Da diverse settimane, ormai, la Grecia è al centro dell’attenzione mondiale, a causa della grave crisi economica che il paese sta attraversando. Analisi più o meno accurate descrivono la situazione della nazione ellenica dal punto di vista quantitativo, ponendo l’attenzione sull’enorme debito pubblico e sul drammatico rapporto tra l’indebitamento e il prodotto interno lordo. Le altre nazioni appartenenti all’area euro guardano nel frattempo con apprensione la situazione della Grecia, consapevoli che in tale momento di grande incertezza economica nessuno può dirsi immune da questo genere di pericoli. Nelle scorse settimane, il governo greco, guidato da Yorgos Papandreou*, ha imposto alla popolazione misure decisamente drastiche, come il taglio di parte della tredicesima e della quattordicesima dagli stipendi dei dipendenti pubblici, l'aumento dell’iva dei prodotti in commercio mediamente del 2%, una sovrattassa su sigarette ed alcolici, nonché un considerevole aumento della benzina, passata in breve tempo dal costo di 1,10 euro al litro a punte di 1,50 euro. Come conseguenza, la popolazione ha risposto, come c’era da attendersi, con ondate di scioperi generali che hanno paralizzato il paese per diversi giorni nell’arco dell’ultimo mese. Tali sollevazioni sono viste da alcuni analisti come la reazione di un popolo vessato che non vuole pagare per le colpe degli speculatori e dei “supercapitalisti”. Ma la realtà dei fatti è leggermente più complessa. Sicuramente la crisi economica che sta attraversando la Grecia rientra perfettamente nel complesso mondiale della grande crisi del 2008, quella definitiva, destinata a cambiare per sempre il modello economico finanziario a cui siamo abituati, ma, oltre a questo innegabile fattore, la crisi in Grecia porta in sé un’altra crisi ancora più profonda, un disastro economico e sociale che ha origini molto lontane, vecchie di secoli, figlie di una cultura che ha assorbito in sé le influenze più distanti. Per capire a fondo cosa realmente succede in Grecia occorre quindi fare un salto nel lontano passato, gettando uno sguardo su quell’impero che ebbe la sua capitale sulle rive del Bosforo.
L’Impero Bizantino non considerava se stesso il legittimo erede dell’ Impero Romano: l’Impero di Bisanzio era l’Impero Romano stesso. Gli Imperatori di Bisanzio non vedevano nessuna frattura tra l’impero dei cesari ed il loro, e chiamavano se stessi romei, ovvero romani. Gli stessi abitanti della penisola greca, governata da Costantinopoli, si consideravano romani, e col termine ellinas, greco, i cristiani bizantini si riferivano ai loro antenati idolatri, in maniera dispregiativa. Ancora fino agli anni 60 del XX secolo era diffuso l’uso del termine “romiòs”, romano, riferendosi ad un greco “autentico”, nato e cresciuto in Grecia. Il meson, o tramite. Fu quindi durante il periodo Bizantino che nacque una prassi destinata a caratterizzare l’organizzazione sociale greca fino ai giorni nostri, ovvero la pratica del “meson”, il “tramite”. L’Impero Bizantino era caratterizzato da un rigido centralismo e da una pesante burocrazia, e gli abitanti delle provincie periferiche avevano grande difficoltà nel far giungere ai funzionari del palazzo le loro richieste e le loro lamentele. Fu così che col tempo prese piede l’abitudine da parte dei sudditi dell’Impero di assegnare alla persona più autorevole della propria comunità il compito di recarsi nella capitale per far presenti le loro richieste; questo rappresentante delegato, il tramite, una volta giunto a Costantinopoli doveva farsi ascoltare a sua volta da altri personaggi influenti che avrebbero avuto il compito di interferire presso i consiglieri dell’Imperatore. Si formava così una piramide gerarchica che partiva dall’Imperatore e a cui sottostavano gruppi sempre più ampi che facevano pressione a quelli immediatamente superiori. Alla fine, chi si faceva ascoltare era il gruppo che aveva le conoscenze migliori, e poteva vantare il meson più influente. Questo sistema, proseguito per secoli, è giunto pressoché immutato ai giorni nostri, ed ha saputo adattarsi perfettamente ai meccanismi della democrazia rappresentativa moderna. Il sistema elettivo greco prevede infatti che ogni provincia elegga un certo numero di rappresentanti che andranno a formare la Vulì, il parlamento di Atene, e a differenza di quello che avviene in altri paesi, come ad esempio in Italia, i parlamentari greci hanno un contatto realmente diretto coi loro elettori. A livello politico i Greci sono scarsamente interessati alle diatribe ideologiche, e il loro voto si fonda unicamente sul calcolo dei benefici che l’elezione di un certo parlamentare