Nel Marzo del 2000 fu lanciata la strategia che doveva fare entro il 2010 dell’Europa l’economia più dinamica e competitiva. Purtroppo le cose sono andate diversamente, e non solo per colpa della crisi. Dati alla mano, hanno fallito tutti. Ma il nostro Paese più degli altri
Il 3 marzo 2000 il Consiglio europeo lanciò la strategia di Lisbona, il piano di sviluppo che avrebbe dovuto fare dell’Unione “la più dinamica e competitiva economia basata sulla conoscenza del mondo, capace di una crescita economica sostenibile con un numero maggiore e migliore di posti di lavoro, una maggiore coesione sociale, e rispetto per l’ambiente entro il 2010″. Purtroppo da tempo si sa che è stato un fallimento: già l’anno scorso il primo ministro svedese, presidente pro tempore dell’Unione europea, aveva detto che ”anche se sono stati fatti progressi, ad un anno dal 2010, la strategia di Lisbona è fallita”.
COM’E’ ANDATA L’ITALIA? – In occasione del decennale, il Presidente della Commissione Europea Barroso, ha deciso di rilanciare, proponendo una nuova strategia “Europe 2020: a new economic strategy” (disponibile anche in italiano) e di fatto spostando di 10 anni il traguardo di cui si discuterà a fine mese in un nuovo Consiglio Europeo. Ma è utile anche fare un bilancio dei risultati di questo decennio. Per vedere cosa è successo in Europa e soprattutto come è andata l’Italia basta analizzare gli indicatori scelti 10 anni fa per misurare i progressi verso gli obiettivi di Lisbona. Si tratta di oltre 100 indicatori, scelti all’inizio del processo e quindi non strumentalizzabili, divisi in 6 aree: background economico, ricerca ed innovazione, riforma economica, occupazione, coesione sociale ed ambiente. Tra di loro sono stati selezionati in questa lista gli indicatori “chiave”. E’ possibile farsi un giudizio sull’andamento del nostro Paese. E di chi in questi anni lo ha governato, a partire da Silvio Berlusconi, che ha governato 7 anni su 10.
CROLLANO PIL PROCAPITE E PRODUTTIVITA’ – La prima area misura la prosperità economica dei diversi paesi, utilizzando molti indicatori, tra cui il debito pubblico, il tasso d’inflazione, il tasso di crescita dell’occupazione. I due indicatori “chiave” sono il livello di Pil pro capite e la Produttività del lavoro per occupato. Nel Pil pro capite, l’Italia nel 2000 si trovava nettamente al di sopra della media dei 27 paesi mentre nel 2008 il valore scende ad un livello prossimo alla media europea: fatta 100 la media UE 27, l’Italia passa da un valore di 116,9 ad uno di 101,8. La causa di questo arretramento relativo è la crescita lentissima del Pil italiano tra 2000 e 2007 a cui è seguita la consistente caduta, unico tra i paesi europei, già dal 2008. Il valore della produttività del lavoro per l’Italia mostra anch’esso un calo enorme: si passa da un valore di oltre 27 punti percentuali superiore alla media della Ue ad uno sempre più elevato, ma di appena l’8%. Paesi che avevano valori simili ai nostri, come Francia e Belgio, ora ci appaiono lontanissimi. Anche la crescita dell’occupazione italiana di questi anni è quindi stata un’occupazione “povera” che crea proporzionalmente poca ricchezza. L’Italia in questa area ha una performance sconfortante, che da sola rappresenta perfettamente il declino italiano.
BASSA SPESA IN RICERCA E INNOVAZIONE – Nell’area ricerca ed innovazione si misura lo sviluppo dei diversi paesi nell’economia della conoscenza e delle nuove tecnologie, utilizzando numerosi indicatori tra i quali la spesa in risorse umane, i laureati in materie scientifiche, la spesa in ICT. I due indicatori chiave sono la spesa in ricerca e sviluppo e la percentuale di popolazione giovane con diploma di scuola superiore. Nella percentuale di spesa in ricerca e sviluppo l’Europa è rimasta in generale molto lontana dagli obiettivi fissati. Ma all’interno, accanto a paesi che avevano già investimenti consistenti come la Germania, che passa dal 2,27% al 2,63% di spesa in R&S in rapporto al Pil, o Francia, che scende lievemente ma resta comunque sopra al 2%, l’Italia parte da un livello molto basso nel 2000 1,05 per arrivare ad un misero 1,18% a fine periodo. E’ andata un po’meglio nell’evoluzione delle percentuale di giovani tra 20 e 24 anni che conseguono un diploma di scuola superiore. Nell’Europa a 27 si passa dal 76,5% del 2000 al 78,6% del 2008, in Italia si partiva dal 69,4% al 76,5%. Un buon passo in avanti, ma sempre considerando che in Francia, per esempio, questa percentuale sale all’83,4%. E dando una rapida occhiata agli altri indicatori, si nota che in molti – dalla Spesa in ICT, alla diffusione della Banda larga, alla concessione di brevetti – l’Italia non solo è indietro rispetto alla media europea, ma perde terreno anche nei confronti di paesi di seconda fascia. Il decennio 2000-2010 ci vede bocciati (più degli altri) anche in quest’area.
