro dei loro obiettivi di lavoro il controllo della stabilità monetaria e dei livelli di inflazione. Un dogma consolidato, anch’esso sostenuto fortemente in passato dal Fondo, era quello che l’inflazione di un paese non dovesse superare il 2% annuo. Ovviamente una soglia di questo tipo, tra l’altro, frenava fortemente gli aumenti salariali, ma più in generale anche forti politiche di sviluppo da parte dei vari governi. Lo scritto afferma tra l’altro che, durante la crisi, più alti livelli di inflazione avrebbero permesso di ridurre la caduta della produzione e della domanda e il deterioramento dei bilanci pubblici; esso suggerisce a questo punto che il livello di inflazione accettabile può raggiungere anche la soglia del 4%, suggerimento che, di nuovo, apre la via a nuove politiche da parte dei governi.
Le banche centrali, peraltro, non hanno in generale gradito molto il suggerimento del fondo; esse, come ad esempio commenta l’Economist del 18 febbraio 2010, hanno passato gli ultimi venti anni a convincere l’opinione pubblica che la politica del 2% era la migliore possibile; anche la Germania si è voltata di traverso.
Attendiamo ora la caduta degli altri tabù in atto, in particolare quello sulla riduzione dell’intervento dello stato nell’economia, quello sul taglio dei bilanci pubblici e quello sull’obbligatorietà delle privatizzazioni. Ma ne abbiamo certamente dimenticato qualcuno. Siamo fiduciosi.
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