Gli effetti della crisi economica non sono eguali per tutti e, soprattutto, non lo sono per le banche le quali continuano a godere di una certa impunità e del sostegno della mano pubblica, nonostante che gli indizi di colpevolezza, sin dal principio di questo prolungato periodo d’instabilità finanziaria, abbiano condotto ai loro “sportelli”. Ad ogni modo, le cose non stanno proprio così, del resto abbiamo già esplicitato le ragioni secondo cui il crollo sistemico non possa essere sceverato o chiarito solo facendo riferimento alla sfera degli scambi, né, tantomeno, ad elementi psicologici e moralistici come la disonestà degli operatori di borsa, il raggiro bancario, l’avidità dei manager o, ancora, la sconsideratezza delle autorità statali di controllo che hanno svolto male (o per niente) il loro compito, anche per carenza di un quadro di riferimento normativo adeguato allo scopo. Dette bestialità sono parte integrante di un piano di mistificazione ideologica che, confondendo i livelli di comprensione e instillando nell’analisi obiettiva i germi del romanticismo economico, impedisce di individuare le vere origini dello sconquasso finanziario della fase. Sulla stessa lunghezza d’onda, per espressa coerenza, dobbiamo collocare i discorsi enfatici dei leader mondiali, i quali si richiamano ad un impegno fattivo e unanime di necessaria revisione delle norme in materia finanziaria solo per simulare l’esistenza di un precedente impianto di regolazione che, in realtà, non ha mai avuto evidenza. Difficile, se non impossibile, riformare quel che non esiste; si tratta di una ennesima sofisticazione semantica che svela bene lo spirito lestofantesco col quale i nostri governanti stanno recitano la parte dei redentori. Tutti questi elementi, chiamati in ballo per rappresentare la scena della crisi mondiale, scaturiscono comunque da cause ben più radicate nel periodo storico che, solo in prima battuta, sono riconducibili ai meccanismi della sfera economica. L’adozione di parametri teorici meno “epidermici”, come quelli da noi proposti con la teoria degli agenti strategici, ci permetterà di cogliere il senso della svolta epocale innalzato a testimonianza dal default finanziario, il quale, al massimo, traccia i contorni di quella fondamentale transizione dal monocentrismo americano al multipolarismo geopolitico, implicante la ridefinizione degli equilibri strategici tra attori nazionali sul piano globale. Se questo è verosimile occorre allora spostare, con urgenza, la cornice dei problemi, oggi ancora impressi su uno sfondo economicistico, sulle altre sfere umane al fine di inquadrarne meglio la genesi politica e sociale. Stante questa situazione è evidente che le regole del gioco debbano necessariamente saltare, così come debba venir meno la disponibilità dei singoli Stati (a prescindere dal chiacchiericcio querulo sull’unità delle prospettive generali) ad adattarsi alle decisioni dell’ex Paese predominante, il quale tenta, tenta sempre, di ricondurre (per ora con risultati assai modesti), i profondi cambiamenti in corso nell’alveo di una visione più congeniale alla sua egemonia. Gli Usa mirano ad imporre i loro interessi particolari rivestendoli di un destino universale ma l’appeal verso questo paese, anche da parte dei suoi sempiterni alleati, dipende sempre meno dalla sua autorità morale e sempre più dal rischio di una reazione militare: l’America parla di globalizzazione e di collaborazione tra i governi e poi ricorre al protezionismo per recuperare posizioni di privilegio (come nei confronti della Cina), richiama tutti al rispetto dei principi del mercato e inonda di dollari le sue banche in difficoltà, chiede una politica finanziaria meno predatoria (accusa rivolta ancora una volta alla Cina) e poi si fa dettare l’agenda politica dagli amici da Wall Street. Nel frattempo, giustificandosi col pacifismo obamiano, sanzionato con un nobel alle buone intenzioni, inasprisce i conflitti regionali con l’intento di rallentare l’avanzata di potenze riemergenti come la Russia o emergenti come la stessa Cina. Ed è precisamente su quest’ultimi temi che si deve concentrare la nostra attenzione per cogliere le avversità e le opportunità aperte dal momento storico. Solo chi è cieco di fronte all’evoluzioni del tempo multipolare può sbalordirsi dello scarto che si genera costantemente tra intenzioni dei decisori globali, verbosamente orientate alle soluzioni comuni in campo economico, e impossibilità di sintesi tra differenti approcci nazionali, i quali ci risentono, inesorabilmente, del diverso “dosaggio” dei rapporti di forza sullo scacchiere sopranazionale. A maggior ragione non dobbiamo inseguire i vaneggiamenti dei soliti esperti che parlano di riprese, ripresine, di exit strategy ed altre scempiaggini di stessa tipologia miranti a convincerci che dal caos finanziario si verrà fuori grazie alle loro magiche formulette contabilistiche e alla volontà solidale dei governi. Stiamo attenti a come si muoveranno banche e speculatori perché di riflesso, da tutto ciò che questi otterranno o non otterranno, dedurremo l’inclinazione dei diversi Stati a perseguire una politica di maggiore o minore indipendenza dal vecchio sistema.