potrà portare. Così, nel periodo pre-elettorale, ogni greco entra in contatto con l’entourage del politico di turno e intavola delle trattative: chi può garantire l’apporto di una decina di volti, tra moglie, figli, vecchie zie e parenti vari, ad esempio, potrà chiedere in cambio l’assunzione del figlio in un posto pubblico, o altri favori simili. Nel complesso, la quasi totalità dei greci possiede almeno un conoscente che funge da meson, di alto o medio livello, ed in tal modo tutti sono coinvolti nelle vicende politiche del paese in modo diretto. Al termine delle elezioni, quindi, i parlamentari eletti del partito vincitore sono tenuti a tener fede alle promesse, e questo puntualmente avviene. Si assiste così, inevitabilmente ad ogni cambio di governo, un discreto licenziamento di statali assunti dagli avversari politici a cui si sostituiscono i propri raccomandati. Ancora più frequentemente, vengono creati posti pubblici dal nulla per poter accontentare tutte le promesse elettorali: in questo modo, il numero degli impiegati pubblici in Grecia ha raggiunto una cifra totalmente slegata dalle reali necessità del paese, con la presenza di in media tre/quattro lavoratori che svolgono il compito che potrebbe essere portato a termine da uno solo di loro. Va da sé che in un simile sistema la corruzione sia la norma, tanto da essere diventata prassi usuale ed accetta a tutti i livelli della società: pagare degli extra per ricevere servizi dalla pubblica amministrazione è ritenuto normale, dagli sportelli del fisco fino alle bustarelle ai medici degli ospedali pubblici (per questi ultimi vi sono anche dei tariffari ufficiosi: 500/600 euro da pagare al chirurgo che compie una operazione, 50 euro all’anestesista, 50/100 euro agli infermieri per essere trattati umanamente). La Grecia di oggi è quindi essenzialmente un paese che produce poco, la cui ricchezza reale giunge dai proventi del turismo e dell’agricoltura, e dove la maggioranza dei lavoratori è assunta in impieghi ottenuti tramite raccomandazioni, lavori spesso senza alcuna utilità creati appositamente per dare una occupazione alla popolazione. Ma tutto questo rappresenta solo una parte delle origini della situazione greca. Per comprendere ulteriormente la situazione attuale, occorre nuovamente spostarsi nel passato. La vita giorno per giorno
Nei primi secoli del II millennio, mentre l’Europa Occidentale conosceva un periodo di lento ma costante sviluppo economico e sociale, le provincie amministrate dall’Impero Bizantino sperimentavano una economia prettamente agricola dal basso rendimento e gravata dall’imposizione delle tasse del governo centrale, il che portava la maggioranza della popolazione a vivere ai limiti della sussistenza. All’incirca dal XII secolo in poi, inoltre, l’Impero Bizantino entrò in una crisi irreversibile, impegnato in una dura lotta per la propria sopravvivenza, una lunga agonia che condurrà alla sua definitiva scomparsa per opera dei turchi ottomani, che entrarono da conquistatori in Costantinopoli del 1453. Con la conquista ottomana, quindi, nel medesimo periodo storico in cui l’occidente sperimentava il Rinascimento, la Grecia e i Balcani cadevano sotto un dominio straniero, e i nuovi padroni si dimostrarono ancor più disinteressati rispetto al precedente impero delle sorti e del miglioramento delle condizioni di vita delle genti sottomesse. Nei Balcani il tempo quasi si fermò per quattro secoli, e la Grecia rimase pressoché estranea a tutte le rivoluzioni sociali che nel frattempo si manifestavano nel resto d’Europa. La guerra d’indipendenza greca del 1821 e il successivo formarsi dello stato greco videro quindi l’entrata ufficiale in Europa di una nazione che poco aveva in comune coi suoi vicini occidentali. I greci avevano mantenuto la propria identità essenzialmente attorno alla propria fede ortodossa, ma culturalmente il popolo greco era un complesso amalgama di tradizioni occidentali ed orientali: i greci erano europei ed asiatici nello stesso tempo, come ancora testimonia la musica popolare, e costituivano una nazione i cui membri nella loro grande maggioranza nulla avevano in comune con la mentalità imprenditoriale – produttiva dell’Europa centrale. La stessa rivoluzione industriale in Grecia non è mai giunta, e il paese si presenta tutt’ora con un settore secondario poco sviluppato. Da sempre abitanti di una nazione sostanzialmente povera, i greci svilupparono un loro particolare approccio alla vita, fondato essenzialmente sul vivere alla giornata e sul godere dei pochi averi nel presente, in una dimensione temporale che lasciava poco spazio al futuro remoto. Questa era ancora la Grecia quando