"Vedo la fine del modello cinese" (intervista a F. Fukuyama)
Lo studioso che previde il tramonto delle ideologie registra uno spostamento di potere da Occidente verso l´Asia Ma non una rivoluzione: "Non ci sarà l´egemonia di Pechino: quel sistema non porta nessuna giustizia sociale" L´India ha un impianto democratico più solido e decide con più lentezza
Egemonia cinese? Non così alla svelta. Francis Fukuyama, l´uomo che aveva previsto la "fine della storia", ovvero l´annientamento di tutte le ideologie da parte dell´irresistibile liberaldemocrazia, non vuole bissare la profezia su Pechino superpotenza unica. Perché l´Impero di mezzo va avanti come un treno ma ha al suo interno debolezze strutturali che potrebbero farlo deragliare. «Anche il modello anglosassone nel 2006-2007 sembrava invincibile, e poi abbiamo visto cos´è successo» dice al telefono da Washington il professore di studi internazionali alla Johns Hopkins University, «e non possiamo escludere di dover assistere a una futura bolla cinese».
Il tema è però entrato stabilmente nella pubblicistica. When China Rules the World del britannico Martin Jacques ha fatto molto discutere. È solo un titolo ad effetto o c´è dell´altro?
«È in atto uno spostamento di potere importante, dagli Stati Uniti e dall´Europa verso l´Asia. Tutti i Paesi devono farci i conti. Ma il grande entusiasmo con cui alcuni ne parlano rischia di gonfiare a tal punto la realtà da mettere in secondo piano il ragionamento di quanto dominante potrà essere la Cina nel lungo periodo. A questo proposito vedo alcune debolezze strutturali».
Può dirci quali sono?
«La prima riguarda il modello economico. Il "capitalismo autoritario" è estremamente efficace nel guidare la crescita. E anche nel rispondere alla crisi economica. Di recente il Financial Times ha scritto che la Cina oggi investe metà del prodotto interno lordo in infrastrutture. È una quota che può andare bene se sei piccolo come Singapore, altrimenti è una percentuale folle, insostenibile. La ricchezza improvvisa ha provocato anche da loro una bolla immobiliare che peggiorerà nel prossimo semestre e potrebbe esplodere. E se la disoccupazione continua a peggiorare saranno guai seri».
Quindi, modello economico e contraccolpi politici. Poi?
«Il fatto che la Cina non sta esportando un´idea forte. Il comunismo, sino a quando è esistito in Unione sovietica e in Cina, con i suoi ben noti limiti era un´idea seducente. Nel mondo o si seguiva quella o il liberalismo, di cui gli Stati Uniti sono stati portabandiera. Il modello cinese attuale non è né molto chiaro né facilmente esportabile. Piace a molti Paesi emergenti perché non si preoccupano dei diritti civili. In Africa va forte perché ci sono molti dittatori. Ma non è certo un sistema di giustizia sociale e anzi crea una forte instabilità. Per questo, non riuscendo a proiettare una vera visione di futuro, non può diventare egemonico».
Altri punti deboli?
«La legittimazione interna. Ogni anno si verificano varie migliaia di scontri sociali, provocati da situazioni di danni ambientali, corruzione, diritti del lavoro negati. La maggior parte sono repressi senza che se ne sappia niente. Ma tuttavia lasciano profondi guasti nella pubblica opinione. Un Paese non può funzionare senza la fiducia nella responsabilità democratica (accountability), la convinzione che chi sbaglia paga».
Lei dice: non avere contrappesi democratici fa correre veloci ma alla lunga non conviene, è così?
«Se non devi rendere conto a nessuno, se non hai remore democratiche, prendi le decisioni in maniera molto rapida. A spese della tua legittimazione, però. L´India da questo punto di vista è diversa: ha un impianto democratico più solido. Non è corretto, dunque, giudicare la forza relativa di un regime solo quando le cose vanno bene e l´economia tira. Detto ciò, credo che noi occidentali abbiamo un problema nel prendere le decisioni. Ci sono così tanti pesi e contrappesi qui in America che non riusciamo a decidere niente. È una questione che va risolta ma certo non adottando il modello cinese».
Pechino è molto consapevole della sua potenza economica. Si è sbarazzata di buoni del Tesoro americano per 34 miliardi di dollari però entra sempre più nel vostro salotto buono, dalla Apple a Citigroup. Dobbiamo capire che non si fida della vostra politica ma del capitalismo sì?
«Il debito americano è una spada a doppio taglio. Ci ha consentito di mantenere il nostro tenore di vita ma ha anche alimentato la bolla finanziaria. La lezione da trarne per il futuro è di limitarlo a livelli ragionevoli. La crisi ha indebolito il dollaro e forse lo farà ulteriormente nel futuro prossimo. Sembra quindi molto ragionevole che il governo cinese si preoccupi della bontà del suo investimento e riduca l´esposizione, diversificando».
Oltre all´industria ora però c´è anche la cultura. Uno studio recente sulle pubblicazioni scientifiche internazionali ha predetto che la Cina sarà leader nella produzione di conoscenza nel 2020. Possibile?
«Sì, ma non sono convito che diventeranno una minaccia per noi. Sin qui il loro gioco è stato quello di rincorrere. In vari settori hanno fatto forti investimenti con buoni risultati ma devono ancora dimostrare la loro capacità di innovare come in America e in Europa. Se poi aggiungiamo l´assenza della proprietà intellettuale e il fatto che il regime incoraggia pochissimo l´innovazione i dubbi aumentano. La vera innovazione intellettuale ha bisogno di ambienti particolarmente propizi, come la Silicon Valley. I soldi sono importanti ma non bastano». L´ULTIMa puntata dell´inchiesta "L´egemonia asiatica", l´intervista al sociologo britannico Anthony Giddens, ex direttore della London School of Economics, è stata pubblicata il 4 marzo scorso. La prossima puntata sarà l´intervista a Orville Schell, direttore dell´Asia Society di New York.
Riccardo Staglianò
Fonte: www.repubblica.it
10.03.2010
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