DAL BLOG DI MARCELLO FOA NE IL GIORNALE ON LINE A fine anno non leggo mai le previsioni economiche per l’anno nuovo. Raramente sono affidabili. Gli esperti pensano di prevedere il futuro guardando esclusivamente nello specchietto retrovisore, come se la strada percorsa fino a quel momento dovesse continuare all’infinito. E questo spiega, tra l’altro, perchè quasi nessuno ci azzecchi. Quel che mi ha colpito in questi primi giorni del 2010, dando un’occhiata ai titoli e ascoltando scampoli di trasmisionni radiofoniche e televisive, è la ripetitività delle analisi. Tutti parlano di “ripresa lenta”, di “exit strategy”. Tutti sono pronti a darci lezioni, soprattutto gli esperti che hanno esaltato il capitalismo finanziario e speculativo anglosassone, presentandolo come la panacea dei nostri mali. Oggi quegli stessi signori avvertono che l’Europa è vecchia, che non sa adeguarsi alla globalizzazione e, con accenti colpevolisti, ammoniscono a “rimettere in ordine i bilanci statali”, come ha fatto ad esempio il vicesegretario dell’Ocse, l’italiano Pier Carlo Padoan, in una recente intervista, secondo cui “sarà necessario aumentare le tasse per riequilibrare i conti”. Notate l’ipocrisia: questa crisi non è stata provocata da forsennate spese dei singoli Stati, ma dalla necessità di coprire le voragini provocate dalle banche. Missione compiuta, dicono gli esperti. Il sistema è salvo. Ma nessuno, né l’Ocse, né il Fmi, né la Banca mondiale accenna a quella che dovrebbe essere una regola di buon senso. Se il sistema è davvero salvo, a pagarne i costi dovrebbe essere innanzitutto chi ha provocato il dissesto, dunque certe ben note banche di Wall Street, che operano in tutto il mondo. E invece tutto è tornato come prima; anzi peggio di prima, come dimostrano i bonus da 140 miliardi di dollari elargiti quest’anno proprio da quelle banche. Il vero potere è rimasto nelle loro mani, anzi è persino aumentato, perché ora hanno la certezza che qualunque errore commettano, gli Stati non le lasceranno fallire. L’importante è che l’opinione pubblica non se ne avveda. Chi bada più a loro? Nessuno: dobbiamo gioire per la ripresina ed essere pazienti, mettendo mano al portafoglio. Ce lo dicono i soliti guru. Ci hanno mazziato e ora ci distraggono. Ammansiti a dovere. O sbaglio? ilsole24ore NEW YORK – Non è stato un regalo gradito quello che ha ricevuto Goldman Sachs dal New York Times il giorno di Natale: il quotidiano ha rivelato retroscena inediti dell’operazione Baucus, ideata già alla fine del 2006 da Jonathan Egol un giovane di 39 anni considerato un astro nascente dell’istituto. L’idea: impacchettare in strumenti “sicuri”, mutui immobiliari sempre più rischiosi, subprime inclusi, per poi venderli ai clienti. Chi comprava fidandosi del marchio Goldman non sapeva che la Banca, oltre a scaricare un rischio, stava già scommettendo contro lo stesso strumento, contribuendo alla caduta del mercato. Più gradito il regalo del Financial Times, che ha invece nominato Lloyd Blankfein, il numero uno di Goldman, uomo dell’anno 2009. Una nomina tuttavia sospetta vista la vicinanza dei vertici dell’Ft a quelli di Goldman e visto che la stessa Goldman considerò tempo fa di acquistare il giornale . La vicenda del “doppio gioco” sui CDO (Collaterized Debt Obligations) di Goldman era nota e ne abbiamo scritto ampiamente su queste pagine. Ma non c’erano ancora i nomi o i dettagli. Secondo il Times altri facevano la stessa cosa, Morgan Stanley o fondi come Tricadia, che faceva capo a Lewis Sachs, che svolge oggi consigliere speciale del segretario al Tesoro Tim Geithner. Goldman però fu la più aggressiva nella vendita, e, soprattutto, nello scommettere contro i suoi strumenti. Altri, ad esempio il fondo di J.Paulson scommettevano su una caduta del mercato immobiliare in modo aggressivo, ma non contro i propri clienti. Una differenza etica e di “trasparenza” non da poco. E per Goldman, già nell’occhio del ciclone per aver accumulato profitti ingenti grazie a operazione di trading favorite dagli aiuti dello stato e per aver stanziato miliardi di dollari da distribuire in bonus ai banchieri, si apre un nuovo fronte nella sua crisi di immagine.
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