Islanda, Grecia e Polonia, tre Paesi alla periferia dell’Europa, tre diverse esperienze nella crisi, che aiutano a capire i costi, i benefici e il futuro dell’euro a un decennio dalla nascita dell’unione monetaria. La Polonia è l’unico dei 27 Paesi dell’Unione europea a chiudere il 2009 con un + davanti alla crescita. Un’intelligente politica economica ha combinato un forte taglio delle tasse per sostenere i consumi, con un deprezzamento del cambio che ha fatto sì che l’aumento dei consumi non si trasformasse in maggiori importazioni ma in domanda per le imprese di casa. Se la Polonia fosse già nell’euro, indebolire il cambio per sostenere l’economia non sarebbe stato possibile. La Grecia è sull’orlo di una crisi di debito. Diversamente dalla Polonia sarà l’euro a salvarla. Innanzitutto perché la Banca centrale europea ha continuato ad accettare titoli greci come garanzia sui propri prestiti alle banche di Atene anche quando il debito greco ha cominciato a scricchiolare. Ma soprattutto perché la paura degli effetti di un default, con la probabile conseguenza di un’uscita dall’euro, ha dato al governo greco la forza necessaria per una svolta e l’avvio di un piano di stabilizzazione fiscale. Ieri l’altro Jürgen Stark, membro tedesco del consiglio direttivo della Banca centrale europea, ha detto a Il Sole 24 Ore: «Non si illudano i greci che l’Europa li salvi». In realtà li salverà, un po’ per la reazione positiva che la crisi sta provocando in Grecia, un po’ perché, se la Grecia dovesse uscire dall’euro, imercati comincerebbero subito a chiedersi: chi sarà il prossimo? E l’Unione monetaria potrebbe disfarsi. Un anno fa, nel momento più grave della crisi, l’Islanda chiese di poter avviare il processo di ammissione all’euro, pensando che l’appartenenza all’Unione monetaria avrebbe potuto evitare una crisi sul debito. Era evidentemente un’illusione: la dimensione delle prime banche greche non raggiunge la metà del Prodotto interno lordo; quella delle due sole banche islandesi è pari a dieci volte il Pil. Mentre la Grecia, con un po’ di aiuto e di pressione dal resto dell’Europa sarà in grado di rimettersi in piedi, questo in Islanda è impossibile. Ieri a Reykjavik il presidente della Repubblica si è rifiutato di firmare una legge che impegnava il Paese a onorare i debiti contratti dalle sue banche, ora nazionalizzate. Se l’Islanda fosse stata nell’euro, probabilmente avrebbe firmato e, secondo me, avrebbe sbagliato. Perché i pescatori islandesi dovrebbero sopportare le conseguenze della follia scellerata dei banchieri loro concittadini? Gran parte dei debiti delle banche islandesi sono depositi in conto corrente di amministrazioni locali britanniche che non si sono mai chieste perché un conto corrente nella filiale inglese di una banca di Reykjavik pagasse un tasso d’interesse doppio o triplo rispetto all’analogo deposito alla Barclays. Perché quei pescatori dovrebbero pagare per la stupidità di questi amministratori pubblici? La crisi ha rafforzato l’euro ma ha anche sfatato alcuni miti. Appartenere all’unione monetaria non è sempre necessario: se l’economia è solida, come lo è quella polacca, mantenere la flessibilità del cambio può dimostrarsi uno strumento molto utile. Il maggior beneficio dell’euro, come insegna la crisi greca, è lo sprone a fare le riforme. Ma poi bisogna farle. L’Europa non può farle per noi. |
Il banchiere e il pescatore (Islanda, Grecia e Polonia)
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