PREZZI SU, INVESTIMENTI FERMI – L’area Riforma economica misura la dinamicità delle economie e la concorrenza nei mercati con molti indicatori, tra i quali i prezzi dell’energia elettrica, delle telecomunicazioni, della demografia d’impresa. I 2 indicatori chiave sono la comparazione nel livello dei prezzi e gli investimenti delle aziende. Se guardiamo al sistema dei prezzi, l’Italia registra una performance molto negativa. Infatti, partendo da un dato lievemente al di sotto della media europea nel 2000, a fine periodo il livello dei prezzi italiani è più alto del 9% rispetto alla media. E mentre tutti i grandi paesi registrano un percorso virtuoso di abbassamento del livello dei prezzi, l’Italia è l’unica a registrare un trend inverso e negativo. Impressionante il confronto con il prezzo dell’energia. L’analisi della percentuale di investimenti sul Pil è invece meno negativa: il dato si mantiene sostanzialmente in linea con la media europea e con quella di Germania e Francia. Ma è tutt’Europa a non avere fatto progressi rispetto agli obiettivi fissati. In questo caso, mal comune non è mezzo gaudio. Da noi, in più, va segnalato un tasso decisamente più basso della media nella vivacità imprenditoriale.
MALE L’OCCUPAZIONE E TROPPA PRECARIETA’ – L’area Occupazione misura invece i progressi per una piena e buona occupazione, con tanti indicatori, divisi anche per genere, tra i quali la diffusione del life-long learning, degli incidenti sul lavoro, delle discriminazioni di genere e dei livelli di performance occupazionali. Gli indicatori chiave sono il tasso di occupazione per genere e i livelli occupazionali dei meno giovani, sempre per genere. Il tasso di occupazione in Italia è passato dal 53,7% al 58,7% della popolazione “attiva”. Un miglioramento, ma molto lontano dall’obiettivo (70%), dalla media dell’Europa a 27 (65% nel 2008) e ben al di sotto dei livelli di Germania (70,7% nel 2008), Francia e Spagna (65%). E mentre negli altri paesi, pur mancando l’obiettivo, il tasso di occupazione è cresciuto di circa 8-10 punti percentuali, da noi il progresso è stato inferiore, di appena 5 punti. Il divario crescente tra Italia e resto d’Europa è dovuto interamente alla componente femminile: il tasso di occupazione maschile è simile a quello della media europea. Siamo messi male anche rispetto all’occupazione delle persone con più di 55 anni: in Italia cresce nel decennio dal 27% al 35%. Ma nella media Ue 27 essa è pari al 45%. Queste performance poco lusinghiere sono state ottenute nonostante le riforme fatte in questi anni: l’obiettivo non è stato raggiunto, mentre è aumentato il livello di precarietà, in modo non sempre giustificato.
UNA SCARSA COESIONE SOCIALE – L’area coesione sociale misura i progressi compiuti sul versante del welfare nei vari paesi europei, attraverso diversi indicatori tra i quali la disuguaglianza del reddito, l’abbandono precoce degli studi, le famiglie senza lavoro. I 3 indicatori chiave sono la quota di persona e rischio povertà, le divergenze regionali nei livelli occupazionali, e il livello di disoccupazione di lungo periodo per genere. Nella quota di popolazione a rischio povertà l’Italia resta inchiodata per l’intero decennio su una quota di popolazione pari al 19%, superiore alla media europea a 27 (17%). In verità, pochi paesi hanno realizzato progressi, ma partivano da basi migliori: la Francia è intorno al 13%, la Germania intorno al 16%. Peggio di noi, fanno solo i paesi di nuova adesione e la Spagna. Per le divergenze tra le regioni, l’Italia detiene il primato di essere la peggiore nazione europea, con una differenza di circa 16 punti percentuali, rispetto ai 10 della media UE 27. Nella disoccupazione di lungo periodo, nonostante il buon progresso (l’Italia passa da un tasso del 6,3% ad uno del 3,1%) siamo ancora distanti dalla media Ue 27 (2%). Anche negli altri indicatori non va bene: ad esempio, siamo in media (ma sotto tutti i principali paesi europei) nella disuguaglianza dei redditi, molto al di sopra della media (anche se in miglioramento nel tempo) nel tasso di abbandono scolastico.
Nessun commento:
Posta un commento