arrivò il periodo del grande cambiamento, la reale anticamera della crisi scoppiata oggi. Era la fine degli anni 70, e la Grecia era ancora caratterizzata da una certa povertà diffusa dai tratti dignitosi, dal momento che perlomeno era stata raggiunta l’ autosufficienza alimentare. Tutto cambiò nel 1981, con l’entrata della Grecia nella comunità Europea. La grande festa europea La Comunità Europea all’epoca era composta da stati economicamente forti, dotati di un settore secondario altamente produttivo e competitivo. La Grecia entrava nella famiglia come il parente povero, bisognoso di sostegno per raggiungere lo status degli altri membri. E gli aiuti arrivarono, assai copiosi, sotto forma di sovvenzioni. Iniziò quindi negli anni ottanta un flusso notevole di fondi europei che giungevano in Grecia per fare in modo che venissero compiuti gli investimenti necessari per l'ammodernamento del paese. E i Greci, nella grande maggioranza, dai politici più altolocati fino ai dipendenti pubblici e ai contadini, fecero quello che farebbe chiunque non avesse mai avuto soldi tra le mani e si ritrovasse all’improvviso a gestire un certo patrimonio: fecero festa. I soldi delle sovvenzioni , invece che investiti, venivano distribuiti nei diversi livelli della scala gerarchica: i politici altolocati si prendevano la fetta maggiore, e poi via via scendendo fino alle classi più umili. Tutti, però, ebbero la loro fetta. I greci, in questo modo, nel giro di venti anni raggiunse lo status sociale delle altre nazioni europee: si diffusero le automobili, i vestiti di marca, si ammodernarono le città e le abitazioni, e ci si divertiva molto. l settori della ristorazione e dello svago prosperarono. Il tutto, però, veniva fatto con soldi che non riflettevano il vero stato della ricchezza della nazione. Nel frattempo, per sostenere il nuovo status raggiunto, il debito pubblico cresceva in maniera esponenziale, senza sosta e senza ritegno, finché, con lo scoppio della crisi, e il livello del debito totalmente fuori controllo, la realtà ha bussato alla porta della Grecia. Ecco quindi l’origine della situazione ellenica attuale, una situazione in cui nessuno è a suo modo “innocente”. Ovviamente, le colpe dei governanti, corrotti oltre ogni limite mentalmente immaginabile e totalmente incoscienti nel guidare una intera nazione al baratro, sono in proporzione enormemente maggiori rispetto a quelle del singolo cittadino che semplicemente si è ritrovato dentro un gioioso bengodi. La colpa delle persone comuni, semmai, è stata quella di non aver mai riflettuto sull’origine della propria ricchezza, e di aver accettato senza eccessive rimostranze la pratica di corruzione generale, nonché il sistema di favori diffuso ad ogni livello, considerando normale e socialmente accettabile trovare un lavoro fisso presso un ente pubblico grazie alla raccomandazione del proprio meson, oppure dover pagare bustarelle per poter sbrigare perfino le più piccole pratiche burocratiche. Ed è per questo, ed è un parere di greco sui greci, che non occorre commuoversi troppo alla vista dei manifestanti che ora scendono per strada affinché sia garantito il livello di vita a cui si erano abituati. La festa è finita, e da veri greci non resterà altro che ri-abituarsi a vivere alla giornata, tornare a coltivare i campi – compito delegato negli ultimi anni esclusivamente a rom ed extracomunitari – e magari prendere in mano il bouzouki e scrivere una bella penià** sui bei tempi che abbiamo passato, dopo esserci divertiti al ritmo del tsifteteli***.
*figlio di Andreas Papandreou, fondatore del partito socialista greco, a sua volta figlio di Yorgos Papandreou, altro storico protagonista della politica greca della prima metà del XX secolo. In Grecia la democrazia garantisce a determinate famiglie la tenuta del potere molto meglio di quanto potè fare la monarchia coi re del XIX e del XX secolo **canto malinconico in cui si esprime il proprio dolore e ci si lascia andare ad una certa, dignitosa, autocommiserazione. ***diretto discendente della danza del ventre orientale, è il ballo a cui più volentieri si lasciano andare le giovani donne greche nei locali di divertimento.
1 commento:
mi ricordo metà anni 80, quando ventenne studente di economia andavo in vacanza in Grecia. Bellissima e povera, rispetto all'Italia di allora. L'altro giorno ho visto che nel 2009 il reddito pro-capite greco é superiore a quello italiano...mah, qualcosa non va...che producono in Grecia?che esportano? Mi sa che hanno artificiosamente gonfiato i redditi con debiti e sussidi europei...un po' come il nostro mezzogiorno....
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