Pechino supera la Germania e getta le premesse per diventare la prima potenza economica globale
Cina, prima nel mondo per le esportazioni
Alla fine i cinesi ci sono riusciti. Nel 2009 la Cina è diventata il primo Paese del mondo per volume di esportazioni sopravanzando la Germania. Era una notizia attesa ma si tratta in ogni caso di una svolta epocale che prelude ad un sempre maggiore ruolo interventista dell’ex Celeste Impero sullo scenario internazionale non solo in termini economici e finanziari, come è normale che sia, ma anche in campo politico e militare. L’ufficio centrale tedesco di statistica ha reso noti ieri i dati relativi al periodo gennaio-novembre 2009 da quali emerge che le esportazioni tedesche hanno toccato i 734,6 miliardi di euro (1050 miliardi di dollari) contro i 748 miliardi delle esportazioni cinesi pari a 1070 miliardi di dollari. La svolta è significativa perché è dal 2003 che la Germania guidava la particolare classifica e perché la perdita del primato non implica un calo delle esportazioni tedesche che semmai negli ultimi mesi sono aumentate. A novembre infatti il saldo dell’interscambio commerciale tedesco ha toccato i 17,2 miliardi (in ottobre era di 13,6 miliardi) e questo rappresenta un record per tutto il periodo che parte dal giugno 2008. Da parte loro le esportazioni hanno toccato i 70,6 miliardi (+12% sul 2008) e le importazioni hanno segnato il tetto di 53,4 miliardi con un calo del 5,9%. Se quindi la Germania, nonostante la crisi, appare in piena salute, questo finisce per attribuire ancora più importanza e rilievo al primato cinese.
Un primato costruito con la pazienza delle formiche e che vide il suo avvio nella storica visita di Nixon e Kissinger a Pechino nel febbraio del 1972, grazie alla quale la Cina incominciò ad aprirsi al Libero Mercato, pur lasciando le redini del potere reale nelle mani del Partito Comunista che oggi, come allora, continua a dettare le regole del gioco e a stroncare con la massima energia e ferocia chiunque tenti di minare le fondamenta degli equilibri esistenti. Si tratta di una commistione mai vista prima di libertà di mercato e di autoritarismo politico che ha dimostrato di poter resistere agli influssi esterni del mercato globale. La Cina ha potuto buttare sul tavolo da gioco la tradizionale operosità del suo popolo che non si era fatta comprimere nemmeno negli anni più bui della dittatura. Una operosità che le comunità di cinesi sparse per il mondo hanno esportato nei Paesi di adozione e che gli ha consentito spesso ad impiantare vere e proprie aziende nella nuova realtà. Come avevano fatto in precedenza i giapponesi, pure i cinesi hanno copiato i prodotti dalle aziende cosiddette “occidentali”, europee e americane, poi hanno cercato di assimilarne la tecnologia e al tempo stesso hanno investito sul capitale umano mandando migliaia di giovani a formarsi nelle università straniere. Infine, imparato il come si fa, il cosiddetto “know how”, le conoscenze tecnologiche, i cinesi hanno incominciato ad inondare il mondo di prodotti propri che si avvantaggiano di prezzi bassi, frutto di un costo del lavoro decisamente minore di quello dei Paesi occidentali. Certo, all’inizio i prodotti cinesi non brillavano per la qualità della loro tecnologia ma poi, come è fisiologico che fosse, le cose sono cambiate e il prodotto cinese si è affermato anche nei settori dell’alta tecnologia, quella per intendersi che rappresenta una assicurazione per il futuro perché garantisce ad un Paese la possibilità di esercitare un ruolo primario negli equilibri economici e politici internazionali, ad incominciare da quelli militari. E così dopo aver inondato il mondo con prodotti tessili molto concorrenziali per il prezzo e che crescevano progressivamente in qualità, grazie anche all’apporto di imprenditori stranieri, italiani in primis, residenti in loco, la Cina riesce ora ad esportare prodotti contraddistinti da una tecnologia che non ha nulla da invidiare, anzi, a quella europea, statunitense o giapponese. Certo, c’è da tenere presente, che nel suo impetuoso sviluppo la Cina è stata molto aiutata dal sostegno ricevuto dagli Stati Uniti. Nixon e Kissinger già 38 anni fa avevano intuito le enormi possibili rappresentate da un Paese di quasi un miliardo di abitanti. Una realtà da usare non solo e non tanto in funzione anti sovietica ma da destinare a mercato di sbocco per i prodotti statunitensi. E fino a pochi anni fa questa era la base del legame tra Pechino e Washington, un legame preferenziale che aveva portato i cinesi a detenere il 70% dei titoli del debito pubblico americano. Ora questo legame si è rivelato essere troppo soffocante per i cinesi che si rendono ben conto della debolezza strutturale dell’economia Usa della quale la crisi finanziaria del 2008 non è stata altro che la punta dell’iceberg. Come facciamo a fidarci, hanno pensato i dirigenti cinesi, di un Paese come gli Usa gravato da un gigantesco debito pubblico e da un altrettanto enorme disavanzo commerciale? Che valore possono avere i titoli Usa che abbiamo in portafoglio e che valore può avere ormai una moneta come il dollaro, accettata in nome dell’abitudine come mezzo di pagamento nelle transazioni commerciali internazionali, mancando per ora una alternativa concreta, ma ormai priva di valore reale? Da qui il progressivo sganciamento di Pechino dai vincoli con gli Usa, da qui la richiesta di sostituire il dollaro con un paniere di monete che comprenda l’euro, lo yen giapponese, la sterlina, lo stesso dollaro e appunto lo yuan cinese. Un traguardo inevitabile e al quale prima o poi si arriverà con i cinesi che non nascondono le loro ambizioni sul fatto che lo yuan possa arrivare ad essere la moneta di riferimento del panorama internazionale. Del resto, se la Cina è il primo esportatore del globo, è fisiologico che lo yuan ne guadagni in autorevolezza e assuma un ruolo primario come mezzo di pagamento.
Ma il primato di Pechino deve indurre anche ad una seria riflessione sulla decadenza economica degli Stati Uniti. Doversi accontentare del terzo posto, dopo Cina e Germania, come Paese esportatore, implica che gli Usa non riescono ad imporre il proprio modello economico all’estero. Basando ormai da anni la propria forza sulla domanda proveniente dal mercato interno, si tratta pur sempre di un Paese di 300 milioni di abitanti, non riescono però a diffondere più nel mondo la propria tecnologia se non quella che ha immediate applicazioni in campo militare. E infatti gli Usa appaiono oggi soprattutto come un colosso militare destinato nel lungo termine a divenire un nano politico in conseguenza della sua debolezza economica. E la Cina è ben pronta a prenderne il posto, potendo mettere in campo tutta la forza e l’energia di un Paese ancora giovane e con la voglia di crescere ancora.
http://www.rinascita.eu/index.php?action=cat&c=25
Articolo letto: 25 volte (08 Gennaio 2010)
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